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Alle origini del biopolitico. Un seminario

 

di TONI NEGRI

 

a) Marx in Italia e in Francia. La “rottura” fra marxismo tradizionale e marxismo critico negli anni ’60-’70.

Ci proponiamo di studiare la propagazione del concetto di “biopolitica”, naturalmente assumendo che la sua genesi è foucaultiana e che il suo sviluppo filosofico è consacrato dall’opera di questo autore. Ma noi proveremo a tenerci fuori dal terreno della storia della filosofia. Cercheremo piuttosto di seguire il cammino di alcune correnti eterodosse del marxismo occidentale (in Italia e in Francia soprattutto) ed illustrare come esse (oltre ad essere state dentro ed aver respirato l’aura degli eventi che  hanno accompagnato la genesi del concetto) sulla “biopolitica” hanno sviluppato, fra gli anni ’60 e ’70, strategie di intervento che ne avevano il segno e ne esprimevano la potenza. Ma per far questo occorre allungare il racconto e ricordare i presupposti a partire dai quali questa vicenda divenne possibile.

Cominciamo ricordando cosa sia stato l’“operaismo italiano”. Non tanto per metterne in rilievo il valore teorico (che comunque emergerà se il lettore sarà paziente) quanto per chiarire che l’innovazione scientifica del “biopolitico” si dà in quegli anni ’60 che vedevano, insieme, l’esaurirsi dell’esperienza della Resistenza europea e l’esplosione dello sviluppo economico ad egida fordista – si dà essenzialmente, dunque, attraverso un’esperienza che ha cercato di unire pensiero e pratica di una nuova politica operaia, in un tempo determinato (alla fine degli anni ’50, dopo il Ventesimo Congresso PCUS, dopo la rivolta operaia di Budapest, ma soprattutto dopo la sconfitta della Fiom – il sindacato metallurgico di Gramsci – a Torino, Fiat Mirafiori) e in un ambito determinato, quello della fabbrica moderna. Si trattava di ricostruire l’organizzazione politica in fabbrica. Permettetemi di portare, a proposito dell’ “operaismo italiano”, la mia esperienza diretta. Noi eravamo alla ricerca di un soggetto forte, la classe operaia, in grado di contestare e di mettere in crisi il meccanismo della produzione capitalistica. E ci riuscì: fu un movimento che, da dentro le grandi fabbriche, come esercizio di contropotere operaio nei confronti del padronato e, spesso anche, dei sindacati ufficiali, poi, sempre più spesso come una forza autonoma che produce egemonia sui comportamenti politici degli operai, condusse le lotte fino al ’68. Che in Italia sarà ‘68/’69, contestazione giovanile più “autunno caldo” degli operai, quando ci fu un forte cambiamento del rapporto di forza tra operai e capitale, con il salario che andò ad incidere direttamente sul profitto. E poi un ‘68/’69 che durò fino al ’77.

E questo potè avvenire anche perché c’era stato l’operaismo, con il richiamo alla centralità della fabbrica, alla centralità politico-operaia nel rapporto sociale generale. Diceva Tronti: “occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: ed il principio è la lotta di classe operaia. A livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria riproduzione”.

Si trattava di dare una nuova forma, teorica e pratica, alla contraddizione fondamentale. Teoricamente, la contraddizione fondamentale veniva individuata all’interno stesso del rapporto di capitale, quindi nel rapporto di produzione, quindi in quello che chiamavamo allora “il concetto scientifico di fabbrica”. Qui l’operaio collettivo aveva potenzialmente, quando lottava e se organizzava autonomamente le sue lotte, una sorta di sovranità sulla produzione, era, o meglio poteva diventare, un soggetto rivoluzionario. Diceva Marx: “è il lavoro non come oggetto ma come attività; non come valore esso stesso ma come sorgente viva del valore. Di fronte al capitale, nel quale la ricchezza generale esiste oggettivamente, come realtà, il lavoro è la ricchezza generale come sua possibilità, che si conferma nell’attività come tale. Non è affatto una contraddizione dunque affermare che il lavoro è, per un lato, la miseria assoluta come oggetto, per l’altro è la possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività”.

L’analisi – e l’attività militante di organizzazione – si basavano sulla figura centrale del “modo di produzione” in epoca fordista: l’operaio di linea, l’operaio alla catena di montaggio, dentro l’organizzazione taylorista del lavoro. Qui – dice ancora Tronti, l’alienazione del lavoratore toccava il suo livello massimo – ma anche il livello massimo di resistenza. Quell’operaio con il quale costruivamo organizzazione e lotte, non solo non amava ma odiava il suo lavoro. Il rifiuto del lavoro divenne così un’arma mortale contro il capitale. La forza lavoro, in quanto parte interna del capitale (come capitale variabile distinto dal capitale costante), facendosi autonoma, si sottraeva alla funzione di lavoro produttivo, impiantando una minaccia nel cuore del rapporto capitalistico di produzione.

Che cosa aggiungere? Che questo punto di vista militante – che consisteva nel passare dallo studio delle leggi di movimento della società capitalistica all’analisi delle leggi di movimento del lavoro e della resistenza operaia –  presto s’impose non solo in Italia, ma ovunque si dessero lotte nelle fabbriche fordiste dell’operaio-massa. Fu una stagione violenta ma piena di speranza – sembrava giusta la frase di Marx: il proletariato, emancipando sé stesso, emanciperà tutta l’umanità; meglio, il proletariato, liberando sé stesso distruggerà la società di classe.

