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Choucha, là dove il Mediterraneo diventa Africa: Tunisia e spazi rivoluzionati

 

di MARTINA TAZZIOLI

1. “Le nostre storie sono state mal trattate; ci hanno detto che non rispondiamo ai loro criteri, ma noi non conosciamo i loro criteri”. I criteri sono quelli stabiliti dall’Alto Commissariato per i rifugiati per fissare di volta in volta chi diventerà rifugiato e chi sarà liquidato come migrante economico. Le storie sono le vite dei richiedenti asilo di Choucha, il campo aperto a fine febbraio 2011, poche settimane dopo lo scoppio della guerra civile in Libia e dove sono passate decine di migliaia di persone in fuga dal Paese. Le storie sono state maltrattate, specialmente quelle dei “diniegati”; vale a dire il conflitto armato in Libia non è stata considerata da coloro che governano la mobilità degli altri una condizione sufficiente per rilasciare la protezione internazionale. Meno il Paese da cui provieni è considerato “a rischio”, più il “regime di dimostrabilità” si fa esigente, devi mostrare che nonostante le agenzie internazionali valutino il tuo Paese sicuro, non in guerra, la tua storia personale dice che non puoi rientrare senza pericolo: il “country profile” unito profilo personale, spiega Unhcr, forniscono la chiave per definire chi verrà escluso dal regime di protezione.

A sette chilometri da Ras-Jadir, frontiera orientale tra Libia e Tunisia che in questo ultimo mese è stata chiusa dalle autorità libiche più volte a causa dei traffici d’armi tra i due Paesi, Choucha è ancora in funzione a un anno e mezzo di distanza quando la frontiera era attraversata da più di tremila persone al giorno in fuga dal conflitto libico. 2460 sono attualmente gli “abitanti” del campo gestito dall’Unhcr in cooperazione con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, Danish Refugee Council, Isamic Relief e la tunisina Croissante Rouge. 2460 persone che aspettano da mesi di essere reinsediate altrove- così prevede il regolamento internazionale nel caso in cui il richiedente asilo faccia domanda in un Paese dove non esiste una politica di asilo – Stati Uniti e Canada per lo più, o Norvegia e Svezia. In realtà, il capo responsabile del campo dell’Unhcr ci conferma che i Paesi in questione impongono i loro criteri di selezione dei rifugiati. Criteri che noi non siamo tenuti a sapere, tanto meno i rifugiati, abitanti di uno spazio di cui di fatto non conoscono le regole di esclusione così come non sanno chi tra esercito tunisino, Iom e Unhcr detiene i loro passaporti. Di fronte a questa impossibilità di sapere viene da chiedersi se i profili più gettonati tra i rifugiati che gli Stati possono selezionare siano in linea con le politiche di high-skilled migration – giovani qualificati – uniti a criteri (ragioni) più strettamente politiche –tra i rifugiati arabi gli iracheni e palestinesi tendenzialmente non vengono “scelti; o se invece rispondano a dinamiche e criteri che scompaginano quel racconto fatto dalle agenzie governamentali sulle migrazioni.

Un campo, quello di Choucha, dove a differenza degli altri sono arenate in un’attesa estenuante e in un deserto di tende bianche, persone con una provenienza unica, la Libia, ma di nazionalità differenti. E di fronte a questa composizione è stata articolata una spazializzazione delle esistenze corrispondente a quel governo mondiale della mobilità umana, e in ultima analisi al partage tra migranti economici e rifugiati: la parte centrale del campo riservata a somali, eritrei ed etiopi, cittadini di Paesi “a rischio” che dunque facilmente sono stati riconosciuti come rifugiati; ai bordi estremi del campo, o addirittura aldilà dei confini ufficiali, sono state collocate le tende di ghanesi, ivoriani, maliani, chadiani; sono le tende di coloro che “non rispondono ai criteri”, ai criteri di competenza di Unhcr e dunque del mondo intero e che nella maggioranza dei casi sono o verranno rifiutati, diniegati, rigettati. Termini diversi per dire che sei stato escluso, escluso dalla possibilità di stare in un qualunque spazio che non sia il tuo Paese di origine; escluso che permette all’Alto Commissariato per i rifugiati di dire che al gioco della protezione internazionale tutti possono partecipare e al tempo stesso qualcuno inevitabilmente resterà fuori.

