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Attualità della preistoria. Per una rilettura del capitolo 24 del primo libro del Capitale, «La cosiddetta accumulazione originaria»

 

di SANDRO MEZZADRA*

For why should he that is at libertie  make himself bond?
Sith then we are free borne,
Let us all servile base subjection scorne

E. Spenser, Complaints: Mother Hubbard’s Tale, 1591

 

1. L’accumulazione originaria, oggi

Il capitolo sull’accumulazione originaria del primo libro del Capitale, il testo fondamentale su cui ci concentreremo oggi, ci conduce a ritroso nel tempo, verso l’Inghilterra dei primi secoli moderni. L’oggetto del capitolo è, secondo l’espressione usata dallo stesso Marx, la «preistoria» del modo capitalistico di produzione (K, I, p. 881). Siamo dunque di fronte a un testo (e a un tema) di interesse puramente storico, “antiquario”?

Così non è, e le pagine marxiane sull’accumulazione originaria sono state negli ultimi anni lette a più riprese, e in diversi contesti, come un contributo decisivo alla critica del presente. Nell’autunno del 1990, in particolare, usciva un numero della rivista statunitense «Midnight Notes» (il 10) significativamente intitolato New Enclosures. Mentre imperversavano le retoriche “idilliache” (nel senso utilizzato da Marx nel capitolo 24) del «nuovo ordine mondiale», i compagni di «Midnight Notes» proponevano l’attualità di alcuni concetti e di alcuni temi tratti dal capitolo del Capitale sull’accumulazione originaria (in particolare quello delle «recinzioni») per interpretare criticamente la grande trasformazione del modo di produzione capitalistico in atto dalla metà degli anni Settanta. Leggiamo qualche passo dall’editoriale del numero: «oggi, ancora una volta, le recinzioni sono il denominatore comune dell’esperienza proletaria a livello globale. Nella più grande diaspora del secolo, in ogni continente milioni di donne e uomini vengono sradicati dalle loro terre, dai loro lavori, dalle loro case da guerre, carestie, epidemie e svalutazioni disposte dal Fondo Monetario Internazionale (i quattro cavalieri dell’Apocalisse moderna) e vengono dispersi ai quattro angoli del pianeta. […] Le Nuove Recinzioni sono il nome della riorganizzazione su larga scala dell’accumulazione avviata a partire dalla metà degli anni Settanta. L’obiettivo fondamentale di questo processo è consistito nello sradicare i lavoratori e le lavoratrici dal terreno su cui erano stati costruiti il loro potere e la loro organizzazione, in modo che, come gli schiavi africani trapiantati in America, essi fossero costretti a lavorare e lottare in un ambiente estraneo, dove le forme di resistenza possibili a casa non sono più disponibili. Ancora una volta dunque, come all’alba del capitalismo, la fisionomia del proletariato mondiale è quella dell’indigente, del vagabondo, del criminale, del mendicante, del venditore ambulante, del rifugiato che lavora in uno sweatshop, del mercenario, del povero» (ivi, pp. 1 e 3).

Due punti in particolare vanno valorizzati nell’analisi proposta dal collettivo editoriale di «Midnight Notes». Il primo consiste nel fatto che il processo descritto (recinzioni, espropriazione, etc.) non riguarda soltanto il “Sud del mondo”, ma investe lo spazio globale del capitalismo contemporaneo, ridisegnandone continuamente la geografia (le diverse forme da esso assunte sono definite «aspetti di un singolo processo unitario: le Nuove Recinzioni, che devono operare in modi diversi, discreti, anche se sono totalmente interdipendenti»): «secondo la logica dell’accumulazione capitalistica in questa fase, per ogni fabbrica che viene privatizzata in una zona di libero commercio in Cina e venduta a una banca commerciale di New York, o per ogni acro di terra recintato da un progetto di sviluppo della Banca mondiale in Africa o in Africa come parte di un piano di aggiustamento strutturale presentato con lo slogan “un debito per l’equità”, una recinzione corrispondente deve determinarsi negli Stati uniti e in Europa occidentale» (p. 2).

Il secondo punto riguarda il rilievo strategico che oggi, così come nelle condizioni dell’accumulazione originaria descritte da Marx, assume la questione della mobilità, da leggere sullo sfondo del grande problema della produzione della merce forza lavoro – e dunque della costituzione politica (in cui è sempre implicata la violenza) del mercato del lavoro. Leggiamo un ultimo passo dell’editoriale del numero 10 di «Midnight Notes»: «le Nuove Recinzioni fanno del lavoro mobile e migrante la forma dominante di lavoro. Siamo oggi la forza lavoro più mobile dall’avvento del capitalismo» (p. 4).

Gli esempi dell’attualità delle condizioni dell’accumulazione originaria potrebbero essere moltiplicati a piacere, guardando a quanto avviene nelle campagne del “Sud” del mondo, allo scontro tra nuove recinzioni e continua riappropriazione di spazi “comuni” all’ìinterno delle reti informatiche, al tentativo di governo delle migrazioni globali e ai molteplici dispositivi predisposti dalle grandi corporation per costringere i lavoratori e le lavoratrici “cognitivi” a vendere la propria forza lavoro. Voglio ricordare un unico esempio ulteriore, per introdurre un testo di cui tornerò a parlare in conclusione. Anna Lowenhaupt Tsing, un’antropologa che insegna alla University of California di Santa Cruz, ha recentemente pubblicato un volume estremamente suggestivo sull’insieme dei conflitti determinati dal tentativo effettuato nel corso degli anni Novanta del Novecento da grandi corporation giapponesi di aprire (sia posto in corsivo questo verbo, ricordando le parole di Rosa Luxemburg: «il capitalismo nasce e si sviluppa storicamente in un ambiente sociale non-capitalistico. […] All’interno di quest’ambiente, il processo di accumulazione del capitale si apre una strada», Luxemburg 1913, p. 363) al mercato capitalistico del legname le grandi foreste pluviali indonesiane (Tsing 2005). Ritroviamo molti dei processi di attacco ai diritti “comuni” sulla terra in nome del diritto privato di proprietà descritte da Marx nel capitolo 24 del primo libro del Capitale – in primo luogo le enclosures. Ma dall’analisi di Tsing deriviamo intanto un ulteriore indicazione concettuale: l’accumulazione originaria istituisce negli spazi che investe condizioni di frontiera – di una frontiera che si pone al tempo stesso come frontiera selvaggia (savage) nella misura in cui la sua prima legge è quella della violenza, e come frontiera “di salvataggio” (salvage frontier) nella misura in cui la distruzione delle condizioni sociali “tradizionali” finisce per presentare il capitalismo (specifici capitalisti) come gli unici agenti possibili di uno sviluppo dai caratteri di emergenza (ivi, pp. 27 ss.).

 

2. Questioni di metodo

Ragioniamo dunque, attraverso la problematica dell’accumulazione originaria, sui primi secoli dell’età moderna e sul presente. Dobbiamo valorizzare questo cortocircuito temporale, che dice molto sulla concezione marxiana della storia – o comunque su una concezione della storia che possiamo costruire oggi a partire dalle pagine marxiane. È d’altro canto un cortocircuito connaturato al “metodo” marxiano della Darstellung, ben illustrato a rovescio (rispetto al problema che qui ci occupa) da una nota boutade tratta dalla cosiddetta Introduzione del ’57: «l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia» (G, I, p. 33). Come è noto, il problema metodologico fondamentale della critica marxiana dell’economia politica è quello della dialettica di astratto e concreto (cfr. Il’enkov 1960), che conduce a formulazioni tra le più impegnative “filosoficamente” di Marx («il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, cioè unità del molteplice», G, I, p. 27) e in generale – è il punto che qui maggiormente ci interessa – a tenere continuamente aperto, ad assumere come intrinsecamente problematico il rapporto tra ordine logico e ordine storico dell’esposizione (cfr. Janoska et alii 1994).

Si tratta – proprio l’Introduzione del ’57 lo afferma con forza – di un problema metodologico storicamente determinato, imposto cioè dalle caratteristiche fondamentali (uniche) del modo di produzione capitalistico. Al fondo, nell’Introduzione del ’57 (e in particolare nel suo paragrafo 3, «Il metodo dell’economia politica»), Marx lavora alla ricerca di un metodo capace di venire a capo della natura di «totalità storicamente determinata» dell’economia politica, di illuminare criticamente le «condizioni del sorgere delle astrazioni concettuali» su cui si costruisce il discorso degli economisti non semplicemente riconducendole a «concreti» processi storici, ma assumendo piuttosto come principio regolatore il riconoscimento della potenza sociale delle «astrazioni reali» (capitale, valore, denaro, etc.) nella trama dei rapporti che costituiscono il modo di produzione capitalistico.