Come reagirono le forze capitaliste a questo attacco? Sviluppando una vera e propria contro-rivoluzione. Siamo ormai negli anni ’70. Per rispondere alla minaccia della centralità operaia il capitale ha deciso di abbattere la centralità dell’industria ed ha abbandonato, o ha rivoluzionato, quella società industriale che era stata la ragione e lo strumento della sua nascita e del suo sviluppo. Fino al punto in cui il capitale industriale si è fatto capitale finanziario.

Ma guardiamo più da vicino i passaggi che questa contro-rivoluzione determina. In primo luogo, lo abbiamo già visto, c’è la trasformazione del modo di produrre. Alla catena di montaggio si sostituisce provvisoriamente l’“isola” toyotista; e poi in maniera continua, strutturale, intervengono i congegni dell’automazione; quel che resta di produzione diretta comincia ad essere “messo fuori” dalle fabbriche e le “esternalizzazioni” si moltiplicano; infine, man mano, la società è informatizzata e posta sotto il controllo del capitale finanziario – si entra così nel post-fordismo. Ma – ed eccoci ad un secondo punto – anche il lavoro cambia, la socializzazione capitalista comincia a darsi su ed attraverso processi di sfruttamento che ormai sono divenuti sociali. Il salario non è più solo quella quantità monetaria che l’operaio contratta in fabbrica – esso è ormai riconfigurato come una macchina che insegue la riproduzione e la formazione della forza lavoro a livello della società intera e nel tempo della vita.

La questione alla quale a quel punto paradossalmente fummo costretti, fu: esiste ancora la classe operaia? Una classe operaia come soggetto centrale della critica al capitalismo? Non quindi come oggetto sociologico ma come soggetto politico. E le trasformazioni del lavoro, e della figura del lavoratore, dall’industria ai servizi, dal lavoro dipendente al lavoro autonomo, dal lavoro materiale al lavoro cognitivo, dalla sicurezza alla precarietà, dal rifiuto del lavoro alla mancanza di lavoro, tutto questo che cosa comporta politicamente? Ebbene: per rispondere a queste questioni, l’operaismo (almeno nelle sue correnti più attive), rispondendo a quella questione e seguendo il passaggio di realtà che nell’analisi era implicito, ha avuto l’intelligenza di trasformare un’archeologia storica (quella della lotta operaia) in una nuova genealogia, quella dell’operaio-sociale – ha così aperto un dispositivo per l’avvenire.

Così comparve il biopolitico: come vita messa al lavoro, e quindi come politica attivata per organizzare le condizioni ed il controllo dello sfruttamento sociale, sull’intera dimensione della vita. Si diceva in termini marxisti: il capitale ha “sussunto“ l’intera società. La scuola di Francoforte aveva descritto l’effettività e la violenza della sussunzione; ma non aveva colto la cosa fondamentale: il mutamento della figura di classe, la continuità metamorfosata della resistenza. Insomma, il biopolitico diventava centrale nel discorso politico quando cambia la natura della forza-lavoro; ed al lavoro industriale (come sorgente di produttività) si sostituisce l’attività sociale. Alla fine degli anni ’70 – ma poi soprattutto negli anni ’80 e ’90 – questa consapevolezza diviene generale. Il pensiero politico e la critica della sovranità debbono piegarsi a questa nuova ontologia. Biopotere e biopolitica – il primo come nuova figura della sovranità e del comando finanziario sul lavoro; la seconda come terreno sul quale la forza-lavoro esercitava (ad un tempo) la sua capacità produttiva e la resistenza, subiva l’alienazione ma al tempo stesso esprimeva nuove forme “esodanti” di rifiuto del lavoro.

Fin qui abbiamo cercato nel sapere legato alla militanza ed alle lotte operaie l’approfondimento della conoscenza del comando politico e delle sue mutazioni. Quel che abbiamo raccontato, avvenne in Italia negli anni che ci interessano. Nello stesso tempo, in Francia, sia pure in forme fortemente differenti, spesso sganciate (ma non sempre) dalla militanza, possiamo assistere ad analoghi processi – che portano alla scoperta di un nuovo terreno per la critica e di un nuovo conseguente volontarismo sovversivo. Ci sia dunque permesso di ricominciare qui il nostro ragionamento, situandolo dentro il dibattito politico e le esperienze di movimento in Francia, nello stesso periodo che abbiamo fin qui visto.

Dov’è, dunque, il marxismo critico in Francia in quegli anni che ci interessano? Non lo troveremo sicuramente nel PCF. Vi propongo un’altra ipotesi.

Tra gli anni ’50 e ’60, una parte, la più attenta, della filosofia politica francese, fortemente influenzata dalle correnti sotterranee del pensiero comunista, è investita da quella che si può definire la problematica della “riproduzione”. Ci si pone l’interrogativo sulle forme nelle quali il concetto, il sapere, l’ideologia influiscono sulla riproduzione dei sistemi sociali. Ci si chiede come, passando attraverso la consistenza ideologica del sapere, l’agire sociale e l’essere sociale possano perpetuarsi o modificarsi, o piuttosto essere interrotti o rovesciati.  Il tema non è più quello della continuità/discontinuità, dell’essere storico, ma dei dispositivi della mutazione.

Nell’economia classica e nel marxismo, riproduzione indica quel comparto economico nel quale i mezzi di produzione sono rinnovati. Estendendo il concetto si può dire che riproduzione significa rinnovamento continuo delle condizioni di sfruttamento della forza lavoro nel sistema del capitale. Perché il capitalismo riesce a riprodursi, riproducendo il rapporto di sfruttamento, o meglio accentuandolo? Come si può rompere questo processo che comprende produzione e circolazione, merci e sapere?

