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L’accidentato ritorno al futuro di una pratica teorica

 

di ADELINO ZANINI

Un’attenta ricostruzione della pratica teorica di Antonio Negri nel ventennio tra 1958 e 1979. È questo l’arco temporale in cui il pensiero e la prassi di un filosofo a suo modo maudit si radicano e si esplicano, dapprima nel Veneto di fine anni Cinquanta – laboratorio anomalo quanto mai -, poi nella Milano operaia e sovversiva del più lungo decennio della seconda metà del secolo breve: gli anni Settanta. Di ciò discute Mimmo Sersante (Il ritmo delle lotte. La pratica teorica di Antonio Negri (1958-1979), Ombre corte, pp. 174, euro 16), per rendere ragione di una «vicenda intellettuale all’insegna della militanza», scegliendo di fermarsi là dove l’«oltre Marx» (del pensiero e della pratica) – un «oltre» in cui il comunismo avrebbe dovuto esprimersi già nella forma della transizione – cozzò contro il blocco dell’anomalia italiana.
Una ricostruzione assunta e presentata come collettiva – persino nei tratti più squisi-tamente accademici della ricerca – e nella quale ciò che resta implicito è il giudizio circa il poi, giacché se è fuori dubbio che «le cose andarono ben diversamente» da quanto auspicato, Sersante decide, in modo certo legittimo, di fermarsi proprio sulla soglia dell’elaborazione della sconfitta, solo dopo la quale la vicenda operaista divenne «tradizione» – quella stessa a cui l’autore appartiene e sulla cui base argomenta.
Il canone interpretativo proposto assume una circolarità produttiva fra pratica politica e pensiero, evidenziando come lo stesso registro linguistico negriano sia stato in fondo forgiato da questa circolarità. Di qui la stringente contestualizzazione dei testi (non solo di quelli più esplicitamente politici), di qui il tentativo di far emergere, sempre e comunque, il lato della militanza in una vicenda collettiva unica in occidente; di qui, infine, la rivendicazione della non obiettività: ossia, la soggettivazione della presa di parola.
Luoghi, individui, testi restituiscono un intreccio di vicende su cui molto si è scritto e su cui gli stessi protagonisti sono più volte tornati. Nel caso di Negri ciò è ancor più vero, se si considera che l’esposizione mediatica seguita al 7 Aprile di fatto non è mai venuta meno del tutto. Del resto, il libro di Sersante non si limita a contestualizzare un pensiero e le sue singole manifestazioni; in un certo senso, attraverso i testi restituisce una pratica. Così lo storicismo indagato dal giovane Negri e il successivo studio dedicato allo Hegel di Jena alla fine degli anni ’50 spiegherebbero, ad esempio, non solo la distanza rispetto alla tradizione crociana e gramsciana, ma anche la «visione» in base alla quale Negri affronta il noviziato militante: da Padova al distretto del Brenta, a Marghera.

Nel segno della contingenza

Non si tratta certamente di un’inversione di principio, anzi. Infatti, lo studio da Negri dedicato al formalismo giuridico nel ’62 lo si potrebbe leggere – osserva Sersante, chiosando quanto lo stesso autore avrebbe osservato quarant’anni dopo, quantunque in senso opposto – non solo come critica del concetto di forma giuridica (critica per molti versi inscritta nella cortocircuitazione di un approccio dialettico, che privilegiava Lukács piuttosto che Nietzsche), ma anche alla luce della frequentazione del gruppo dei «Quaderni rossi» e della scoperta della Torino operaia. D’altra parte, quando si affermi che non sarebbe una forzatura ipotizzare che, per il «cattivo maestro», Descartes e Keynes siano stati le teste pensanti e i due estremi temporali della lunga parabola della storia dello stato moderno, di nuovo, è il pensiero a dar conto di una pratica. Si badi, di una pratica molto contingente, che si concretizza ad esempio nella domanda: «Perché proporre Descartes alla fine degli anni Sessanta?».
Non sono i concetti a creare la realtà, indubbiamente, ma la creazione di concetti avviene affinché della realtà si dia l’interpretazione che alla «presa di parola» soggettivamente connotata pare essere più congrua (la lettura negriana di Spinoza e i concetti in essa rielaborati – primo fra tutti quello di moltitudine – l’avrebbero confermato oltre ogni dubbio). Ciò di cui troviamo chiara traccia nell’intera esperienza operaista di matrice trontiana, nel suo «stile» teorico, accusato, proprio per questo, di astrattezza e di «hegelismo» già all’interno degli stessi «Quaderni rossi». Tale «stile», d’altronde, sarebbe stato impensabile in assenza di un punto di vista di parte. Sersante, a ragione, insiste a più riprese su ciò e, a ragione, lo salda alla presenza di un leninismo irriducibile, che nell’operaismo e in Negri, in particolare, significava tutt’altro rispetto alla tradizione pratica e teorica della sinistra italiana ed europea.