Il capitolo 24 del Capitale, concentrandosi sull’origine (Ursprung) del modo di produzione capitalistico, si propone dunque di studiare le condizioni in cui, “per la prima volta”, un insieme di «astrazioni reali» si “incarnano” nella storia, divengono potenze reali e finiscono, mi si consenta di giocare con il lessico kantiano, per determinare le condizioni a priori della stessa esperienza sociale. Ma è precisamente questo corto circuito tra astratto e concreto che deve ripetersi ogni giorno, lo ha mostrato in modo particolarmente chiaro Dipesh Chakrabarty nella sua analisi del rapporto tra «lavoro astratto» e «lavoro vivo» in Marx (Chakrabarty 2000, cap. 2), perché il modo di produzione capitalistico continui a esistere e a riprodursi: «l’accumulazione», scrive del resto Marx, «rappresenta semplicemente come processo continuo ciò che nell’accumulazione primitiva appare come un processo storico particolare» (TüM, III, p. 295; si veda sul punto Rosdolsky 1968, pp. 327-329).

Ogni giorno, dunque, deve logicamente ripetersi quanto accadde “per la prima volta” all’origine della storia del capitalismo: è questo apparente paradosso che impedisce di considerare come meramente lineare e progressivo («omogeneo e vuoto», secondo i termini utilizzati da Benjamin nella sua critica dello storicismo) il tempo storico caratteristico del modo di produzione capitalistico. E che propone piuttosto – accanto all’attualità dell’origine – il grande problema chiaramente formulato per la prima volta da Balibar nel suo contributo a Leggere il Capitale (1965) e poi ripreso negli ultimi quindici – vent’anni da una parte consistente della critica postcoloniale (cfr. l’introduzione alla nuova edizione in Young 1990): la sconnessione, particolarmente evidente proprio studiando la transizione al capitalismo nelle condizioni coloniali, nella struttura della temporalità propria delle società capitalistiche tra quelle che egli definiva la loro diacronia e la loro dinamica (Balibar 1965, p. 324), ovvero il grande problema teorico dell’«inserzione dei diversi tempi gli uni negli altri» (ivi, p. 317). La «contemporaneità del non contemporaneo», nei termini di Ernst Bloch.

Lo stesso Balibar, nella sua analisi delle pagine marxiane sull’accumulazione originaria, parlava di «una genealogia degli elementi che costituiscono la struttura del modo di produzione capitalistico» (ivi, p. 300). Mi pare sia possibile riprendere questo riferimento alla «genealogia» per complicare ulteriormente il discorso sul metodo di Marx, e per determinarlo ulteriormente a proposito della specifica analisi che ci occupa. Ursprüngliche Akkumulation, a volte tradotto con “accumulazione primitiva” (e in inglese, ad esempio, sempre reso con primitive accumulation), vale propriamente «accumulazione originaria». L’aggettivo deriva dal sostantivo tedesco Ursprung – appunto «origine» – e possiamo ben dire che nell’uso marxiano ricomprende in sé le valenze, su cui ha scritto pagine fondamentali Michel Foucault, che nella genealogia nietzscheana saranno attribuite a termini come Entstehung ed Herkunft. Dicevamo precedentemente, nei termini della seconda delle nietzscheane Considerazioni inattuali, che l’interesse marxiano per la storia (per la «preistoria») del modo di produzione capitalistico nulla ha di “antiquario”. Marx, come Nietzsche, guarda con disprezzo a «una storia che avrebbe la funzione di raccogliere, in una totalità rinchiusa in sé, la diversità infine ridotta dal tempo; una storia che ci permetterebbe di riconoscerci dovunque e di dare a tutte le trasformazioni del passato la forma della riconciliazione: una storia che getterebbe dietro di sé uno sguardo da fine del mondo» (Foucault 1971, p. 42).

Ferma restando la specificità del metodo marxiano, non sarà dunque fuori luogo dire della funzione dell’origine nel capitolo 24 quanto Foucault dice della funzione dell’emergenza (Entstehung) in Nietzsche: essa consente di rappresentare «l’entrata in scena delle forze, il balzo con il quale dalle quinte saltano sul teatro, ciascuna col vigore, la giovinezza che le è propria» (ivi, p. 39). E d’altronde per definire queste «forze», i protagonisti del dramma che costituisce la trama storica del modo di produzione capitalistico, ovvero il compratore e il venditore di forza lavoro, Marx utilizza notoriamente un concetto teatrale, che già Hobbes (nel cap. XVI del Leviatano) aveva caricato di valenze politiche: quello di Charaktermaske.

 

3. Per la critica dell’economia classica (e “volgare”)

Abbiamo fin qui visto, sia pure in modo un po’ obliquo, tre grandi questioni che possiamo leggere in una luce particolare attraverso il capitolo 24 del Capitale: questioni kantiane, potremmo dire ancora celiando, nella misura in cui investono le dimensioni dello spazio e del tempo del capitalismo. Ma ogni formalismo è qui escluso dalla rilevanza strategica che assume su entrambe le dimensioni, nell’analisi svolta da Marx, il problema della produzione della merce forza lavoro: una produzione che incide i corpi e modifica le anime, una produzione che investe e stravolge – in modo assolutamente concreto e determinato – il terreno stesso della vita.

Mi si consenta tuttavia un’altra considerazione per dir così preliminare. Quello di accumulazione originaria, in Marx, non è un concetto. Fin dal titolo (“La cosiddetta accumulazione originaria”), il capitolo si muove sul filo di una tagliente ironia (un “registro” stilistico molto caro a Marx), rafforzata dal riferimento “teologico” al peccato originale:

 

«nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’incirca la stessa parte del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come un aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una elite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare» (K, I, p. 879).

 

Naturalmente il riferimento “teologico” va al di là dell’ironia. Che cos’altro c’è al centro del Genesi se non il problema della spiegazione e della legittimazione della maledizione del lavoro? Ma l’ironia è forte, e segnala l’intento polemico del ragionamento svolto da Marx nel capitolo 24, la critica radicale dell’economia politica classica (e in questo caso, prima di tutto, di Adam Smith e della sua analisi della «previous accumulation of stock»): quest’ultima, come risolve la trama delle relazioni economiche sul piano giuridico-formale (“di superficie”) dell’equivalenza, racconta con toni «idilliaci» le origini del modo di produzione capitalistico (fondamentali, sulla critica marxiana dell’economia classica e dell’economia «volgare», sono ora le considerazioni di Zanini 2006, in specie pp. 139-148; specificamente sul tema dell’accumulazione originaria nell’economia classica, cfr. Perelman 2000). La realtà dello sfruttamento (della sua origine storica e del suo statuto concettuale) è l’«arcano» velato dall’economia classica: in queste pagine, secondo il metodo della Darstellung e, lo ripetiamo, con un’anticipazione potente del metodo genealogico, l’indagine della sua origine svela qualcosa di essenziale sul suo stesso statuto concettuale.

Al centro dell’analisi marxiana dell’«accumulazione originaria» non è dunque, contrariamente a quel che accade nell’economia classica, «una precedente concentrazione di una provvista di merci come capitale nelle mani del compratore di lavoro» (TüM, III, p. 292), ma la violenta produzione (nonché l’“originaria” accumulazione) delle condizioni di possibilità del rapporto capitalistico di produzione, dell’«incontro» (K, I, p. 202) tra compratore e venditore di forza lavoro: ovvero, come si legge nei Grundrisse, in quella sezione sulle «Forme che precedono la produzione capitalistica» che deve sempre essere tenuta presente leggendo il capitolo 24, «la produzione di capitalisti e di operai salariati, […] un prodotto fondamentale del processo di valorizzazione del capitale. L’economia volgare, che vede soltanto le cose prodotte, dimentica completamente questo fatto» (G, II, p. 145). La stessa accumulazione di denaro (di un «patrimonio monetario, che considerato in sé e per sé è assolutamente improduttivo, in quanto scaturisce soltanto dalla circolazione e a essa soltanto appartiene», ivi) nulla dice della «formazione originaria» del capitale: quest’ultima «avviene invece semplicemente per il fatto che il valore esistente come patrimonio monetario, attraverso il processo storico della dissoluzione del vecchio modo di produzione, viene messo in grado, da un lato di comprare le condizioni oggettive del lavoro, dall’altro di ottenere in cambio di denaro lo stesso lavoro vivo degli operai divenuti liberi» (ivi, p. 137).

Nessun «idillio», dunque, ma un processo che dovrebbe essere chiamato – come leggiamo in Salario, prezzo, profitto (1865) – «espropriazione primitiva», seguendo il quale si scopre «che la cosiddetta accumulazione primitiva non significa altro che una serie di processi storici i quali si conclusero con la dissociazione dell’unità primitiva fra il lavoratore e i suoi mezzi di lavoro». Continua Marx: «la separazione del lavoratore e degli strumenti di lavoro, una volta compiutasi, si conserva e si rinnova costantemente a un grado sempre più elevato, finché una nuova e radicale rivoluzione del sistema di produzione la distrugge e ristabilisce l’unità primitiva in una forma nuova»  (Salario, prezzo, profitto, p. 75).