323, al momento, sono i migranti che Unhcr ha fatto diventare presenze illegali sul suolo tunisino rifiutando loro lo status di rifugiato nonostante la fuga forzata dalla Libia in guerra. Producendo diniegati e dunque migranti irregolari, l’Unhcr ha di fatto creato un’impasse giuridico-politica per la Tunisia: dopo che nel giugno 2013 il campo verrà chiuso – e dove i diniegati adesso resistono nonostante l’intimazione a lasciare la zona – la Tunisia si troverà con più di trecento persone che rifiutandosi di fare ritorno nel proprio Paese di origine saranno i nuovi clandestini del post-rivoluzione. L’apertura di un centro di detenzione è una delle possibilità che alcuni coinvolti nella gestione del campo indicano, ma altrettanto plausibile che i diniegati finiscano per rimanere in tunisia inserendosi nell’economia informale, come molti di loro già fanno lavorando al nero nella cittadina di Ben Guerdane. Problema differente, ma non meno rilevante, per i rifugiati che non verranno accettati da nessun Paese per il reinsediamento: allo stato attuale la Tunisia è sprovvista di una politica di asilo, anche se nel 2011 con il conflitto libico alle porte il governo aveva deciso di aprire le frontiere con la libia per permettere alle persone di fuggire e i tunisini avevano mobilitato una vera e propria catena popolare per l’accoglienza dei libici quando ancora le organizzazioni internazionali non avevano arrivate in loco.

Ben Guerdane, ultimo centro abitato prima della frontiera libica, ha ospitato centinaia di famiglie in fuga dal conflitto; eppure sono i rifugiati stessi a dire che gli abitanti aggrediscono sistematicamente le persone che da Choucha si recano in città, per cercare un lavoro con cui pagarsi il latte che l’Unhcr non fornisce più o le schede telefoniche. Nel maggio 2011 sarebbero stati loro ad appiccare il fuoco nel campo, innescando un incendio dove sono morte 6 persone secondo le notizie ufficiali, molte di più secondo i rifugiati. La versione dei responsabili del campo sull’accaduto ovviamente è differente ma in ogni caso, rifugiati o diniegati che siano, a Choucha tutti raccontano degli attacchi razzisti subiti; per i tunisini loro sono “gli africani”, razzializzazione che alcuni tra i rifugiati ribaltano sostenendo che gli “arabi” non accettano la loro presenza sul territorio.

Uno spazio, quello di Choucha, che nei primi mesi del conflitto libico ha funzionato da avamposto dello stato di emergenza in Libia, avvallando come “umanitario” l’intervento in Libia di fronte alla crisi anch’essa dichiarata umanitaria visibile alla frontiera di Ras-Jadir. Uno spazio che peraltro la società tunisina non ha mai messo effettivamente in discussione, nonostante da campo di transito si stia trasformando in un centro di permanenza, dove negli scorsi mesi sono stati portati migranti soccorsi in mare in fuga dalla Libia e diretti a Lampedusa. Meccanismo di fissazione spaziale e sospensione temporale al tempo stesso dei soggetti e della loro mobilità: vite arenate alla frontiera sud di ciò che il governo delle migrazioni hanno disegnato come lo spazio Euro-Mediterraneo; una frontiera e un campo “operatori di scarti” a più livelli, rifugiati e diniegati, reinsediati e indesiderati, parte di quelle politiche di esternalizzazione delle frontiere in atto dal 2003. Unhcr e Iom insieme alla Svizzera hanno attivato un programma di “rimpatrio volontario” in base a cui il richiedente asilo di fatto vende la propria possiblità di fuga e di mobilità per 700 dollari, somma che Iom definisce come contributo per “ricominciare la propria vita nel Paese di origine”.