Negli anni ’60, attorno a Althusser, a Claude Lévi-Strauss, a Lacan, a Foucault, più tardi a Derrida, il problema della riproduzione è posto in maniera radicale. Questi pensatori se lo pongono come ricerca di una cesura, di una rottura. Essi vogliono comprendere quello che alla loro coscienza critica sembrava inverosimile, cioè: perché la riproduzione capitalistica del mondo sembra scorrere in maniera continua, senza rotture, quand’essa invece è sempre il risultato di lotte, quindi di discontinuità, di eccedenze, di innovazione?

Si potrebbe affrontare la medesima tematica fin qui proposta, partendo da una diversa prospettiva e cioè dal problema posto da Gramsci e dal marxismo critico negli anni ’20 e ’30. Quella problematica insisteva criticamente sul rapporto fra struttura e sovrastruttura: ma laddove, secondo il marxismo dogmatico, la struttura è economica e la sovrastruttura ideologica, Gramsci (e tanti altri con lui) nega l’efficacia di questa distinzione ed afferma che i rapporti di dominazione divengono reali quando l’ideologia è implicata nella produzione. L’affermazione egemonica è dunque un potere che pone rapporti di produzione e rapporti ideologici in mutua interrelazione. Questo diviene anche il tema dei filosofi di rue d’Ulm – all’ENS – dove appunto quei pensatori si ritrovavano, tra gli anni ’50 e ’60. Essi affrontano il problema della riproduzione, riconducendo il rapporto di produzione ad una serie di equivalenze antropologiche, ovvero all’affermazione che tutto, nella società, è produttivo e che quindi non esiste più “fuori” rispetto alla produzione. Questa non è un’affermazione anti-marxista (che attacchi o neghi la centralità del lavoro operaio): al contrario, ne accentua l’importanza, interpretandolo come attività sociale.

Finalmente dunque si arriva negli anni ’50 e ’60, in uno dei centri intellettuali europei (quale è Parigi), a comprendere quello che, oltre a Gramsci, Lukacs e Benjamin ed altri avevano raccontato fra gli anni ’20 e ’30: non c’è più “fuori”, produzione e riproduzione sono un tutt’uno, un insieme. Con ciò si pongono le basi per rifiutare, contro la tradizione marxista ortodossa, ogni possibilità di mediazione esterna ai movimenti, ogni ricorso ad un modello dualista, fosse esso anche la pretesa di verità da parte del Partito.

Se non esiste un “fuori” della produzione e se il sapere, l’ideologia, il concetto stanno dentro il processo di riproduzione, allora questo insieme di potenze è organizzato autonomamente o, meglio, strutturalmente. Ma che cos’è una struttura o, meglio, cos’è lo strutturalismo?

Deleuze definisce cinque caratteri dello strutturalismo: 1. l’oltrepassamento della relazione statico-dialettica del reale e dell’immaginario; 2. la definizione topologica dello spazio concettuale; 3. il riconoscimento della struttura attraverso l’identificazione di un rapporto differenziale degli elementi simbolici; 4. il riconoscimento del carattere (conscio ed) inconscio della relazione strutturale; 5. il movimento seriale o multi seriale della struttura stessa, cioè l’autoregolazione interna. Secondo Althusser la struttura è un “processo senza soggetto” e cioè uno spazio logico completamente chiuso. La realtà era dunque qui ritagliata secondo una sezione sincronica. Ogni relazione doveva essere compresa nella sua collocazione sistemica. La filosofia della storia, il positivismo ed ogni teleologia, erano tolti di mezzo.

Ma tutte queste definizioni sarebbero assolutamente irrilevanti se non sapessimo leggere, in questa formidabile stagione di ricerca, un unico solido risultato: la liquidazione di ogni concezione trascendentale nell’accostarsi alla storia ed al mondo. Quello che prima si era visto, e cioè la critica interna di un marxismo dottrinale che si presentava nel suo fondamento filosofico come un’epistemologia dualistica di strutture e di sovrastrutture, nel suo progetto politico come dualismo di partito (guida) e di movimenti (spontanei) – quella critica la ritroviamo qui trasformata attraverso la definizione di un tessuto ontologico sul quale il dualismo non trova più possibilità o condizioni di esistenza.

Il nuovo problema sarà allora, anche in Francia, quello che in Italia si era già posto in maniera sperimentale e pratica. Ma per risolverlo bisognava procedere oltre: quella prospettiva strutturalista non poteva infatti reggersi. Come si poteva infatti pensare un “processo senza soggetto”? In realtà quest’ipotesi doveva essere evacuata ed al tempo stesso un altro problema esser posto: come restaurare la soggettività e collocarla dentro quel quadro nuovo, solido di immanenza?

È qui che emerge il pensiero di Foucault, quand’egli affronta questo problema e trasforma la prospettiva strutturale in prospettiva biopolitica.

Quando Foucault comincia il suo lavoro, una serie di condizioni erano quindi ampiamente maturate.

In primo luogo, l’insistenza dello strutturalismo si era efficacemente rivolta contro “l’autonomia del politico”, contro ogni ideologia che isolasse la funzione politica rispetto alle lotte economiche e sociali. Da subito il politico sembra assumere, nello strutturalismo, una caratteristica biopolitica: il sociale è sussunto nel capitale. Tanto più ogni espressione dell’immaginario: il politico si esercita lì dentro. È questo l’esempio estremo narrato: la follia e la disciplina della follia debbono essere riconosciute come politiche, economiche e sociali.

In secondo luogo, il contesto biopolitico viene posto contro “l’isolamento del sociale”, cioè proprio contro quella tradizione francese, durkheimiana, che vede nel sociale una sorta di indipendenza ed una capacità di condizionamento degli altri aspetti della vita. No, non esiste una categoria del sociale che domini il resto, esiste solo una realtà sociale ricca che è un insieme economico e politico…poi diverrà libidinale, passionale, fantastico.