Esplicitiamo a questo punto qual è la prospettiva in cui il capitolo 24 del Capitale deve essere a mio giudizio letto, coerentemente con quanto affermato in precedenza a proposito del “metodo” marxiano: l’Ursprung – come uno specchio concavo – restituisce l’immagine del modo di produzione capitalistico nel suo complesso, ne illumina, come l’eccezione benjaminiana (assai più di quella schmittiana), alcuni caratteri fondamentali, e tuttavia celati, del funzionamento “normale”. Collocato alla fine del primo libro (e prima dell’ultimo, quello su «La teoria moderna della colonizzazione», che del capitolo sull’accumulazione originaria costituisce una sorta di appendice), il capitolo 24 impone di rileggere a ritroso l’intero tracciato analitico proposto nel libro, interrompendo e riaprendo continuamente – in particolare – l’analisi presentata nel capitolo 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica». Per dirla nei termini proposti da Antonio Negri quasi trent’anni fa: il capitolo 24 è un esempio di quella «ricerca» (Forschung) che interviene a rinnovare il terreno dell’«esposizione» (Darstellung) imponendo – o comunque rendendo possibile – una «nuova esposizione», una neue Darstellung (Negri 1979, pp. 23-26).

“Norma” ed “eccezione” sono concetti che vanno utilizzati e valorizzati in senso determinato leggendo il testo marxiano. Questo significa che non vanno soltanto applicati al rapporto tra l’origine, la storia e il presente del modo di produzione capitalistico, ma devono essere fatti “lavorare” – se necessario “oltre Marx” – per decostruire criticamente la stessa immagine di un capitalismo “normale”. Non che non vi siano “norme” di funzionamento del modo di produzione capitalistico: ma ogni “norma” include al proprio interno – tanto logicamente quanto storicamente – una costellazione di “eccezioni”, che rientrano tra le sue condizioni di possibilità ma al tempo stesso costituiscono una sorta di riserva di opzioni che possono essere sempre attualizzate. È su questo terreno che possiamo, dobbiamo a mio giudizio, incrociare ricerche e proposte teoriche tra le più interessanti presentate negli ultimi anni, quali il lavoro di Yann Moulier Boutang (1998) sulle «forme difformi» di sottomissione del lavoro al capitale (“difformi” dalla norma del rapporto salariale) e il progetto di «provincializzazione dell’Europa» di Dipesh Chakrabarty.

Cospicue tracce di riflessione in questo senso si ritrovano per altro anche in Marx. Significativi, in questo senso, non sono soltanto il rilievo strategico assegnato alla colonizzazione e la ricchezza di riferimenti al tema della schiavitù, che legittimano una ricostruzione della storia del capitalismo quale quella proposta da molti protagonisti del Black Marxism (Robinson 1983), che ne rintraccia le origini in Africa, nelle Indie occidentali e nello spazio atlantico assai più che in Inghilterra. Si tratta anche di valorizzare una serie di spunti presenti negli scritti tardi sulla Russia (cfr., nella letteratura recente, Burgio 2000, cap. IV), in cui l’“eccezionalità” del caso inglese su cui si basa in buona sostanza l’analisi proposta nel capitolo 24 è esplicitamente affermata – mentre viene con forza respinto ogni tentativo di dedurre da tale analisi un modello di «filosofia della storia» (cfr. K. Marx, Brief an die Redaktion der “Otetschestwennyje Sapiski” [1877], MEW, 19, in specie p. 111). «L’“ineluttabilità storica”» del movimento descritto nel capitolo sull’accumulazione originaria, scrive ad esempio Marx in una lettera a Vera Iwanowa Sassulitsch dell’8 marzo del 1881, «è espressamente limitata ai Paesi dell’Europa occidentale» (MEW, 35, p. 166).

La transizione al capitalismo, è un punto su cui ha ancora una volta molto insistito negli ultimi anni la critica postcoloniale, non segue dunque norme prestabilite, può determinarsi secondo modalità storicamente differenti. E se guardiamo al capitalismo valorizzandone il carattere di sistema-mondo fin dalle origini, queste modalità differenti non costituiscono eccezioni “periferiche”, entrando piuttosto a determinare (nel duplice senso sopra indicato: come condizioni di possibilità e come “riserva” di opzioni sempre attualizzabili) la struttura del modo di produzione capitalistico nel suo complesso. Torneremo in conclusione sul concetto di transizione e su alcune delle problematiche a esso connesse. Ma origine (transizione) è termine che rimanda comunque sempre alla violenza, definita da Marx con celebre espressione “messianica”, ripresa poi da Engels nell’Anti-Dühring, «levatrice della storia, […] essa stessa potenza (Potenz) economica» proprio nel capitolo 24 del primo libro del  Capitale (K, I, p. 923). Ecco un altro grande tema propostoci dal testo su cui stiamo soffermandoci, quello – per dirla in termini molto generali – del ruolo della violenza nella storia. Étienne Balibar, redigendo la voce Gewalt per Historisch-Kritisches Wörterbuch des Marxismus, ha proposto recentemente considerazioni molto stimolanti su questo punto.

Vale la pena di segnalare, in ogni caso, che il problema della violenza si pone su almeno due diversi piani nell’analisi dell’accumulazione originaria: da una parte esso rinvia al ruolo cruciale della «violenza concentrata e organizzata dalla società» – ovvero del potere dello Stato, che proprio nella transizione assume la forma di macchina – nel determinare la transizione al capitalismo. Marx ricorda il ruolo del sistema coloniale, del sistema del debito pubblico e del sistema tributario e protezionistico moderno (K, I, p. 923): è un punto su cui ha molto insistito nei suoi scritti degli anni Settanta Mario Tronti (cfr. in particolare Tronti 1977, pp. 212 ss.). Le tesi trontiane vanno comprese e discusse tenendo conto del loro “contesto”, ovvero dell’elaborazione dell’autonomia del politico: ma la complicazione (sotto il profilo storico non meno che sotto il profilo logico) del rapporto tra politica, diritto ed economia (a partire da quello che Marx chiama «la genesi extraeconomica della proprietà», G, II, pp. 113 s.) che Tronti derivava dalla lettura del capitolo 24 resta in ogni caso un’acquisizione preziosa.

Dall’altra parte, l’agire della violenza viene analizzato da Marx non guardando alla macchina statuale, alla “concentrazione” appunto della violenza, ma ai suoi effetti diffusi, sociali, dove in particolare si tratta di portare alla luce il ruolo cruciale giocato dallo Stato, dalla legislazione e dal diritto dapprima nel determinare le condizioni di esistenza della forza lavoro come merce, poi nel regolare il salario e la giornata lavorativa (K, I, p. 907). È da questo secondo punto di vista che Marx scrive pagine magistrali, quali quelle sulle enclosures e sulla «legislazione sanguinaria» contro il vagabondaggio «quasi universale» che, Marx lo aveva affermato già nel 1847, nella Miseria della filosofia (pp. 90 s.), precedette la creazione della fabbrica (e la nascita della classe operaia) nei primi secoli moderni: veri e propri modelli di «storia sociale» riscoperti come tali nel corso degli anni Sessanta del Novecento, a partire dai grandi lavori di E.P. Thompson (tra cui non si può non ricordare, ovviamente, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, 1963).

 

4. Una merce diversa dalle altre

Una considerazione a questo proposito. Sotto il profilo storiografico, un compito importante consiste nell’evidenziare maggiormente di quanto Marx non faccia nel capitolo 24 il carattere duramente conflittuale dei processi sociali e delle condizioni complessive in cui l’accumulazione originaria si articola. Si tratta cioè, da una parte, di porre in risalto che la crisi dell’autorità feudale nelle campagne non viene prodotta da questi processi, che si inseriscono piuttosto in una condizione segnata da rivolte – e da vere e proprie guerre – contadine che disarticolano il tessuto feudale dal suo interno (cfr. Dockès 1980; ma si tenga anche presente, sulla lunga durata dell’insubordinazione contadina, Blickle 2003). Come ha scritto ad esempio in un libro molto importante Theodore W. Allen, è stata la continuità di questo movimento di insubordinazione, che si distende tra la cosiddetta «Wat Tyler’s Rebellion» del 1381 in Inghilterra e le guerre contadine degli anni ’20 del Cinquecento in Germania, e non la borghesia a far saltare il sistema feudale (Allen 1997, pp. 14 s.). E lo stesso Allen ha richiamato l’attenzione sul ruolo delle proteste popolari contro le recinzioni nel determinare, tre anni dopo la sua promulgazione, l’abolizione della legge inglese del 1547 che introduceva la schiavitù come pena per il vagabondaggio (1 Edw. VI 3), e che avrebbe posto le basi per l’istituzione di un sistema schiavistico nella stessa Inghilterra (ivi, pp. 20-22).