Perché partire da Choucha per parlare della Tunisia post-rivoluzione?

2. Le rivoluzioni arabe sono state lette come movimenti che riportavano al centro la questione mediterranea, il Mediterraneo come spazio di lotte in corso e al contempo come spazio da costruire come terreno di possibili alleanze tra i movimenti. Una vicinanza tra le due sponde da costruire, secondo alcuni e che secondo altri si è concretizzata piuttosto nella simultanea esperienza di lotte – movimento Occupy sulla sponda nord, e sollevamenti rivoluzionari sulla sponda sud – e che oggi deve declinarsi anche come libertà di circolazione delle persone, soppressione della politica dei visti e superamento di ogni logica storicista (idea di rivoluzioni laiche che hanno secolarizzato le società arabe). E tuttavia, se da un lato la messa in discussione della retorica e della politica di uno spazio Euro-Mediterraneo ha permesso di fare apparire i presupposti post-coloniali di tale denominazione, l’alternativa mediterranea resta comunque imbrigliata in un regime di produzione di confini di cui Choucha, dove queste frontiere si fanno concrete e insostenibili, rappresenta uno dei suoi punti di coagulazione: più frontiere convergono e si sovrappongono a Choucha, frontiere che indicano il termine geografico, di quello stesso spazio mediterraneo, dove il Mediterraneo diventa Africa. Ma se pensiamo che Choucha si trova su quello stesso territorio dove i tunisini oltre a Ben Alì hanno dégagé ogni politica che intenda governare sulle proprie esistenze, molti di loro vanificando in poche ore gli accordi bilaterali di contrasto all’ “immigrazione clandestina” e partendo per l’Europa, diventa più chiaro che le frontiere di cui parliamo non sono soltanto geografiche: dire libera circolazione nel Mediterraneo significa inevitabilmente tracciare dei confini spaziali e direttamente politici, uno spazio costruito in nome della vicinanza e uno spazio escludente: comunanza o per lo meno comunicabilità di pratiche politiche si dirà, vicinanza spaziale anche, eppure è proprio in nome della vicinanza che si rende possibile l’esclusione di alcuni, interni a quelle frontiere come nel caso degli “africani” Choucha, o subito oltre quelle.