In nome della tendenza

Tutt’altro, ma non necessariamente la stessa cosa. Non per caso, il nodo dell’organizzazione si sarebbe rivelato essere, e a più riprese, un elemento di forte tensione: non solo – ciò che fu indubbio – in relazione alla pratica politica quotidiana («il tema dell’organizzazione ossessiona tutto il gruppo di Potere operaio», scrive Sersante), ma anche in rapporto alla legittimità o meno di «spingere» l’anticipazione teorica – di nuovo, la creazione di concetti capaci di leggere i rapporti di classe – sino od oltre un certo punto. La vicenda di «Rosso» è al riguardo, forse, la più indicativa.
«A partire dal ’69, Negri parla e scrive come militante». La circolarità produttiva fra pensiero e pratica politica trova quindi un punto di sintesi e un’opera canonica. Testi quali Crisi dello Stato-piano (1971) e Partito operaio contro il lavoro (1972) estraggono dai Grundrisse il nesso tra critica della cate-goria di «denaro» e proposta politica rivoluzionaria: è questa la sintesi da cui prenderà le mosse ciò che sarà definito «antagonismo della tendenza». Qui la nuova composizione di classe svela in cosa consista la produzione di merci a mezzo di comando, il rifiuto del lavoro, la necessità del «partito», ovvero di un’avanguardia di massa.
Ma anche un pensiero militante conosce fratture; anzi, le auspica. Nel momento in cui inizia il ripiegamento su se stessa della grande fabbrica fordista, emerge il «territorio» come problema. Milano, più di ogni altro luogo in Italia, è nella prima metà degli anni Settanta «il principale laboratorio politico dei nuovi soggetti». Ed è a questo punto che nella pratica teorica di Negri avviene – secondo Sersante – una «cesura epistemologica», rinvenibile, essenzialmente, nei cosiddetti «libri del rogo» (apparsi negli «Opuscoli marxisti» feltrinelliani) e in Dall’”Estremismo” al “Che fare?”, saggio compreso in La forma-stato (1977). È ormai maturo il concetto di «operaio sociale» e, con esso, l’«oltre Marx»; un «oltre» indotto, anche, dall’irrompere del Settantasette.

Il moderno dei maledetti

Vennero poi gli anni più duri e più difficili, accompagnati dal tentativo di ricostruire, anche teoricamente, un terreno d’intervento rivolto all’operaio sociale. Ma era ormai «troppo tardi» – scrive Sersante. Dopo il rapimento Moro tutto precipita, tra «furore dell’ideologia» e «inintelligenza del movimento». Negri, invitato all’École Normale Su-périeure (rue d’Ulm) da Althusser, prima di finire in galera, avrà modo di scrivere Marx oltre Marx (1979), un testo che ne «riassume sul piano teorico la militanza comunista tra il ’69 e il ’77». Testo conclusivo di un lungo ciclo, dunque, ritmato da un confronto serrato coi Grundrisse e dalle intuizioni folgoranti in essi espresse. Astrazione determinata, antagonismo della tendenza, general intellect, dialettica e/o separazione. La riscrittura negriana di Marx era giunta a termine. Poi, Marx sarà da rileggersi tra altri «maledetti»: Machiavelli e Spinoza. Muterà la militanza, muterà il lessico, non muterà lo «stile» della pratica teorica.

* Pubblicato su “il manifesto”, 14 luglio 2012.

 

 

 

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