Dall’altra parte si tratta di enfatizzare, lo hanno fatto tra gli altri in modo particolarmente convincente Peter Linebaugh e Marcus Rediker (2000; ma si tenga presente anche Linebaugh 1993), la pluralità delle forme in cui si è espressa, molto spesso traducendosi in pratiche e concrete rivendicazioni di mobilità, la resistenza dei “subalterni” alla proletarizzazione (alla loro trasformazione in portatori di forza lavoro). Da questo punto di vista, del resto, non mancano precise indicazioni marxiane. Basti pensare a un noto passo dei Grundrisse: la massa dei soggetti espulsi dalle campagne si trovò, scrive Marx, «ridotta a trovare l’unica fonte di guadagno nella vendita della sua forza-lavoro, oppure nella mendicità, nel vagabondaggio, nella rapina. È constatato storicamente che essi hanno tentato in un primo momento questa seconda via, e che da questa sono stati però spinti, mediante la forca, la berlina, la frusta, sulla stretta via che conduce al mercato del lavoro» (G, II, p. 138).

Ancora una volta si tratta di una questione di rilievo tutt’altro che meramente “antiquario”: basta pensare all’impatto dei programmi di aggiustamento strutturale sull’organizzazione sociale ed economica delle campagne di molti Paesi africani negli anni Ottanta dello scorso secolo (alle New Enclosures da essi determinati) e alle migrazioni transnazionali contemporanee per comprenderlo. La mobilità del lavoro è del resto, già lo si è sottolineato, uno dei temi centrali nella scena dell’accumulazione originaria costruita da Marx. E davvero vale la pena di ribadire che «non c’è capitalismo senza migrazioni» (cfr. Mezzadra 2006, in specie parte II, cap. 5).

I movimenti dei “subalterni” (utilizzando questa categoria in termini rigorosi, per riferirsi a soggetti dominati che non sono ancora stati “catturati” nel processo di proletarizzazione) sono dunque elemento fondamentale del processo attraverso cui si determina la produzione della forza lavoro come merce (ovvero del processo di proletarizzazione): ne definiscono il carattere antagonistico. Ed è importante sottolineare che questo antagonismo va distinto concettualmente dall’antagonismo tra lavoro e capitale (che presuppone l’avvenuta produzione della forza lavoro come merce).

Ciò detto, a me pare che non sia del tutto convincente la proposta di Beverly Silver, in un libro del resto molto bello (Silver 2003), di distinguere due tipi di insubordinazione nella storia dei movimenti del lavoro, denominando il primo – quello che si determina a fronte dei processi di «espropriazione» e di proletarizzazione – il «tipo Polanyi» e il secondo – quello che si determina a fronte dei processi di «sfruttamento» – il «tipo Marx». Si tratta di formule, riconducibili ai lavori di David Harvey (cfr. ad es. Harvey 2003, su cui si vedano il «simposio» in «Historical Materialism», XIV, 2006, 4, e le pertinenti osservazioni di Robinson 2007), che sono circolate ampiamente nel marxismo radicale statunitense degli ultimi anni, non di rado conducendo a contrapposizioni analitiche che non mi paiono particolarmente produttive: al contrario, l’attenzione dovrebbe oggi concentrarsi sulle condizioni in cui i due «tipi» di conflitto tendono a sovrapporsi, riproponendo violentemente l’originaria articolazione, logica e storica, appunto di espropriazione e sfruttamento.

E questo accade in particolare proprio quando il «mercato del lavoro» (l’insieme delle condizioni sociali, istituzionali, giuridiche, “antropologiche” e spaziali che regolano lo scambio di forza lavoro contro salario) viene messo in tensione fino a saltare, attraverso processi che ripropongono in tutta la sua problematicità ciò che il mercato del lavoro stesso assume come presupposto: ovvero, la continuità e la “normalità” della produzione della forza lavoro come merce. Fissiamone le conseguenze in termini a noi familiari: la riapertura – sempre duramente conflittuale – del problema della produzione della forza lavoro come merce non ha ricadute esclusivamente sulle condizioni della classe operaia (cfr. Perelman 2000, p. 33), ma entra piuttosto a determinarne la composizione. È, per molti aspetti, la situazione in cui ci troviamo oggi.

Uno dei temi fondamentali del capitolo 24 è in effetti proprio l’analisi critica del processo di costituzione politica e giuridica del «mercato del lavoro». Il ruolo strategico giocato dalla violenza in questo processo svolge ancora una volta una funzione polemica nei confronti dell’economia classica, che aveva costruito le relazioni di mercato proprio come relazioni non solo libere dalla violenza ma a essa concettualmente contrapposte, e finisce per disarticolare la stessa categoria di mercato del lavoro. Nulla v’è di “naturale”, ci dice Marx, nel fatto che una classe di individui sia costretta, per riprodurre la propria esistenza, a vendere la propria forza lavoro, la “merce” appunto scambiata sul mercato del lavoro.

È un punto da evidenziare in particolare sullo sfondo dei dibattiti contemporanei su salario e reddito: non per svolgere una critica “volgare” delle ipotesi di lotta sul reddito, evidentemente, ma per mostrare intera la complessità di queste ipotesi, che insistono su un terreno strategico per la stessa esistenza del modo di produzione capitalistico. Quest’ultimo non può esistere, concettualmente, senza l’elemento di coazione al lavoro di cui Marx traccia la genealogia nel capitolo sull’accumulazione originaria. La storia del capitalismo, sotto la spinta incessante delle lotte operaie e proletarie, ha registrato l’attivazione di molteplici dispositivi di “mitigazione” di questo elemento di coazione, di cui lo stesso Marx ci dà un saggio nell’analisi, ancora una volta metodologicamente magistrale, della giornata lavorativa proposta nel capitolo 8 del primo libro del Capitale (si veda in proposito Balibar 1993, pp. 101-103). Ma di “mitigazione” occorre parlare, e non di annullamento (come avverrebbe in alcune ipotesi di “reddito di esistenza”), poiché l’annullamento della coazione al lavoro comporterebbe, molto semplicemente, la fine del modo di produzione capitalistico.

Volgiamoci ora, brevemente, a un altro testo recente che ha insistito sul fatto che l’analisi marxiana dell’accumulazione originaria «consente di leggere il passato come qualcosa che sopravvive nel presente»: mi riferisco al libro di Silvia Federici, Caliban and the Witch. Women, the Body and Primitive Accumulation (2004, p. 12 per la citazione). Il libro di Federici è parte di uno sviluppo interno al marxismo contemporaneo che, muovendo dalle posizioni dell’operaismo rivoluzionario, è venuto concentrandosi sulla tematica dei commons (si vedano ad esempio la rivista «The Commoner», http://www.commoner.org.uk e i lavori di Massimo de Angelis e di Gorge Caffentzis). Tematica di grande rilievo, evidentemente, che tuttavia è spesso declinata in termini non del tutto soddisfacenti, come lo stesso libro di Federici a mio giudizio mostra. Tornerò brevemente in conclusione sul punto. Ma intanto il riferimento a Caliban and the Witch ci consente di introdurre un’altra questione decisiva per l’analisi del processo di produzione della forza lavoro come merce: il problema – su cui è prevista una relazione all’interno del ciclo seminariale e su cui vale la pena di rileggere alcuni testi classici del femminismo radicale degli anni Settanta (basti qui ricordare i nomi di Selma James, Mariarosa Della Costa, Leopoldina Fortunati e Alisa del Re) – del rapporto tra produzione e riproduzione della forza lavoro.

Sotto il profilo storiografico, Silvia Federici insiste sull’importanza delle molteplici forme di criminalizzazione, culminate nella caccia alle streghe (ivi, pp. 163 ss.), dei tentativi da parte delle donne “subalterne” di porre sotto controllo la propria funzione riproduttiva nella crisi demografica che seguì la grande epidemia di peste del XIV secolo (ivi, pp. 40 ss.). Siamo qui di fronte a un’altra dimensione essenziale (e duramente conflittuale) dell’accumulazione originaria, in effetti trascurata da Marx: al processo (occorre aggiungerlo? Decisamente non “idilliaco”…) di razionalizzazione capitalistica della sessualità attraverso cui prende forma una divisione sessuale del lavoro che assegna alle donne la funzione prioritaria di riproduttrici della forza lavoro. La condanna dei maleficia, dell’aborto e della contraccezione segna come un basso continuo questo processo (ivi, p. 144), al culmine del quale il corpo femminile è costruito letteralmente come macchina per la riproduzione: «non è stata la macchina a vapore», scrive Federici, «e neppure l’orologio, la prima macchina, bensì il corpo umano» (ivi, p. 146).

Il libro di Silvia Federici è importante anche per un’altra ragione: analogamente al lavoro di Yann Moulier Boutang, anche Caliban and the Witch contesta – ancora una volta: storicamente e concettualmente – l’identificazione marxiana tra modo di produzione capitalistico e lavoro salariato «libero» (ovvero, per citare un passo celebre, presenza di «venditori della propria forza lavoro», di «operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza», K, I, p. 880). Il punto è ancora una volta decisivo, in particolare laddove si intenda davvero prendere seriamente l’invito a «provincializzare l’Europa» e a considerare la dimensione globale in cui si sviluppa fin dalle sue origini il modo di produzione capitalistico: facendo questo, come già si è accennato, la «transizione» al capitalismo presenta una pluralità di forme di lavoro coatto che appunto «provincializzano» e dislocano la “norma” del rapporto salariale.

