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Analisi di un call center

 

di PAOLO GRECO

Questo contributo vuole essere una prima riflessione sulla mia esperienza di un anno in un call center. Ho già lavorato in un altro call center, ma in quel caso si trattava di una commessa outbound: ero io a chiamare le persone per proporre un pacchetto assicurativo. Era un lavoro massificato in cui si cercava di “strappare” più contratti possibili. Nell’ultimo call center, invece, ho lavorato inbound per conto del servizio clienti di una grande azienda di telefonia. Quindi ero io a ricevere le chiamate dei clienti, cercando di risolvere i disservizi tecnici e fornendo informazioni amministrative e commerciali. Un lavoro che mi ha richiesto impegno e che mi ha dato la possibilità di vedere il funzionamento di una complessa commessa. Di seguito propongo alcuni elementi tratti da questa esperienza, consapevole che per poter comprendere nella sua totalità il lavoro nei call center bisognerebbe approfondire diversi aspetti che in questo articolo o sono omessi o sono semplicemente accennati.

 

1§ introduzione: la natura della chiamata

Sin dal corso di formazione che ho seguito in azienda prima dell’inserimento in linea (Front Line) mi è stato insegnato che ciò che caratterizza un buon operatore è la sua gestione del tempo. Il tempo è l’oggetto e l’ossessione di ogni discussione tra colleghi e di ogni richiamo da parte dei team leader (TL). L’azienda per cui ho lavorato, infatti, gestisce volumi di chiamate per conto di una compagnia telefonica e, quindi, più rapida è la gestione e più chiamate possono essere prese. Il tempo è suddiviso in quattro tipologie: la durata effettiva della chiamata (il tempo medio di conversazione – TMC), il tempo in cui non si è pronti a ricevere altre chiamate perché si sta facendo una procedura o un intervento tecnico che riguarda la chiamata appena avuta (not ready – NR), il tempo di attesa tra una chiamata ed un’altra (Wait) e, infine, il tempo in cui si sa sta gestendo il back office (not ready non telefonico). Ognuno di questi tempi viene calcolato ed è oggetto di una particolare attenzione da parte dei TL ed è soggetto ad un determinato target produttivo.

Ad esempio se un operatore prende 120 chiamate in un giorno il TMC è di 210 secondi. Su 8 ore di lavoro bisogna togliere 30 minuti di pausa pranzo più due pause caffè di 15 minuti ognuna: in una giornata il full time, quindi, è in linea 7 ore, ovvero 420 minuti. 420 minuti diviso 120 chiamate dà come risultato 3 minuti e 30 secondi di conversazione per ogni chiamata, ovvero 210 secondi di TMC (il tempo è sempre calcolato in secondi). Questo calcolo tiene presente che ogni chiamata entra appena finisce quella precedente, cioè si è in una situazione in cui il Wait non c’è. La gestione di ogni chiamata è fatta mediamente in 210 secondi. Se ci fosse stato del tempo di attesa la gestione media sarebbe stata più bassa.

Questo è solo un esempio che riflette una situazione “ideale” in cui non c’è Wait e non c’è NR. Si può pensare che la commessa immaginata non sia particolarmente complessa e che lo stesso operatore utilizzi solo alcuni applicativi sul computer (accenno solo al fatto che vi sono, anche, lavorazioni che richiedono un TMC di 60-70 secondi). La prospettiva, però, cambia se la commessa riguarda una compagnia telefonica e se l’operatore deve gestire questioni amministrative, disservizi tecnici, reclami da parte dei clienti e, infine, fornire anche informazioni commerciali in poco meno di 4 minuti, ovvero 240 secondi di TMC, e tenere sul desktop contemporaneamente aperti e consultabili almeno 10 applicativi diversi. Questo è quello che appunto accade ad un operatore che lavora per il servizio clienti di una compagnia telefonica.