In ogni caso – e in terzo luogo – siamo in una situazione nella quale la struttura comincia a vivere: il passaggio foucaultiano al biopolitico non è una traduzione delle posizioni francofortesi (Marcuse, “l’uomo a una dimensione”) in cui pure si riunificava l’umano attorno a un’ontologia del potere, ma nell’alienazione, nel dispotismo generalizzati – qui si tratta esattamente del contrario perché in Foucault l’umano si agita, si muove, si trasforma. Vale a dire che, nella misura in cui il contesto strutturale è attraversato dalla soggettività, esso si apre a molte dimensioni.

Qui l’incontro con le posizioni dell’operaismo italiano che considerava sempre il capitale come un rapporto di comando, e cioè il capitale come un’unità rotta in due – capitale variabile contro capitale costante, come resistenza e comando, come puissance e pouvoir – bene, quest’incontro è dato.

Per concludere: fin da principio in Foucault c’è una tensione insopprimibile alla rottura del nesso funzionale della struttura, ed in ogni caso, quello che Foucault non sviluppa verrà, come in una staffetta, svolto da Deleuze.

Anche Deleuze veniva dall’esperienza strutturalista. Ma già negli anni ’60 egli aveva trasformato lo strutturalismo, il campo strutturale, nella rigorosa costruzione di un “campo di immanenza”, reinterpretando fin dall’inizio la dimensione biopolitica come terreno di dispositivi costitutivi. È Guattari che lo aiuta in quest’operazione cruciale. Il dispositivo è un’operazione non solo epistemologica ma anche ontologica, che ricostruisce il reale dal basso, in situazione, secondo una pragmatica orientata. Qui è fondamentale il richiamo a Spinoza – ad una nuova lettura di Spinoza che toglie al panteismo ogni effetto statico per scoprirvi, di contro, riccamente, una pulsione creativa. La biopolitica sarà allora qui percorsa dalla “cupiditas”, dal desiderio, quindi dalla puissance d’agire. Ed è qui che il pensiero di Nietzsche, oltre a quello di Spinoza, sono messi al servizio di una filosofia materialista della liberazione.

Ecco qui ripreso un altro elemento dell’operaismo italiano: il riconoscimento, cioè, che se la società è stata strutturata e interamente sussunta dal capitale, se non c’è più “fuori”, “dentro” si sviluppa ovunque la lotta di classe – il riconoscimento, dunque, che la lotta di classe costituisce il reale e che la militanza rivoluzionaria lo interpreta.

Invero, il pensiero filosofico francese aveva elaborato fin dagli anni ’30, dall’ultimo surrealismo, fino agli anni ’60, a Guy Debord, una singolare visione della “sussunzione reale” della società nel capitale, e l’aveva elaborata nel senso che questa sussunzione è immediatamente considerata come una totalità dell’essere. Voglio dire che, nel post strutturalismo, le caratteristiche della sussunzione reale sono in parte riprese da una tradizione. Ma questa ripresa supera ogni figura ideologica ed è quindi realisticamente operativa perché una serie di condizioni storiche, economiche e sociali, si erano nel frattempo date. Quali sono queste condizioni? Il primo elemento, dal punto di vista storico, è che (come già abbiamo sottolineato) attorno al ’68 si apre il passaggio dalla società di produzione fordista alla società di comunicazione o post-fordista. Anticipata dalle riflessioni di Guy Debord questa percezione è fortissima ed il mondo produttivo è interpretato in questa luce.

In secondo luogo si registra qui il passaggio dalla “società disciplinare” (ovvero di “governo”) alla cosiddetta “società di controllo” (ovvero di “governance”). L’analisi s’approfondisce fino a riconoscere che, nelle società di controllo, produzione e resistenza si organizzano attraverso “modi di vita”. L’operazione alla quale qui si assiste, consiste in un totale rovesciamento del campo strutturale, e cioè nell’articolazione del “campo di immanenza” come campo biopolitico. Non c’è più “fuori”, dehors, il bios è quel “dentro” nel quale si è completamente coinvolti. La resistenza esemplifica così l’agire nella contraddizione – ma la contraddizione nella quale si è immersi è realtà biopolitica. Qui vive il corpo collettivo, perché produce tutto, perché lavora, ma soprattutto perché resiste e sulla resistenza configura la realtà.

Il terzo punto consiste, conseguentemente, nella ridefinizione della forza-lavoro. Essa diventa – e deve essere riconosciuta – nel post-fordismo, sempre più come socialmente attiva e cooperante, tanto più immateriale quanto più la valorizzazione si realizza nei servizi cognitivi.

Si cercherà a questo punto di dare una seconda definizione del campo di immanenza. L’abbiamo già in parte approssimata: il campo di immanenza è proposto come terreno biopolitico creativo. Se l’ontologia post-strutturale della “sussunzione reale” costituisce un’ontologia del biopolitico, allora il campo di immanenza deve mostrarci una dimensione creativa. Ma che cos’è questa creatività?

Non è facile dirlo. Se infatti in questo percorso filosofico, sempre sospinto da una specie di revisionismo (rispetto all’ortodossia marxista – ma che resta, a nostro avviso) rivoluzionario, è stato determinato un preciso “topos” – il campo di immanenza; se i nostri autori post-strutturalisti hanno, a questo punto, escluso ogni possibilità di approccio trascendentale alla realtà – come sarà possibile, a partire da questa topologia, porre un motore di creatività? Non saremo stati fatti prigionieri di un’immaginazione idealistica?