La proposta di Yann Moulier Boutang di sostituire il concetto di «lavoro dipendente» a quello di «lavoro salariato» come condizione effettivamente necessaria allo sviluppo del modo di produzione capitalistico (e di ricomprendere il secondo come variante del primo, di cui si tratta di studiare le peculiari condizioni storiche, sociali e giuridiche) pare a me da accettare: essa salva infatti un aspetto essenziale dell’enfasi di Marx sul lavoro salariato «libero» (ovvero l’insistenza, proprio nel capitolo 24, sul fatto che il capitale va inteso e criticato come un rapporto sociale e non come una “cosa”, cfr. K, I, p. 941), e consente al tempo stesso un’analisi maggiormente accurata e flessibile sia delle diverse forme assunte dalla transizione sia delle diverse forme di sottomissione del lavoro al capitale che contraddistinguono il nostro presente “globale”.

Non casualmente, in questo senso, accennavo in precedenza all’immagine marxiana dell’«incontro» tra il proprietario di denaro e il proletario sprovvisto di tutto, salvo che della propria forza lavoro. A partire da questa immagine ha scritto come noto, in un testo del 1982, pagine molto suggestive (ma anche piuttosto enigmatiche) Louis Althusser (1982, in specie pp. 106 ss.). In queste pagine è ben presente, d’altronde, il riferimento all’analisi marxiana dell’accumulazione originaria, che Althusser arriva a definire l’«autentico nucleo» del Capitale (ivi, p. 109). La semantica di questo «incontro» andrebbe studiata con cura, a partire da un’analisi scrupolosa delle implicazioni del verbo utilizzato da Marx nel passo citato sopra, ovvero vorfinden (cfr. MEW, 23, p. 181, mentre in un passo del capitolo 24, concettualmente equivalente, Marx scrive gegenüber und in Kontakt treten, cfr. ivi, p. 742) – un «incontrare» che presuppone la presenza previa di ciò che si incontra, una “storia precedente” dunque, appunto una Vorgeschichte.

A me pare, in ogni caso, che lavorando sull’immagine dell’«incontro» si possa recuperare la sostanza di obiezioni e integrazioni dell’analisi marxiana quali quelle proposte da Silvia Federici e Yann Moulier Boutang. La preistoria dell’«incontro», per dirla con una battuta, può svolgersi in molte forme, e tra queste la tratta atlantica non è necessariamente un’“eccezione” rispetto alle enclosures. Come già si è detto, del resto, che tra i due processi esistessero cospicue analogie era ben chiaro a Marx: già in un articolo del 1853, pubblicato nella «New York Daily Tribune» e, per la parte che qui ci interessa, nel giornale cartista scozzese «The People’s Paper», aveva irriso le simpatie abolizioniste della duchessa di Sutherland. Costei, secondo i metodi consueti dell’accumulazione originaria, aveva trasformato in pastura per le pecore l’intera sua contea, determinando tra il 1814 e il 1820 l’espulsione e lo «sterminio» sociale di oltre 15000 abitanti (la sostanza dell’analisi presentata nel 1853 è incorporata nel capitolo 24 del primo libro del Capitale: cfr. K, I, pp. 898 s.): «i nemici della schiavitù salariale inglese», concludeva Marx, «hanno il diritto di condannare e maledire la schiavitù dei negri; ma una duchessa di Sutherland, un duca di Atholl, un signore del cotone di Manchester mai!» (K. Marx, Die Herzogin von Sutherland und die Sklaverei, MEW, 8, p. 505).

L’«incontro», dunque, può ben avvenire in una battuta di caccia, o magari di pesca per riprendere il riferimento di Marx al destino di una parte degli «aborigeni» (e si potrebbero proporre molte considerazioni su questa scelta terminologica) espulsi dalle loro terre dalla duchessa di Sutherland «gettata sulla riva del mare» e che «cercò di vivere di pesca»: «divennero anfibi e vissero, come dice uno scrittore inglese, metà sul mare e metà sulla terra, e con tutto ciò trassero dall’uno e dall’altro solo di che vivere a metà» (K, I, p. 899; cfr. K. Marx, Die Herzogin von Sutherland und die Sklaverei, MEW 8, p. 503). Quel che rimane costante tuttavia, e di cui il capitolo sulla accumulazione originaria studia la genealogia, è la radicale differenza dei due soggetti che «si incontrano» – e il cui rapporto costituisce il capitale. In un altro libro recente in cui è centrale la tematica della «accumulazione originaria», molto influenzato sia da Althusser sia dall’operaismo italiano, Jason Read ha molto insistito sulla produzione di soggettività (ricordiamo quanto abbiamo letto nei Grundrisse: «produzione di capitalisti e di operai salariati») come elemento chiave per il modo di produzione capitalistico: «produzione di soggettività nei due sensi del genitivo; da una parte la costituzione della soggettività, di un particolare comportamento soggettivo, e dall’altra la potenza produttiva della soggettività stessa, la sua capacità di produrre ricchezza» (Read 2003, p. 153).

È un punto sviluppato in modo particolare da Read nell’analisi del capitolo 24 del primo libro del Capitale, che gli serve tra l’altro per riprendere e approfondire la distinzione (althusseriana) tra «economia» e «modo di produzione» capitalistici. Leggiamo un altro brano del libro di Read: «vi è una produzione di soggettività necessaria alla costituzione del modo di produzione capitalistico. Perché un nuovo modo di produzione, quale quello del capitale, sia istituito, non è sufficiente che esso formi semplicemente una nuova economia, deve istituirsi nelle dimensioni quotidiane dell’esistenza – deve divenire abitudine» (ivi, p. 36). La polemica di Marx contro la rappresentazione “idilliaca” della accumulazione originaria proposta dall’economia classica si presenta così nella sua piena luce, specificandosi come un capitolo della più generale polemica da lui ingaggiata contro l’immagine “astorica” della natura umana assunta dai classici dell’economia politica a fondamento delle loro analisi. E a ragione Read sottolinea che in questione non è solo un problema di antropologia filosofica (e politica), ma anche «il problema più pratico del luogo occupato nella storia dai desideri, dalle motivazioni e dalle credenze umane (o dalla soggettività): il problema delle loro condizioni, dei loro limiti e dei loro effetti» (ivi, p. 20).

Desideri, motivazioni, credenze si presentano radicalmente scissi nel modo di produzione capitalistico, secondo una linea che taglia la soggettività distribuendo gli individui nelle due “classi” (sia qui intanto concesso di utilizzare questo termine così impegnativo nel suo semplice significato logico) dei possessori di denaro e dei possessori di forza lavoro: il capitolo sull’accumulazione originaria traccia la genealogia di questa scissione, che conoscerà molteplici metamorfosi nella storia del capitalismo ma che sarà destinata a riprodursi continuamente, rendendo vano ogni discorso sulla “natura umana” che pretenda appunto di richiamarsi a un astratto e disincarnato universalismo. Fino a oggi.

 

5. Nella transizione

Oggi, ieri, l’altro ieri; il presente, la storia, la “preistoria”. Veniamo così all’ultima grande questione che abbiamo annunciato di voler trattare muovendo dall’analisi marxiana dell’accumulazione originaria: la transizione. È un tema di formidabile rilievo e complessità, che da molti segni sembra stia tornando di attualità: l’ultimo libro di Saskia Sassen (2006), ad esempio, è fondamentalmente uno studio della transizione dagli assetti politici e giuridici “nazionali” agli assetti politici e giuridici “globali”, che ricostruisce la transizione dall’ordine medievale all’ordine moderno per guadagnare una prospettiva comparativa sul presente. Varrebbe la pena da questo punto di vista, e lo si dovrà fare per meglio inquadrare e per sviluppare il nostro ragionamento, di ricostruire almeno tre grandi dibattiti novecenteschi sul tema della transizione: quello che vide contrapposti all’inizio degli anni Trenta, all’interno della Scuola di Francoforte, Franz Borkenau e Henryk Grossmann (cfr. Schiera, ed, 1978), la polemica tra Paul Sweezy e Maurice Dobb che prese avvio sulle pagine della rivista statunitense «Science and Society» negli anni Cinquanta (si veda per una, sintesi, Tronti 1977, pp. 207-227) e il dibattito avviato dalla pubblicazione nel 1976, nella rivista «Past and Present», di un articolo di Robert Brenner (Agrarian Class Structure and Economic Development in Pre-Industrial Europe), dibattito che riformulò molti dei temi centrali nella controversia tra Dobb e Sweezy coinvolgendo anche storici non marxisti (i testi fondamentali del dibattito sono raccolti in Ashton – Philpin, eds, 1985).