Oltre all’importanza del tempo e della sua gestione nel corso di formazione viene posto l’accento su due aspetti: quantità e qualità. Da quanto precedentemente detto, l’obiettivo della quantità è raggiungibile nella misura in cui si abbassano i tempi di gestione di ogni singola chiamata. Per quanto riguarda, invece, la qualità sono molteplici i fattori che concorrono al suo raggiungimento. In primo luogo la competenza acquisita – detto per inciso la competenza è anche essenziale per l’abbassamento dei tempi di gestione – e, inoltre, l’empatia che si instaura con il cliente. La stessa qualità viene misurata in base all’indice di gradimento del cliente (Customer Satisfaction Index – CSI) ed è quindi soggetta a determinati parametri.

Volendo fare una breve considerazione si può affermare che ad ogni aspetto individuato della chiamata corrisponde un target produttivo. Si può dire che ogni parametro è la misura di un aspetto della chiamata e, contemporaneamente, la condizione di possibilità di un obiettivo produttivo da raggiungere. Questo si può tradurre in tre “questioni” fondamentali: quante chiamate si gestiscono, in quanto tempo si gestiscono e come vengono gestite.

 

2§ chiamate gestite e tempo di gestione

Il calcolo delle chiamate gestite è molto semplice: basta sommare le chiamate che sono entrate. Nel caso, invece, in cui si gestisce il back office è la somma delle chiamate effettuate (il back office opera in outbound: riceve una segnalazione e richiama il cliente per gestirla. Dal punto di vista dell’operatore che gestisce il back office vi è un determinato target). Come accennato, la commessa è pagata a volume di chiamate. Considerato ciò, nella gestione del lavoro dei team, tuttavia, è il TMC che viene posto come target principale. Il motivo è duplice: è più “facile” raggiungere il target delle chiamate rispetto a quello del TMC e, inoltre, è più controllabile il TMC. Si può affermare che la maggior parte delle forme di pressione subite dagli operatori vertono intorno al tempo di conversazione.

Il primo aspetto che colpisce quando si inizia a lavorare in front line è il continuo richiamo dei TL sui tempi: attraverso notifiche sul computer, grida dal posto di regia (dove si visionano i flussi di chiamata) e controlli tra le postazioni degli operatori. È un richiamo continuo, imperterrito, regolare. La pressione è sentita molto dall’operatore: come accennato la commessa è complessa e ci vogliono diversi mesi per poter incominciare a capire come agire nell’80% delle chiamate. Quindi l’operatore è non solo teso alla risoluzione di un disservizio, passando da un applicativo ad un altro per agire tecnicamente, ma ha anche costantemente un occhio sul timer su cui scorrono i secondi di chiamata.

Se nelle prime settimane l’operatore vive “in solitudine” questa pressione per abituarsi ai ritmi di lavoro, quando si è inserito a pieno regime incomincia a capire, questo è quello che mi è successo, che i ritmi non sono solo gestibili individualmente, ma sono influenzati dal flusso di chiamate e dalla composizione del proprio team. Ad esempio se non ci sono chiamate in coda (cioè clienti in attesa di parlare con un operatore) si ha il tempo di poter gestire il cliente in linea controllando il TMC e finire la gestione in NR. Se, invece, ci sono chiamate in coda non si può stare in NR (aumenterebbe l’attesa non essendo “disponibili” in linea) e, di conseguenza, appena finisce una chiamata ne entra un’altra. L’operatore, dunque, mentre risponde al cliente, finisce la precedente gestione (ad esempio terminando una procedura tecnica), inizia una nuova gestione, tiene d’occhio il tempo e sente la pressione dei TL che, immancabilmente, spingono non solo per avere i tempi in target ma, anche, più bassi per fronteggiare le chiamate entranti.

Quando succede questo è il caos. La cosa che mi ha lasciato stupito nelle prime settimane è che in tutta questa situazione gli operatori riescono a gestire – in un modo o nell’altro – effettivamente le chiamate nel TMC indicato. Il merito, a mio avviso, non va tanto ai TL, che molto spesso non hanno una formazione tecnica completa – come chi è in linea – e il cui lavoro è quello di controllare e motivare, ma alla collaborazione tra colleghi. È facile vedere uno “nuovo” che viene aiutato da un “vecchio” che intanto sta gestendo una chiamata a sua volta.