Di nuovo dobbiamo ricorrere all’analisi del capitale. Esso è un rapporto, abbiamo detto, ma dentro questo rapporto, nella lotta, si deve costruire un “telos” materialista. Che cosa sarà questo “telos”?

Permettetemi di semplificare e di dare in estrema sintesi il mio ragionamento. Nel campo di immanenza, l’attività umana tende a (meglio, soggettivamente protende desiderio e volontà verso) la costruzione di un mondo nel quale si possa liberamente vivere e costruire felicità. La forza-lavoro intellettuale, cognitiva, immateriale che oggi produce ogni ricchezza, vorrà dunque distruggere ogni forza contraria che gli impedisce quella felicità. Riprendendo Marx: il lavoro è la ricchezza generale come possibilità, è la sorgente viva del valore. Il rapporto di capitale è quindi sottoposto ad una pressione enorme che potrà farlo esplodere.

Per dirlo meglio, dov’è oggi la lotta di classe? Come si muove oggi il marxismo critico, non in quanto filosofia ma in quanto pratica di movimento? Bene, ci sono due indicazioni che derivano da quanto fin qui detto. Alla fine degli anni ’70 apparve chiaro che il marxismo dogmatico era finito. Ma apparve anche chiaro che il materialismo storico aveva invaso tutto il terreno del pensiero politico. Non ci si libera più dall’antagonismo di classe. In secondo luogo, ed è molto più importante, il concetto di classe, senza perdere le sue caratteristiche antagoniste, si era profondamente trasformato in quanto soggetto sociale: la classe operaia aveva trasformato la sua composizione tecnica in un processo da essa stessa messo in movimento – dalla fabbrica alla società. Sullo sfondo ontologico della mutazione dei rapporti di produzione e dello scontro politico, la classe operaia riappariva allora come moltitudine, cioè come insieme di singolarità che costruivano il comune.

Così si conclude – anche se mille problemi restano aperti – il nostro cammino alla ricerca di una genesi politica del “biopolitico”. Facciamo una sosta, apriamo ora alla discussione di nuovi temi e di nuovi aspetti del “biopolitico”. Sarà comunque difficile trarre conclusioni definitive.

 

b) Discussione

B1. Torniamo all’argomento: fondazione biopolitica del politico, ed apriamo qui un’altra parentesi nel processo che stiamo seguendo. Si impone infatti una domanda: quando proponiamo, da un punto di vista materialista, il rapporto topos-telos, lo proponiamo forse in termini di flusso ininterrotto? Vale a dire: è forse il “vitalismo” la filosofia della quale si nutre e attraverso la quale si esprime questo sviluppo particolare del pensiero sovversivo in Francia? È forse il vitalismo la traccia del biopolitico?

La risposta a quest’interrogativo è risolutamente negativa; gli autori che consideriamo non hanno nulla a che fare con la (pur grande) tradizione vitalista. I tre nomi del vitalismo di inizio secolo, Simmel, Bergson, Gentile, hanno sfiorato tematiche, come quelle che il post strutturalismo ha proposto, sempre tuttavia interpretando il flusso in quanto “forma”; le forme possono essere sociali e costitutive (Simmel), spirituali e fluenti (Bergson), disciplinari e dialettiche (Gentile), ma in tali prospettive manca sempre ciò che è essenziale oggi: manca cioè l’interpretazione del corso storico in quanto costituito da eventi e intrecciato da singolarità. Oggi, nelle esperienze filosofiche che consideriamo, non ci sono “forme” e, quand’anche ci fossero, esse si presenterebbero sempre come singolari ed evenemenziali. Se poi si vuol continuare a cercare la fonte del cosiddetto vitalismo post-strutturalista, essa non va riferita al vitalismo dell’inizio del secolo ventesimo, quanto piuttosto alla grande tradizione che va da Machiavelli a Nietzsche, attraverso Spinoza e Marx. In questi autori il vitalismo è una filosofia della potenza.

Siamo, dunque, qui, di fronte alla consistenza ontologica degli elementi del flusso. La differenza tra una concezione vitalistica classica e la definizione attuale del contesto dinamico dell’analisi filosofica consiste nel fatto che, mentre nel vitalismo del ‘800-‘900 il processo della vita si presentava come flusso metafisico, che le forme intercettano, separano, configurano, nei nostri autori sono invece eventi e singolarità gli attori che strutturano, costituiscono ed esprimono il flusso. Da questo punto di vista si assiste ad una trasformazione davvero cruciale, perché qui il possibile della vita si esprime come potenza; vale a dire che il punto di vista della metafisica vitalistica è qui tradotto nel punto di vista di una ontologia della prassi. La soggettività che era stata espulsa in quanto soggettività fenomenologica-trascendentale, è qui ripresa in quanto soggettività pratica, come capacità di fare, come materialità costitutiva del processo; questo fare può essere incontrollato, inconscio, ma è sempre irriducibile, forte, è sempre reale. C’è stato all’inizio di questa vicenda (nello strutturalismo) un rovesciamento della coscienza verso la materia, che diventa poi (nel post-strutturalismo) un riandare della materia verso la coscienza. Lo statuto ontologico è paradossalmente fissato, determinato e normalizzato dalla eccezionalità dell’innovazione, dell’evento, del singolare, ed il problema del rapporto topos-telos è ormai inserito nella tensione del possibile, situato nel dispositivo del dilatarsi della potenza.

 

B2. Se ora riprendiamo il filo del discorso che ci aveva portati dalla critica del moderno alla soluzione immanentista del problema della riproduzione ed alla rottura della concezione strutturale, fino all’emergenza di una nuova soggettività nell’approccio biopolitico – possiamo chiederci cosa, in quell’approccio filosofico contemporaneo che condividiamo, si definisca come “politica”. Insomma vorremmo tentare una definizione del “politico”, dopo aver tanto insistito sul “bios”.