Riattraversare questi dibattiti sarebbe utile in particolare per precisare l’insieme delle questioni al centro dell’analisi della transizione al capitalismo: dal rapporto tra «struttura» e «sovrastruttura» a quello tra agricoltura, commercio, manifattura e industria. Qui ci concentreremo preliminarmente soltanto su un paio di punti, l’ultimo dei quali decisamente eccentrico rispetto ai dibattiti “classici”. Non prima tuttavia di avere sottolineato una questione ulteriore: ovvero il fatto che il problema della transizione, da un punto di vista marxista, riconduce sì continuamente alla «preistoria» del Capitale. Ma una volta di più ci strappa allo studio meramente storiografico per proiettarci nel presente. E nel futuro: l’analisi della transizione al capitalismo è cioè sempre, contemporaneamente, un ragionamento sulle forme della transizione al comunismo, a partire dall’esigenza di comprendere se il rapporto tra le due transizioni è un rapporto di omologia o se piuttosto occorre assumere l’ipotesi di una radicale discontinuità tra di esse.

Lavoriamo qui sul tema della transizione a partire dal capitolo 24 del primo libro del Capitale. Segnaliamo di sfuggita che, anche soltanto per meglio sviluppare le questioni di seguito indicate, sarebbe necessario convocare una serie di altre fonti marxiane: sarebbe almeno necessario, in particolare, fare un uso meno rapsodico di quello qui fatto della sezione sulle «Forme che precedono la produzione capitalistica» dei Grundrisse (cfr. Negri 1979, pp. 116-122, Carandini 1979 e Dussel 1998, pp. 240-243) e soprattutto, considerato il rilievo che nella nostra analisi assume la questione del rapporto tra colonialismo e transizione al capitalismo, l’insieme dei testi dedicati da Marx al cosiddetto modo di produzione asiatico (il riferimento fondamentale continua a essere su questo problema il vecchio libro di Sofri 1973; ma varrà la pena di riprendere criticamente anche alcune osservazioni di Spivak 1999, pp. 91-126).

Riservando a un successivo approfondimento l’analisi di questi testi, limitiamoci dunque, qui, a vedere tre grandi questioni collegate alla transizione che il capitolo 24 del primo libro del Capitale ci consente di impostare in modo particolarmente originale. Cominciamo intanto da una conferma, relativa al tema del rapporto tra transizione, borghesia e “rivoluzione borghese”. L’ultima categoria è stata al centro di un ampio dibattito negli ultimi anni, che ne ha mostrato intera, molto spesso con un’intenzione polemica proprio contro la storiografia marxista, la problematicità. Non dobbiamo temere di recepire alcune delle acquisizioni fondamentali di questo dibattito. Proprio le pagine dedicate da Marx all’accumulazione originaria mostrano intera la correttezza di un’affermazione di Antonio Negri, in un saggio del 1978 dedicato a una rilettura del dibattito tra Borkenau e Grossmann a cui si è in precedenza fatto cenno: «la mia convinzione di fondo era e resta», scriveva Negri ricordando il suo Descartes politico, o della ragionevole ideologia (Felrinelli, 1970: il volume è da poco uscito in traduzione inglese con una nuova introduzione, che si può leggere in italiano in «Scienza & Politica», 2004, 31), «quella che in generale non si possa parlare di “rivoluzione borghese” ma si debba parlare di rivoluzione capitalistica (nella accumulazione originaria, manifatturiera, industriale e poi socialista), che la categoria della “borghesia come classe” sia estremamente ambigua» (Negri in Schiera, ed, 1978, p. 139).

A me pare estremamente importante questo riferimento all’ambiguità della categoria di «borghesia come classe». Non solo perché in qualche modo anticipa gli sviluppi successivi della storiografia sulla borghesia, che hanno da una parte mostrato la complessità delle mediazioni (politiche, giuridiche, “ideologiche”, culturali e scientifiche) necessarie perché la borghesia possa costituirsi in soggetto unitario (cfr. ad es. J. Kocka, ed, 1987 e soprattutto Schiera 1987) mentre dall’altra hanno insistito sulla “lunga durata” – quantomeno fino alla Grande guerra – del rapporto simbiotico tra borghesia e nobiltà che costituisce uno dei temi di fondo dell’analisi marxiana dell’accumulazione originaria (cfr. Mayer 1981). Ma anche perché, mi pare, ci restituisce il concetto di classe libero da una serie di incrostazioni “sociologiche” che su di esso si sono depositate nel tempo. E ci consente di riappropriarcene nel suo originario significato marxiano, un significato tutto politico (cfr. Mezzadra – Ricciardi 2002).

Veniamo a una seconda questione: il rapporto tra «sussunzione formale» e «sussunzione reale» del lavoro al capitale. L’accumulazione originaria, scrive Marx, non può che essere dominata dalla «sottomissione (Unterordnung) formale» del lavoro al capitale, e dunque dall’estrazione di «plusvalore assoluto» (di un plusvalore ottenuto con la continua estensione della giornata lavorativa): «il modo di produzione capitalistico non aveva ancora carattere specificamente capitalistico» (K, I, p. 907), viveva appunto della «sussunzione formale» (del dominio e dello sfruttamento) di modi di lavoro e forme di produzione non direttamente organizzati e rivoluzionati dal capitale.

È ben nota l’importanza che il rapporto tra sussunzione formale e sussunzione reale ha avuto all’interno della nostra discussione e della nostra “tradizione” teorica. Per ragioni in primo luogo politiche, si è a lungo trattato di insistere sulla qualità specifica della «sussunzione reale» (nonché dell’estrazione di «plusvalore relativo»). In tal modo, tuttavia, un residuo di “storicismo” e di “progressismo” si è insinuato nei nostri discorsi (uso i due concetti nel senso di D. Chakrabarty, che in Provincializzare l’Europa si è soffermato sul problema di cui stiamo discutendo), finendo spesso per rendere troppo lineare quel metodo della lettura della tendenza che rimane comunque tra le acquisizioni più preziose dell’operaismo italiano. Per quel che concerne specificamente il rapporto tra sussunzione formale e sussunzione reale, ciò ha finito per esprimersi in un common sense secondo cui i due concetti indicherebbero semplicemente due diverse “epoche” del modo di produzione capitalistico, destinate a succedere (appunto linearmente) l’una all’altra.

Certo, Marx fa uso dei due concetti anche per descrivere trasformazioni (“transizioni”) interne al modo di produzione capitalistico: e si possono ben leggere in questo senso testi giustamente famosi, come il capitolo 13 del primo libro del Capitale («Macchine e grande industria»), il «Frammento sulle macchine» dei Grundrisse, e lo stesso capitolo VI inedito del primo libro del Capitale («Risultati del processo di produzione immediato»), dove le categorie di «sussunzione formale» e di «sussunzione reale» sono discusse con grande ampiezza e originalità. Ma proprio in quest’ultimo testo leggiamo che la sussunzione formale costituisce al tempo stesso la «forma generale di qualunque processo di produzione capitalistico» (K, I, p. 1237). Mi pare un punto di grande importanza, che proprio l’analisi dell’accumulazione originaria consente di valorizzare pienamente.

Cerchiamo di proporre una sintesi di alcune delle cose fin qui dette, di “portarle al concetto” come dicono i tedeschi. E facciamolo tenendo presenti le questioni dello “storicismo” e del “progressismo”. In che senso abbiamo intitolato questo testo “Attualità della preistoria”? La «preistoria del capitale», la sua “storia precedente” (Vorgeschichte) è e al tempo stesso non è storia del capitale. Marx lo afferma con assoluta chiarezza in un passo della sezione dei Grundrisse sulle «Forme che precedono la produzione capitalistica»: una serie di condizioni fondamentali del rapporto di produzione capitalistico («una certa abilità di mestiere, lo strumento come mezzo di lavoro, ecc.»), «in questo periodo iniziale o primo periodo del capitale, esso la trova già esistente. […] Il processo storico [della sua produzione] non è il risultato, ma un presupposto del capitale» (G, II, pp. 135 s.). D’altro canto, questa peculiare struttura temporale (per cui il tempo del capitale vive in un rapporto di dipendenza con altri tempi storici, che non sono suoi propri) contraddistingue nel suo complesso la «sussunzione formale», nella misura in cui i modi di lavoro e le forme di produzione che la contraddistinguono non sono direttamente organizzati dal capitale (e dunque sono anch’essi trovati «già esistenti» dal capitale stesso). Lo aveva del  resto perfettamente colto già Rosa Luxemburg, all’inizio dello scorso secolo, sottolineando che il capitalismo ha bisogno, per la sua esistenza e per il suo sviluppo, di un ambiente costituito da forme di produzione non-capitalistiche» (Luxemburg 1913, cit., p. 363). Ma se prendiamo sul serio l’affermazione precedentemente citata, secondo cui la «sussunzione formale» è anche la «forma generale di qualunque processo di produzione capitalistico», la sconnessione temporale di cui stiamo parlando si inscrive al cuore stesso del concetto di capitale, determinandone logicamente la struttura.