Qui scatta un fattore importante che non si deve dimenticare se si vuole comprendere come un lavoratore percepisce il proprio ruolo all’interno di un servizio clienti: il lavoro è così complesso che fare bene il proprio mestiere è fonte di soddisfazione. Anche io la prima volta che ho raggiunto nell’arco di un mese i target produttivi sono stato molto contento, perché era il frutto di un lavoro di aumento delle competenze (arrivando ad esempio prima al lavoro per “studiare” i nuovi prodotti e le nuove procedure), di pianificazione (ponendomi degli obiettivi intermedi da raggiungere) e di collaborazione tra colleghi.

Quanto descritto mette in evidenza due aspetti: le condizioni soggettive di lavoro e quelle oggettive. Tutto il sistema è retto, dunque, dalla capacità degli operatori di poter gestire in modo efficace un flusso di chiamate attraverso la collaborazione tra colleghi. Può sembrare strano ma dalla propria postazione, isolato da tre mini-pannelli e dal rumore di 40-60 persone che parlano contemporaneamente, concentrato davanti al computer, l’operatore riesce a dialogare con i propri colleghi. Un esempio è quello della comunicazione delle strategie più efficaci per la gestione di una particolare situazione o delle valutazioni su una nuova procedura appena introdotta. Questo si percepisce anche quando i tempi sono alti: la prima sensazione è di incapacità personale e mancanza di competenze. D’altro lato, se si “vede” che il collega ha le stesse difficoltà allora si passa da una sensazione di incapacità personale alla valutazione generale delle condizioni oggettive: per esempio pochi operatori devono gestire un improvviso picco di chiamate avendo, come ulteriore elemento di difficoltà, alcuni applicativi che non funzionano.

Questo esempio porta a considerare le condizioni oggettive in cui si svolge il lavoro. Di tutti quegli aspetti che concorrono a costituire le condizioni oggettive – ad esempio gli applicativi utilizzati, vorrei parlare del flusso di chiamate. Essendo un servizio clienti, non si può che prevedere il flusso di chiamate. Può succedere che fino a un certo punto non c’è pressione e poi, per un disservizio, la mancata copertura telefonica su una grande città, immediatamente aumenta il flusso e gli operatori in linea sono costretti a fronteggiarlo, dovendo spesso essere ancora più veloci rispetto ai target, che già di per se stessi sono impegnativi. Si può a ragione di ciò affermare che il controllo costante dei tempi è necessario, poiché bisogna essere sempre pronti a fronteggiare una situazione critica. Questo tipo di ragionamento porta, allo stesso tempo, una conseguenza: l’operatore deve essere sempre al massimo. Se c’è tempo è al massimo per guadagnare ulteriore tempo, semmai per gestire una pratica, se c’è pressione è al massimo perché deve prendere più chiamate possibili.

Se i flussi sono percepiti come continui e imprevedibili, i controlli al contrario sono frammentati, spezzati, parcellizzati. La vita dell’operatore è segnata dal controllo costante dei tempi: i report. Il report è il controllo dei parametri in un determinato intervallo di tempo. Quello che appare un sistema oggettivo di controllo dei tempi e degli altri parametri può essere letto e interpretato in più modi. Senza entrare nel dettaglio vorrei brevemente descrivere la struttura di un report: sulla riga superiore vi sono i parametri e il loro aggiornamento nella giornata, mentre le righe sottostanti sono i parametri misurati in base agli intervalli di tempo (FIG. 1). Questo report può essere fatto sia per tutto il call center sia per ogni singolo team.