Ricordiamo innanzitutto che nel periodo che ci interessa, il politico è al centro del filosofare. Quando infatti il terreno filosofico è radicalmente definito come “campo di immanenza”, e quando linguaggio e corpi rappresentano ormai, di questa immanenza, la sola materia, allora l’interrelazione ontologica dei soggetti, la costituzione logica del comune, cioè una sempre rinnovata genesi della città, divengono il cuore dell’analisi filosofica e questa deve sempre più riconoscersi come orientata dal politico (philosophia ancilla politicae).

Come si porrà allora, nella contemporaneità, la definizione del politico?

Si può considerare il politico secondo tre dimensioni definitorie: 1. sincronica; 2. diacronica; 3. ed infine secondo la figura della relazione del politico con la vita. Sembra potersi assumere, dal punto di vista sincronico, che il politico aderisca alla superficie dell’ontologia e che non possa esser rappresentato se non dentro l’orizzonte dell’ontologia. È nell’egemonia ideale del “dentro” dell’interiorità ontologica, che si determina il politico.

È su questa base che alcune teorie contemporanee, ed in particolare la prospettiva decostruzionista, cercano tuttavia un’alternativa rispetto alla compattezza dell’orizzonte ontologico, aprendo ad una concezione del politico, per così dire, eccedentaria o disseminativa. Per eseguire quest’operazione, occorre (per così dire) scuotere il campo di immanenza facendolo reagire ad un impulso diacronico. Secondo la “decostruzione” il “dentro”, assunto come totalità esistenziale e politica è allora dinamizzato, temporalizzato, attraverso sensi diversi del possibile che si presentano come eccedentari. È, questa eccedenza, qualcosa posto sul margine: l’eccedenza riguarda le forme al margine della totalità ontologica, definendole come disseminative, rizomatiche – e via così. Si potrebbe insinuare, dal punto di vista dell’immanenza, che qui, in forma estremamente tenue, si faccia, di nuovo, ricorso alla trascendenza…ma sarebbe ingiusto. Di fatto, la prospettiva analitico-negativa e decostruzionista, dopo essersi costruita in questo mondo piatto e pieno di essere, in questo mondo “senza fuori”, agisce sulle possibilità suscitate e rivelate dal bordo, sulla situazione marginale e cerca di riaprire, da questo margine, un’articolazione etica e/o politica che scuota la pienezza di un essere che sembra statico. In realtà, sono una pulsione morale, un’urgenza etica che agiscono qui, come se il campo di immanenza postmoderno, per il fatto di essere ontologico, togliesse la possibilità che un giudizio di valore gli si applichi. È allo scopo di riscoprire e di realizzare il valore del giudizio che il decostruzionismo agisce. Non è un caso allora che il giudizio politico si ponga qui a partire dal margine, dal limite, sospeso sul nulla. Di questa condizione, il Derrida che si ispira a Levinas, è il rappresentante più conseguente nello sviluppare la filosofia della decostruzione.

In maniera più radicale, altri autori, Jacques Rancière in particolare, cercano di sottrarsi alla presa politica del “dentro” ontologico. La politica in quanto “tipo di azione paradossale”, non avrebbe allora nulla a che fare con la dimensione materiale degli assetti di potere – con ciò che le condizioni sincroniche e diacroniche della sua azione efficace impongono, con i rapporti di forza determinati ed i regimi del potere storicamente fissati, insomma, con la biopolitica ed i  biopoteri. La paradossalità del politico consisterebbe nell’opporre alla realtà del potere l’autodeterminazione di “parti supplementari”, “vuote” di potere, “senza-parte” nel “partage” sociale complessivo. Qui dunque (rispetto alle definizioni di Derrida) la marginalità del soggetto politico diviene estrema ed egli non può più rifluire verso l’interno del sistema, come la decostruzione pur ammetteva. È qui chiaro che (sia pure in maniera paradossale) la trascendenza ed una sorta di assoluta purezza del giudizio sono chiamate a testimone della definizione del politico – facendo sospettare che qui ricompaia un fantasma dialettico; meglio, che qui esso aleggi fra il pieno della realtà e l’assolutamente “diverso” del politico. Badiou spingerà all’estremo questo dualismo paradossale, negando al politico ogni realtà ontologica.

Questo paesaggio può dunque essere riassunto sottolineando che – se la definizione del politico è cercata nell’eccedenza marginale dell’essere – ne consegue che quest’ipotesi falsifica la percezione che fissava nel “campo di immanenza” un orizzonte non oltrepassabile nella definizione del politico.

 

B3. Precisiamo qui che, qualora si assuma, sincronicamente, il “dentro” ontologico come dimensione esclusiva dell’esperienza politica, lo si dovrà considerare come “sovrabbondante”, vale a dire che questa realtà è un essere che contiene la presenza di un “oltre”, meglio, un’espressione di innovazione come consistenza dello stesso campo di immanenza. È Deleuze che esprime questa concezione, ed è sempre Deleuze che, anche dal punto di vista diacronico, propone il possibile come “piega”, pli, come continua riapertura di tensioni innovative, di eventi, sul terreno piatto e potente che il campo di immanenza ha mostrato. Non si tratta più qui di definire un margine disseminante e, a partire da esso, di costruire un’articolazione del valore: è piuttosto il centro di quest’essere che è espressivo – non attraverso la decostruzione bensì nella costituzione di una potenza, nella continua vicenda di pieghe e ripiegamenti, di movimenti (tenui ma forti) dell’essere.