Questa sconnessione è in fondo riconducibile proprio al rapporto tra storia e «preistoria» del capitale. Già lo abbiamo detto: questo rapporto si riapre continuamente nello sviluppo capitalistico, nel suo quotidiano funzionamento. Ora possiamo aggiungere: progressismo e storicismo sono sì inscritti nel codice temporale del capitale (e la critica deve renderne conto), ma ne costituiscono soltanto un vettore (in fondo letteralmente e profondamente utopico), continuamente interrotto dalla violenta (catastrofica, se vogliamo giocare con i termini benjaminiani) riapertura del problema dell’origine. Ovvero dal continuo ripetersi della transizione, termine che oltre a designare il momento storico appunto dell’origine del capitalismo ben si presta a indicare alcuni tratti fondamentali del suo quotidiano funzionamento, che balzano in superficie in modo particolare nei grandi momenti di trasformazione del capitalismo stesso.

Considerato nella sua lunga durata storica e nella sua dimensione di sistema mondo, il capitalismo è del resto strutturalmente caratterizzato dalla compresenza di sussunzione formale e di sussunzione reale, di plusvalore assoluto e di plusvalore relativo. A me pare che il capitalismo contemporaneo porti alle estreme conseguenze questa compresenza, proprio nella misura in cui, come ha scritto in modo efficacissimo alcuni anni fa Paolo Virno, uno dei suoi tratti costitutivi consiste nel determinare una sorta di «esposizione universale» dei modi di lavoro e delle forme di produzione che hanno segnato la sua storia. E si badi: tanto più intenso è il riemergere di sussunzione formale e di plusvalore assoluto (con il carico di violenza che è a essi connaturato) laddove si riapre la questione della produzione della forza lavoro come merce, laddove cioè quest’ultima non può più essere assunta come presupposto scontato e “regolato” del «mercato del lavoro». Non a caso, il concetto di «sussunzione formale» è stato riproposto, nella nostra discussione degli ultimi anni, da quanti hanno ragionato sui dispositivi di “cattura” e sfruttamento del «lavoro cognitivo» (cfr. Vercellone 2006, in specie pp. 55 s.) e da quanti hanno assunto come tema di ricerca il lavoro migrante e le forme del suo dominio (cfr. Ricciardi – Raimondi, eds, 2004, Mezzadra, 2006 e Rigo 2007).

Non si derivi d’altro canto da questo accostamento (né dall’accostamento ampiamente circolante tra lavoro precario e lavoro migrante) l’idea che le condizioni di una “ricomposizione” tra le figure soggettive del lavoro a cui questi concetti fanno riferimento sia qualcosa di automatico e “spontaneo”. Il ragionamento svolto sulla compresenza di sussunzione formale e sussunzione reale conduce piuttosto a evidenziare la radicale eterogeneità delle figure e delle posizioni soggettive che compongono oggi il lavoro vivo, eterogeneità che costituisce al tempo stesso un elemento di ricchezza e un problema politico. Da qui deve a mio giudizio ripartire il dibattito sulla categoria di moltitudine.

D’altro canto, è opportuno sottolineare che la compresenza di sussunzione formale e sussunzione reale, fin qui analizzata nei termini delle strutture della temporalità, ha importanti implicazione anche per un ragionamento su quelle che possiamo definire le coordinate spaziali del capitalismo contemporaneo. Per dirla in breve: mentre in altre fasi dello sviluppo capitalistico sussunzione formale e sussunzione reale si distribuivano tendenzialmente all’interno di diversi spazi (seguendo la distinzione tra «centro» e «periferia», «primo» e «terzo mondo»), oggi insiste all’interno di ogni area capitalistica. Di nuovo: non ne consegue certo l’irrilevanza delle differenze tra i diversi “spazi”, ma i confini tra essi – come hanno messo in evidenza Michael Hardt e Antonio Negri in Impero (2000) – si fanno mobili e porosi. E ne conseguono decisive implicazioni.

Mi limito a un unico esempio: mentre precedenti fasi dello sviluppo capitalistico sono state caratterizzate dal predominio di una particolare branca della produzione, di un particolare «ciclo di prodotto» (prima il tessile, poi l’automobile), attorno a cui si definivano gli equilibri interni al «capitale complessivo» e i rapporti gerarchici tra le diverse aree del sistema mondo capitalistico, oggi risulta estremamente difficile applicare questo modello, centrale nell’intera teoria del sistema mondo e in particolare nella variante dei cicli delle egemonie proposta da Giovanni Arrighi (ad es. 1994). È esemplare a questo riguardo la conclusione a cui perviene Beverly Silver, pienamente interna a questa “scuola”, nel libro citato in precedenza. Nel tentare di individuare il «ciclo di prodotto» che imprime il proprio segno al capitalismo contemporaneo, Silver ne rintraccia almeno tre: l’«industria dei semiconduttori» (a cui si collega nel suo complesso il «lavoro cognitivo»), i «servizi ai produttori» e i «servizi alla persona» (Silver 2003, pp. 103-123). È facile far notare che la semplice circostanza che i «cicli di prodotto» individuati siano ben tre segnala una trasformazione piuttosto radicale rispetto a precedenti «cicli». Ma il punto fondamentale è a mio giudizio che questi tre «cicli di prodotto» attraversano il capitalismo contemporaneo nell’interezza della sua articolazione spaziale: e a variare sono piuttosto le interne proporzioni dell’articolazione tra di essi, nonché della loro articolazione con altri settori dell’economia.

Ma torniamo alla questione della temporalità, per affrontare un terzo e ultimo problema collegato al tema della «transizione». Il discorso precedentemente sviluppato sulla sconnessione temporale inscritta all’interno del concetto stesso di capitale si è svolto sul filo del confronto – oltre che con alcune intuizioni di Étienne Balibar ricordate nel secondo paragrafo – con l’analisi del rapporto tra «lavoro astratto» e «lavoro vivo» proposta da Dipesh Chakrabarty nel secondo capitolo di Provincializzare l’Europa. Non si tratta di assumerla in toto, d’altro canto. A me pare, in particolare, che il ragionamento di Chakrabarty non faccia sufficientemente i conti con l’insieme dei problemi di cui qui si è trattato a proposito della produzione di quella merce assolutamente peculiare che è la forza lavoro, limitandosi a svolgere la questione (del resto assolutamente fondamentale) del necessario processo di disciplinamento del «lavoro vivo» – ovvero della sua riconduzione alla “norma” del «lavoro astratto». Il contributo di Chakrabarty resta tuttavia di grande importanza: le «due storie del capitale» da lui distinte – l’una (la «Storia 1») interamente dominata dalla temporalità «omogenea e vuota» del «lavoro astratto», l’altra (la «Storia 2») costretta a registrare l’eterogeneità costitutiva del «lavoro vivo» – consentono di approfondire e precisare molte delle tesi qui presentate.

In un saggio scritto con Federico Rahola (supra, cap. I), ho in particolare cercato di porre in relazione il discorso di Chakrabarty da una parte con l’analisi del rapporto tra il «singolare collettivo» Storia e il plurale delle storie sviluppata da Reinhart Koselleck nella sua storia concettuale della modernità, dall’altra con l’analisi della struttura del tempo storico proposta da Paolo Virno nel suo Il ricordo del presente (1999). Quel che ci stava a cuore affermare era in buona sostanza che anche la tensione tra la Storia e le storie (“risolta” nella transizione alla modernità) sembra oggi riaprirsi nella quotidianità del funzionamento del capitalismo globale, nella misura in cui esso è costretto a fare dell’eterogeneità costitutiva dei tempi storici che incontra il terreno strategico su cui si ridefinisce la valorizzazione del capitale. E in questo modo, finisce per venire in superficie quella tensione tra potenza e atto che, appunto secondo l’analisi di Virno, sta al fondo della stessa possibilità dell’esperienza storica.

Non torno qui su questo punto, per quanto sia ben consapevole della necessità di una sua maggiore articolazione. Vorrei soltanto fare due ulteriori considerazioni muovendo dal testo di Chakrabarty. La prima riguarda il carattere cruciale, per una ricerca sulla «transizione» al capitalismo e sull’accumulazione originaria, del confronto con il colonialismo. Nel capitolo 24 del primo libro del Capitale il riferimento al colonialismo è ben presente, ma in buona misura resta interno a una rappresentazione del colonialismo stesso come impresa “di rapina” e non guarda alla specificità dei rapporti sociali da esso prodotti al di fuori dell’Europa (mentre il capitolo successivo, dedicato come si è detto alla «Teoria moderna della colonizzazione», si concentra essenzialmente sul colonialismo settler).