 

Intervalli Media operatori in linea Totale chiamate TMC totale
Δt1 o1 c1 TMC1
Δt2 o2 c2 TMC2
Δtn on cn TMCn

FIG. 1

 

La performance deve essere (ri)prodotta in ogni intervallo di tempo Δt: è compito degli operatori di un team, per controllare l’andamento, avere sempre i tempi in target. Sul report si possono fare diverse riflessioni, ma quello che vorrei sottolineare è come esso venga usato ai fini di controllo e di pressione nei confronti degli operatori.

Per dimostrare ciò propongo un esempio: un servizio clienti è aperto 3 ore al giorno (dalle 8.00 alle 11.00). L’intervallo di tempo considerato è di un’ora. Si avranno quindi tre intervalli: dalle 8.00 alle 9.00; dalle 9.00 alle 10.00 e dalle 10.00 alle 11.00. Sono già trascorse due ore e si sta lavorando nella terza quando escono i risultati dell’immaginario team 1 (FIG 2):

 

Intervalli di tempo Media operatori: 2 Chiamate: 60 TMC totale: 240
8.00 – 9.00 2 40 180
9.00 – 10.00 2 20 360
10.00 – 11.00 2

FIG. 2

 

Nella prima ora il team ha lavorato ampiamente al di sotto del target (immaginiamo che sia 240), mentre nella seconda ora si è avuto un aumento sensibile dei tempi. A questo punto il TL esercita pressione nei confronti degli operatori perché dopo due ore anche se si è in target – il TMC totale è di 240 – bisogna essere rapidi. Il TL, ovviamente, non entra in merito al motivo di questo aumento sensibile: ad esempio un improvviso disservizio, poiché il suo compito è di controllare e motivare e non di capire.

Manteniamo lo stesso esempio inserendo nella prima ora un terzo operatore che lavora solo dalle 8.00 alle 9.00 e ha un TMC di 180. Si avrà questa situazione (FIG 3):

 

Intervalli Media operatori: 2,5 Totale chiamate: 80 TMC totale: 225
8.00 – 9.00 3 60 180
9.00 – 10.00 2 20 360
10.00 – 11.00 2

FIG 3

 

Anche in questo caso il team 1 ha lavorato rapidamente nel primo intervallo e più lentamente nel secondo. Essendoci un operatore in più nella prima ora, però, il TMC totale è di 225: sotto il target di 240 secondi, in quanto ci sono state 20 chiamate in più a 180. Ma anche in questo caso il TL spinge ad essere rapidi, indipendentemente da tutto, poiché egli legge solo il TMC del secondo intervallo senza inserirlo nel contesto: «Abbiamo un TMC di 360!» grida il TL, senza specificare che il TMC totale è di 225.

 

3§ qualità e controllo

Dopo aver accennato ad alcune tematiche inerenti la quantità delle chiamate, vorrei ora fare alcune riflessioni sugli aspetti qualitativi. Per poter avvicinarsi alla questione bisogna sottolineare come vi siano nel caso di un call center che gestisce il servizio clienti di una compagnia telefonica due interessi in gioco: l’azienda cliente che appalta un servizio, cercando di ridurre i costi, e l’azienda che lavora la commessa, che su tale lavoro deve essa stessa guadagnare. L’operatore, dunque, è soggetto a due pressioni che mirano ciascuna al proprio interesse. Questo si traduce in una richiesta di performance sempre più professionalizzanti (per la compagnia telefonica) in tempi di gestione ridotti (per il call center), così da poter gestire un volume maggiore di chiamate e quindi raggiungere gli obiettivi posti dall’azienda committente e, cosa importante, dare la garanzia al call center di commesse future. D’altro lato l’azienda committente cerca di porre delle regole per il calcolo del volume delle chiamate attraverso il monitoraggio della qualità del servizio erogato.

La qualità è in primis il continuo aumento delle proprie competenze all’interno di una gestione rapida delle chiamate. Chiaramente è all’operatore che si chiede di aumentare a seconda delle istanze delle aziende le sue competenze in funzione della gestione delle chiamate: più competenze, più chiamate. Vorrei segnalare come nel call center dove ho lavorato negli ultimi mesi con l’aumento delle competenze è diminuito il benessere generale. Infatti, siamo stati formati per fare il lavoro di un altro reparto oltre a quello che già si faceva senza un minimo aumento del TMC a disposizione: doppio lavoro nello stesso tempo. Questo perché i clienti fanno domande di natura diversa nella stessa chiamata e, invece di essere trasferiti verso altri reparti, sono gestiti dallo stesso operatore.