A questo punto, tuttavia, ritorniamo all’analisi del campo di immanenza, per chiederci se, nelle alternative di definizione che abbiamo fin qui viste, non fosse già presente una diversa valutazione del campo di immanenza stesso, della sua consistenza ontologica. Per quanto riguarda gli autori della decostruzione, infatti, sembra che il terreno dell’immanenza sul quale essi operano sia anastorico, e quindi piatto e duro, laddove il “terreno liscio” di Deleuze mostra tuttavia anfrattuosità, grotte, pieghe e ripiegamenti dell’essere, ovvero una determinazione dell’essere (e della storicità) come pluralità di eventi e di intrecci. Questa prospettiva deleuziana non è tuttavia esente da critica. Se infatti si assume che, in Deleuze, continua sia la mutazione di tutti i termini di riferimento ed aleatoria la base di ogni loro consistenza e/o di ogni pulsione desiderante, ne viene comunque che, dentro questa definizione di “campo di immanenza”, sarà comunque ben difficile definire un’idea di politica e/o di potere. Siamo infatti in una condizione in cui se il politico si dà, si dà senza potere; l’esprimersi della libertà, su quell’aleatorio terreno, sembra escludere la possibilità stessa del potere. Si obietterà che comunque il potere esiste (ci sono i tribunali, le prigioni, le tasse, gli eserciti…): ma il filosofo potrebbe rispondere che queste forme hanno un valore nullo, che non rappresentano una realtà ontologica. Ed a ragione: nel campo dell’immanenza biopolitica infatti il negativo non può essere una condizione trascendentale, può darsi al meglio come assenza di essere – che è come dire: il negativo non c’è. Di fatto se la potenza si presenta come dispositivo di piena e totale costitutività; se la costituzione ontologica è potenza; si potrà aggiungere che il politico qui si configura non tanto come resistenza ma come generazione, non più come “essere contro” ma come “essere per”. Il negativo che si oppone all’ “essere per”, il potere che nega la “generazione” non ci sono – c’è solo la loro negatività, il loro “non-essere”.

Ma per andare in questo senso occorre aggiungere all’immanenza la storicità concreta, inseguire nel campo di immanenza le res gestae, perché così la resistenza positivamente restituisce il negativo al potere e la generazione restituisce il potere al non-essere tout-court. In Deleuze manca la piena riduzione dell’immanenza alla storicità: una convincente definizione del campo di immanenza e del biopolitico esige invece la coincidenza di immanenza e storia.

A questa condizione possiamo riconoscere di esser qui giunti non solo al termine della tradizione platonica (che rendeva il politico una trascendenza, imponendolo come forza e ordinamento); non solo al di là della tradizione aristotelica che considera generazione e corruzione come elementi che si nutrono in una reciproca vicenda; ma che in Deleuze – qualunque siano i limiti dell’esposizione – ci troviamo in una condizione totalmente nuova: la definizione di una politica dell’eterno, se “eterna” – irreversibile, irriducibile – è considerata quella costituzione materiale sulla quale (alla maniera di Spinoza) riposano le strategie della cupiditas come matrici dell’essere.

 

B4. Dopo aver visto in che maniera si definisca il politico dentro l’articolazione del sincronico e del diacronico, dell’essere e della storia, si tratta ora di considerare il politico in relazione alla vita. Ora, fra Derrida e Deleuze, fra “disseminazione” e “generazione” si afferma l’esperienza foucaultiana della potenza e della vita. Un’esperienza che pende sul lato deleuziano dell’alternativa interna al post-strutturalismo e si apre alla vitalità dell’essere ed alla generazione – piuttosto che alla decostruzione ed alla disseminazione; e che ulteriormente procede in riferimento alle determinazioni della storicità. Così, nel momento stesso in Foucault intende la centralità dell’immanentismo deleuziano, ne sottolinea i limiti concreti. È qui che la biopolitica diventa un’esperienza intera: la vita cioè rivela le condizioni politiche della sua produzione e riproduzione, e la filosofia (nonché la sociologia e le altre scienze umane) mostrano fin che punto questa interrelazione sia profonda ed intima. Il campo di immanenza è biopolitico.

Ma il biopolitico – espressione del desiderio vitale dei soggetti – si scontra con il biopotere. Non è uno scontro polare o molare; è piuttosto una dinamica microfisica e molecolare quella che il biopolitico esprime percorrendo e scontrandosi con il biopotere. Quest’ultimo cerca di dominare ognuna e tutte le espressioni vitali, cerca di proporsi come dissoluzione del tessuto biopolitico. L’esercizio del potere vuole risolvere in sé le differenze del biopolitico, sussumerne la singolarità degli atti, unificarne il soggetto. Di contro: le esperienze vitali che costituiscono il campo di immanenza biopolitico danno consistenza a dispositivi differenti da quelli che il biopotere vorrebbe fissare. Non si tratta dunque di opposizioni binarie, bipolari, molari – no, davvero, in nessun caso – si tratta piuttosto di infinite vie di fuga, ognuna intesa a costruire nuove dimensioni e territori dell’essere biopolitico. Tanto la reductio ad unum quanto l’operazione di fissazione trascendentale di questo movimento sono, non solo inadeguate, ma impossibili. Il re è nudo. La falsificazione (e/o la copertura della sua nudità) è prodotto di speculazioni parassitarie. Così il campo di immanenza, perfezionato, ci è restituito – al termine del lungo percorso che va dalla discussione sulla “riproduzione” negli anni post-bellici fino ad oggi. Foucault è l’autore che meglio ha saputo dare logica e figura a questo lungo processo di pensiero. Ma senza Deleuze il biopolitico è incomprensibile, perché esso non è solo struttura fisica o possibilità corporea o dispositivo singolare, ma è soprattutto potenza. Il biopolitico produce, con potenza, nuove soggettività.