Assumere pienamente il punto di vista coloniale sul tema della transizione, al contrario, conduce da una parte a ridisegnare la sua stessa “geografia”, ponendo in discussione ogni rapporto lineare tra centro e periferia del sistema mondo capitalistico fin dalla sua “aurora” (ho cominciato a sviluppare questo problema supra, cap. III); mentre dall’altra – lo ha rilevato ad esempio Partha Chatterjee, un altro protagonista, come Chakrabarty, dello sviluppo dei «Subaltern Studies», intervenendo nel «dibattito Brenner» (Chatterjee 1983) – pone di fronte a situazioni in cui l’«eterogeneità» storica e “culturale” delle condizioni in cui si determina il violento avvio dello sviluppo capitalistico a fronte della «storia 1» del capitale è ancora maggiore rispetto all’Europa occidentale, imponendo “soluzioni” anch’esse radicalmente eterogenee (ovvero una combinazione di dispositivi di dominio e di sfruttamento di diversa natura e di diversa “origine”).

La seconda considerazione consiste nel segnalare il fatto, seguendo ancora l’analisi di Chakrabarty, che proprio per quest’ultima ragione nelle condizioni del dominio coloniale emerge in modo particolarmente chiaro il nesso che stringe transizione e traduzione (Chakrabarty 2000, ed. ingl., pp. 34 e 102; ma si veda anche supra, cap. VI). Poniamo questo nesso nei termini più semplici possibili: perché si determini la transizione al capitalismo è necessario che le condizioni storicamente e “culturalmente” eterogenee che il capitale incontra e sussume sotto di sé siano tradotte nei codici che governano la «Storia 1» del capitale, e in particolare nel codice del «lavoro astratto», inteso come «la chiave interpretativa della griglia con cui il capitale ci chiede di osservare il mondo» (ivi, p. 82). Ma se quanto si è affermato precedentemente a proposito della peculiare “qualità” del tempo storico nel capitalismo globale ha una qualche plausibilità, è legittimo fare un passo ulteriore: e affermare che questo nesso tra transizione e traduzione, ancora una volta particolarmente evidente all’origine del modo di produzione capitalistico, designa uno dei fondamentali modi di operare del capitalismo contemporaneo.

Mi pare un’acquisizione di una certa importanza, nella misura in cui ci consente di guadagnare una prospettiva particolarmente efficace a partire dalla quale guardare alla centralità assunta oggi dal tema della traduzione nei dibattiti di teoria culturale e di teoria politica. Così ridefinita, la traduzione si mostra intera da una parte nella sua natura affatto materiale, perdendo ogni aura “culturalista”, dall’altra nella sua ambivalenza: terreno fondamentale di lavoro per la costruzione di pratiche politiche e di progettualità “alternative” (come ben sa, banalmente, chiunque abbia partecipato a un’assemblea di migranti), essa è altresì cruciale nella continua ricomposizione e trasformazione dei dispositivi di dominio e di sfruttamento. Lungi dall’appartenere all’empireo di una ideale comunità habermasiana della comunicazione, essa intrattiene cospicue relazioni proprio con la «levatrice della storia» – con la violenza. Per tornare a un libro che abbiamo menzionato all’inizio del testo, quello di Anna Lowenhaupt Tsing che pure insiste sul nesso tra transizione al capitalismo e traduzione (cfr. Tsing 2005, p. 31) e che mostra come lo scontro tra i partigiani e gli oppositori dei progetti delle grandi corporation giapponesi nelle foreste pluviali indonesiane si sia giocato tra l’altro proprio sul terreno della traduzione (cfr. ivi, pp. 211 s.), sarà bene prestare particolare attenzione all’ambivalenza delle «frizioni» (o meglio ancora degli attriti) che il nesso indicato determina.

 

6. Alla ricerca del comune. Del comunismo

Una postilla per concludere. Una postilla davvero stenografica per indicare – ancora una volta – un grande tema che l’analisi marxiana dell’accumulazione originaria ci consegna. È il tema, che già abbiamo del resto annunciato, dei commons, di quelle terre e di quei diritti comuni su cui, all’origine del modo di produzione capitalistico, operano le «recinzioni», ritagliando – istituendo violentemente – lo spazio della proprietà privata. Marx se n’era occupato già giovanissimo, in una serie di articoli sulla «legge contro i furti di legna» scritti nell’autunno del 1842 per la «Gazzetta renana». Anche questi testi sono stati riscoperti negli anni Sessanta, nella grande stagione della «history from below» (cfr. in particolare Thompson 1975, p. 258, nota 61): per quel che ci riguarda, ci limitiamo a segnalare l’estremo interesse delle riflessioni qui svolte da un Marx impegnato nel confronto critico con la Scuola storica del diritto a difesa dei «diritti consuetudinari della plebe» che, a differenza di quelli della nobiltà (definiti, con lessico hegeliano, «consuetudini contro il concetto del diritto razionale»), «sono diritti contro la consuetudine del diritto positivo» (Furti di legna, p. 187). Di un diritto positivo che – sanzionando appunto in nome della proprietà privata la “consuetudine” popolare di raccogliere legna nei boschi – attacca una delle basi fondamentali della riproduzione dei poveri nelle campagne: «trionfino gli idoli di legno», scrive Marx anticipando i toni del capitolo 24 del primo libro del Capitale, «e cadano le vittime umane!» (ivi, p. 180).

Non si può dire dunque che Marx sia insensibile di fronte all’attacco portato ai diritti e alle terre comuni nel contesto dell’accumulazione originaria. E gli scritti tardi sulla Russia, che già abbiamo ricordato, lasciano ampio spazio all’ipotesi politica che le lotte a difesa dei commons tradizionali (in questo caso il riferimento è alla obscina, la comunità rurale russa) possano aprire imprevisti scenari di transizione diretta al comunismo. Ma nell’insieme il giudizio di Marx, sprezzante nei confronti della ricostruzione apologetica dell’origine del capitalismo offerta dall’economia classica e volgare, si tiene a distanza di sicurezza dai toni nostalgici ad esempio di un Sismondi che, nella sua «filantropia ipocondriaca», è preoccupato soltanto di conservare il passato e distoglie lo sguardo dall’antagonismo che segna il presente (traggo la citazione da K. Marx, Flüchtingsfrage – Wahlbestechung in England – Mr. Cobden, MEW, 8, p. 544). Negazione della negazione: la figura dialettica, per quanto consunta, ben si presta a indicare il punto di vista marxiano.

Ecco, ho l’impressione che nel dibattito contemporaneo sul tema dei commons, precedentemente richiamato, i toni nostalgici (la «filantropia ipocondriaca») tendano al contrario troppo spesso a prevalere, come se appunto i «beni comuni» – rigorosamente declinati al plurale – fossero esclusivamente qualcosa di dato – e appunto da conservare. È sintomatico, in questo senso, il libro di Silvia Federici, Caliban and the Witch, che pure ho per altri versi valorizzato: muovendo dalla sacrosanta enfasi posta sui comportamenti autonomi e sulla resistenza delle donne nelle campagne tra medioevo e prima età moderna ai tentativi di porre sotto controllo la loro sessualità, Federici finisce infatti per proporre una rappresentazione a tratti “idilliaca”, e decisamente insostenibile, del feudalesimo europeo!

Quello dei commons, su cui concludiamo la nostra analisi del capitolo sull’accumulazione originaria del primo libro del Capitale, è in ogni caso – lo ripetiamo – un tema al tempo stesso cruciale e complesso. Coinvolge evidentemente questioni del tutto pratiche (si pensi, per fare un paio di esempi tra loro eterogenei, all’acqua, ai servizi pubblici, ai diritti di proprietà intellettuale) e si collega d’altra parte, in termini filosofici e politici, alla stessa semantica della comunità, su cui circolano nel dibattito degli stessi movimenti semplificazioni speculari a quelle indicate a proposito dei commons. Non solo non lo esaurirò, ma non lo svolgerò neppure in questa sede. Basti un cenno, che è al tempo stesso un’indicazione per una ricerca necessariamente collettiva: occorre prendere congedo da un’immagine dei commons come qualcosa di esclusivamente già dato ed esistente, e lavorare all’ipotesi che il comune sia qualcosa che deve essere prodotto, costruito da un soggetto collettivo capace, nel processo della sua stessa costituzione, di distruggere le basi dello sfruttamento e di reinventare le condizioni comuni di una produzione strutturata sulla sintesi di libertà e uguaglianza. Che cos’altro è il comunismo, il «sogno di una cosa» che dobbiamo tornare finalmente a sognare?

* Pubblicato in Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, ombre corte, 2008

 

Testi marxiani citati

Furti di legna = K. Marx, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna (1842), in Id., Scritti politici giovanili, Torino, Einaudi, 1975.

Miseria della filosofia = K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla “Filosofia della miseria” del signor Proudhon (1847), Roma, Editori Riuniti, 1993.

G = K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1978.

TüM = K. Marx, Storia delle teorie economiche (1861-1863), 3 voll., Torino, Einaudi, 1954.

Salario, prezzo, profitto = K. Marx, Salario, prezzo, profitto (1865), Roma, Editori Riuniti, 1977.

K, I = K. Marx, Il capitale, libro I (1867), Torino, Einaudi, 1975.

MEW = K. Marx – F. Engels, Werke, 39 Bde. und 2 Erg.Bde., Berlin, Dietz, 1958-1971.

 

 

 

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