Detto ciò non voglio affermare che l’innovazione, in questo caso l’aumento delle competenze, non sia importante. Ma la questione centrale è la seguente: se l’innovazione è inserita all’interno della logica aziendale essa è un aumento di professionalità o solo un modo per intensificare la produttività dell’operatore? La giusta istanza di crescita del soggetto inserita nel lavoro in azienda non può che portare a due esiti: o un’insoddisfazione dovuta alla non crescita individuale – nessun operatore di un servizio clienti vorrebbe fare un tele-marketing – oppure un’intensificazione della produttività e, di conseguenza, della pressione subita (dice il TL: «L’azienda ha investito tanto su di te!»).

Il secondo elemento qualitativo è la percezione che il cliente ha del servizio erogato.  Bisogna ricordare che la natura del call center non è solo quella di risolvere un disservizio, ma anche quella di dare un’immagine dell’azienda telefonica che lo fornisce. Qui si inserisce tutto il lavoro sulla rassicurazione del cliente, sull’empatia che si deve creare (ogni TL sentenzia: «bisogna sorridere al cliente» e ogni operatore pensa: “come se bastasse solo il sorriso”). Questa parte è essenziale nella struttura di ciascuna chiamata e deve essere eseguita con la stessa precisione che si usa per le operazioni sulle sim. Il lavoro non è ben fatto se non c’è al di là del telefono – o del telefonino – un cliente soddisfatto. Accenno solo al fatto che tutto ciò può essere racchiuso all’interno delle operazioni di marketing sulla fidelizzazione del cliente. Inutile dirlo che anche in questo caso per l’operatore tutto ciò si manifesta attraverso un ulteriore target che misura la sua pro-attività, che si realizza tramite una serie di azioni informativo-commerciali per aumentare la base della clientela.

Tornando alla questione principale, bisogna vedere come poter misurare la soddisfazione del cliente. Questo viene fatto attraverso il calcolo del Customer Satisfaction Index (CSI). Ad esempio può essere calcolato intervistando un campione di clienti per vedere quale è il loro giudizio al riguardo. A sua volta il CSI è un metro di valutazione della gestione della commessa da parte dell’azienda committente e, contemporaneamente, strumento di controllo e di pressione del call center stesso verso l’operatore. L’operatore, quindi, dovrà essere rapido, efficace, pro-attivo ed essere giudicato positivamente (come consiglia il TL: «non bisogna far percepire al cliente la pressione subita»).

Anche in questo caso tutto ciò può apparire normale: un’azienda che si serve di un call center deve in qualche modo vedere e valutare l’operato per poter affinare al meglio le proprie tecniche, il proprio servizio e la propria immagine. Ma è effettivamente “imparziale”? Prima di tutto la percentuale degli intervistati è bassa (10-20%) e poi bisogna vedere come è interpretato. Si immagini una situazione in cui il cliente dà un voto negativo in quanto non ha avuto una informazione corretta. In un’altra situazione, invece, il cliente dà il voto negativo perché ha avuto un disservizio tecnico imputabile alla rete. In tutti e due i casi, a prescindere dalla motivazione del voto, è il team ad essere “strigliato” per il voto negativo, anche se solo nel primo caso si è trattato di un “errore” dell’operatore (dovuto a cosa?). Qui nasce il problema tra le procedure tecniche (nel caso di un intervento sulla sim possono durare dalle 2 alle 4 ore) e la percezione del cliente. Si presenta, dunque, la questione della valutabilità del servizio-merce e della sua quantificazione, che è inscindibile, almeno ad una prima valutazione, dalla sua percezione.