B5. Sia qui permessa un’ultima parentesi: essa riguarda il concetto di multitudo.

Paradossalmente, uno degli aspetti più importanti della filosofia francese (post-strutturale e post-sessantottesca) è che, all’interno dell’insistenza sul campo di immanenza, essa apre alle prospettive ed ai problemi della globalizzazione. Voglio dire che questo pensiero non ha semplicemente interpretato (come nottola di Minerva) gli avvenimenti storici ma ne ha preceduto lo sviluppo. Il formarsi dell’impero, la liquidazione della sovranità nazionale, la deterritorializzazione dei concetti e delle categorie della scienza politica, il passaggio, dunque, dal moderno al post-moderno, sono stati spesso anticipati da quel pensiero politico che prendeva respiro dal “bios”. Basti ricordare le pagine dell’ Anti-Oedipe sulla mondializzazione, gli scritti di Derrida sullo Stato-nazione, ma anche – cose più banali – Lyotard sul valore, Baudrillard o Virilio sulla comunicazione: tutti questi elementi teorici sono intervenuti per definire in maniera ricchissima il passaggio della globalizzazione.

Tuttavia, ciò che a noi sembra più importante in questo passaggio dal moderno al post-moderno, ovvero dal politico al biopolitico, è la dissoluzione critica del post-moderno nel momento stesso in cui lo si definisce e, quindi, la possibilità di aprire qui una breccia attraverso la quale possano dilagare il flusso costituente del biopolitico e la sua libertà. Si è dentro un campo in cui in ogni senso si sviluppano i processi costituenti biopolitici; corpi diversi si accoppiano, si meticciano, si ibridano; nel lavoro immateriale è la cooperazione dei soggetti a costituire servizi e merci relazionali sempre nuove; ora, questa moltitudine di corpi e di attività, fisiche ed intellettuali, questa moltitudine di anime si dà come soggetto creativo. Questo soggetto è moltitudine. Nella modernità sia Bodin che Hobbes riducono la mutitudo a vulgus, Hegel a Poebel; la grossa novità è che qui, invece, questa multitudo, pur senza essere unita, è potenza. Multitudinis potentia.

Quando il filosofi moderni negano alla multitudo la possibilità di essere potente, lo fanno in relazione all’impedimento (intrinseco al suo concetto) di essere una. Sostituiscono quindi, al concetto di multitudo, quelli di nazione, di popolo o di razza, dove l’unità è imposta dall’esterno, ovvero quello di sovranità che si pretende unifichi la moltitudine dall’interno. Di contro, qui dove noi siamo, la multitudo non domanda unità: cionondimeno è produttiva. È un corpo senz’organi, corps sans organes nei Mille Plateaux. Che è come dire: ogni corpo è una moltitudine, ma la moltitudine non è un corpo, bensì un insieme di corpi – un insieme di libertà.

 

c) Note conclusiva

Il nostro percorso ha rivelato il biopolitico come “esperienza dell’esistente”. Questo riferimento sartriano non è inopportuno perché l’esperienza dell’esistente – ora certo altrimenti vissuta nel post-moderno – può esser ricondotta a quella condizione di riflessione e di azione, di engagement e di costituzione ontologica che Sartre, all’inizio della vicenda post-bellica della filosofia francese, drammaticamente ipotizzò. Attraverso questa reminescenza e questo rinnovamento, l’esperienza del biopolitico apre di nuovo alla prassi.

Ritorniamo così all’ “operaismo”, cioè a quel pensiero della prassi dalla cui analisi era partito questo seminario. Quello dell’ “operaismo” era stato un cammino appena iniziato. Occorre terminarlo. A questo proposito non sarà inutile ricordare che quel cammino tanto sovversivo (quanto lo è la filosofia francese di quest’ultimo mezzo secolo) esige di esser sempre nutrito da lotte e dall’organizzazione. Esse debbono risollevare uno spettro – lo spettro risorto (per dirlo con Derrida) del comunismo. Un comunismo che si regge su nuove gambe sociali – quelle dell’ “intellettualità di massa”, della forza-lavoro cognitiva, del proletariato migrante – e sulla nuova capacità di conoscere e di immaginare che questo nuovo lavoro impone e suscita. E poi nuove esperienze: quelle che nascono dentro una vita assoggettata al comando ed al consumo del capitale e che – dentro questo, e non altro dominio – si ribella. L’esperienza biopolitica va inventata con tutta l’intensità che ribellarsi “dentro” impone; immersi nell’estensione geografica e temporale che la globalità dei biopoteri determina; per ciò stesso consapevoli, tuttavia, che non ci sono più margini sui quali aleatoriamente difendere la nostra anima né evasioni possibili per i nostri corpi. Il “dentro” del biopotere ha un “cuore”: lottare contro il biopotere è possibile solo se, a quel cuore, gli si toglie ogni nutrimento e intera la circolazione. Perché non ci interessa il potere; abbiamo appreso la dissimmetria fra il desiderio biopolitico di democrazia e gli esercizi del biopotere; perché il “dentro” del campo di immanenza biopolitico non avrà finalmente più un centro, non avrà più un “cuore” ma solo “amore” che circola con violenza e costruisce libertà.

 

* Questo testo è stato spesso detto e discusso. Ricordiamo: la prima il 3 febbraio 1997 nel seminario del Collége International de Philosophie, diretto da Eric Alliez e da Barbara Cassin; la seconda volta, il 30 settembre 2000, in un seminario tenuto alla Fondazione Lelio Basso a Roma; l’ultima, il 21 novembre 2009 al Volksbuehne di Berlino, per la Rosa Luxemburg Stiftung

 

 

 

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