 

4§ conclusioni

In questo contributo, prendendo spunto dalla mia esperienza personale, metto in evidenza tre aspetti essenziali per potersi approcciare all’analisi del sistema call center: quante chiamate sono gestite, in quanto tempo e come. Nei paragrafi precedenti ho cercato di declinare queste tre questioni attraverso una breve presentazione del lavoro dell’operatore. In questa conclusione, invece, vorrei provare a fornire alcune riflessioni più ampie.

 

Un primo elemento su cui è necessario soffermarsi è il rapporto tra  l’innovazione, la sorveglianza e la produzione. Nell’ambito dell’innovazione tecnica, dentro cui si possono inserire l’aggiornamento delle competenze individuali, si sta giocando un conflitto tra organizzazione autonoma e gestione del dominio. Il controllo è strettamente connesso, come ho cercato di dimostrare, al flusso lavorativo. Se il flusso è sempre presente, continuo, allora ciò che è turno di riposo non è altro che distacco inutilizzabile, improduttivo del lavoro totale, che rimane unica costante, unica presenza reale. Il controllo del flusso delle chiamate equivale al controllo del tempo disponibile, della rifunzionalizzazione dei tempi morti come momenti di possibile e “sperata” valorizzazione.

In questo caso non c’è più opposizione tra il momento della produzione e quello della non produzione: l’operatore è l’elemento flessibile che si adegua ad ogni circostanza creata. Nel caso specifico il flusso di chiamate è “semi”continuo nel senso che il servizio clienti è aperto per più di 12 ore al giorno 7 giorni su 7. Il flusso, in altri termini, è sempre (semi)costante e l’organizzazione dei turni deve essere in grado di gestire gli operatori con estrema flessibilità per “intercettare” le chiamate. Comunque la sensazione, per me come per molti colleghi, è quella di non staccare mai del tutto dal lavoro.

Un ulteriore elemento di riflessione è l’analisi delle risposte pratiche a questa organizzazione del lavoro. Non solo, quindi, una questione oggettiva del rapporto che sussiste tra i sistemi di dominio e quelli di autoregolamentazione, ma anche una questione del tutto politica sulla necessità di rompere le maglie strette del controllo. Uno dei terreni su cui si può agire è quello della trasformazione della soggettività, terreno già percorso dall’azienda. Quest’ultima, infatti, segue due direzioni parallele: individualizzazione e standardizzazione. Apparentemente inconciliabili esse concorrono alla creazione di una tipologia umana funzionale alle esigenze del mercato. Certo, questa è una costruzione astratta e come tale ha un valore regolativo, ma, ciò detto, è un punto tendenziale verso cui si tende. Ad esempio attraverso corsi interni all’azienda, attraverso l’esercizio del controllo, attraverso la mortificazione dello spazio decisionale del singolo o del gruppo.

Un esempio di quest’ultimo punto è il cambiamento della composizione dei team che assumono una certa autonomia, fosse pure interna alle procedure e agli standard aziendali, per ovviare ad una crescente importanza dei soggetti che possono creare nuovi schemi di lavoro volti al miglioramento delle condizioni lavorative. Se questo avviene quotidianamente quanto tempo deve intercorrere affinché la trasformazione si “sostanzializzi” nelle procedure conoscitive e affettive del lavoratore? Quanto l’operatore “somatizza” alcune pratiche di controllo togliendole dal loro tessuto produttivo?

La cosa interessante, e che dà speranza, è che di fronte a tutto ciò, di fronte a questa “perfezione” del sistema che pone l’operatore nelle condizioni di non poter svolgere il proprio lavoro, l’operatore riesce ad organizzare la sua sotterranea battaglia. Ad esempio ciò è avvenuto quando si è bloccata una procedura che rendeva più difficile e controllabile il lavoro. Si oppone al controllo, ciò nonostante, un’autonomia vissuta che struttura il lavoro dell’operatore: egli infatti se da un lato subisce la pressione, dall’altro è consapevole di essere colui che ha le competenze per far funzionare il call center.

 

 

 

 

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