Libertà di movimento, espressione ormai inflazionata tanto al livello delle stesse agenzie di governance delle migrazioni che tra le fila degli attivisti anti-razzisti, che viene vista sotto un’altra luce dalle forze di sinistra dell’altra sponda; sfasatura che il discorso della vicinanza tende a non (voler) vedere, anteponendo a un’analisi delle profonde differenze economiche un’analogia delle forme di lotta. A riguardo, la posizione del Poct, il Partito Comunista tunisino recentemente divenuto Partito dei lavoratori è significativa e introduce un problema di estrema complessità all’interno del campo di militanza noborders: in un contesto postrivoluzionario come quello tunisino dove la disoccupazione giovanile supera il 30%, con picchi che sfiorano il 40 nel caso dei diplomati, e dove al momento le uniche politiche economiche messe in piedi dalla coalizione di governo capeggiata da Ennahda sono frutto di accordi bilaterali con i Paesi del Golfo – Qatar in testa – o di progetti di privatizzazione dei servizi pubblici – Public Private Partnership attivate con il sostegno della African Development Bank – la fuga dei giovani tunisini verso l’Europa è fonte di preoccupazione per quelle forze di sinistra che auspicano invece una ricostruzione del Paese attraverso un’economia autosussistente, il più indipendente possibile da ingerenze esterne. Pertanto se in Tunisia vi è un arco politico piuttosto ampio in favore di una facilitazione consistente nel rilascio dei Visa turistici per l’ingresso in Europa se non per la loro abolizione, il quadro cambia se consideriamo il reato di emigrazione clandestina ancora in vigore in Tunisia dal 1975, che fino ad ora non è stato realmente messo in discussione da nessuna proposta di legge. In altre parole rispetto al dibattito europeo quello tunisino sembra invertire il segno: mentre sulle possibilità di immigrazione la Tunisia, e prime fra tutte le forze di sinistra, spingono per una libera circolazione per quanto condizionati in parte dagli accordi bilaterali con i Paesi europei, in chiave di politica “interna”, vale a dire di emigrazione, le posizioni si fanno più sfumate e il discorso che risuona a sinistra rimarca la responsabilità dei cittadini tunisini nella costruzione di una vera alternativa politico-economica. Del resto, l’attuale torsione di Ennada dall’Europa verso le petromonarchie per stringere accordi economici non sposta di molto l’ago della bilancia vista la cadenza tutta neoliberale delle politiche del Qatar. Anche, suggeriscono alcuni esponenti del governo in carica, indirettamente questa scelta di campo potrebbe influire andando ad alterare gli equilibri euro-mediterranei e le condizioni delle politiche di vicinato in cui l’Unione europea gioca la parte del leone, alzando la posta ad esempio di fronte ai trattati post Ben ali relativi al controllo delle coste che i Paesi europei stanno cercando di far sottoscrivere alla Tunisia. Non solo, a causa dell’inasprirsi della crisi economica in Europa molti giovani tunisini si stanno indirizzando verso la Libia – e verso i Paesi del Golfo, nel primo caso come manodopera non qualificata nel secondo sia come high skilled migration (settore ingegneristico e informativo) che non (strutture alberghiere). Di fatti gli stipendi in Libia sono mediamente il doppio rispetto a quelli tunisini, dove il salario minimo è di 250 dinari al mese, vale a dire 125 euro. La stampa tunisina parla di 300 000 posti di lavoro in Libia per i tunisini: non molti certamente, ma considerando i rientri sempre più frequenti dei migranti tunisini dall’Italia a causa della disoccupazione, la Libia diventa lo spazio più appetibile, sia per futuri accordi governamentali sia per le pratiche di migrazione temporanea. Come a Sfax, città industriale sulla costa da cui sono partiti in moltissimi verso l’Europa nel 2011 e dove oggi,una rete informale di taxi collettivi organizza circa cento partenza partenze al giorno.

Nel frattempo, tra i Paesi del Magreb si fa strada la proposta di creare uno spazio di libera circolazione non solo per le merci ma anche per le persone, eliminando l’obbligo di possedere un passaporto. Proposta per adesso però bloccata dall’Algeria e che ha sollevato anche in Tunisia non poche polemiche.

3. Costruire la “nuova Tunisia” è diventato il leit-motif anche delle agenzie intergovernative così come delle migliaia di associazioni proliferate sul territorio tunisino all’indomani della rivoluzione: migrazioni e sviluppo, politiche di sviluppo partecipato, stabilizzazione di comunità a rischio sono alcune tra le molteplici declinazioni tunisine di quella development politics che ha caratterizzato gli interventi europei e occidentali nelle ex-colonie a partire dal dopoguerra con l’affermarsi della politica di transizione strutturale, poi divenuta governo della povertà e per riprendere l’analisi di Kanyal Sanyal, fino all’attuale rafforzamento di reti di economia informale e di sussistenza che coesistono a fianco di politiche di spossessamento e investimento. La Tunisia dei governatorati di Kasserine, Sidi-Bouzid e Gafsa – le regioni dell’interno dove la rivoluzione ha avuto inizio come rimarcano con orgoglio gli abitanti di quelle zone ai confini con l’Algeria- è diventata il bacino prioritario di progetti di sviluppo economici e di politiche di fissazione delle persone allo spazio promosse congiuntamente da agenzie di controllo delle migrazioni (Iom) e da reti di microcredito (Enda) che in ultima analisi facilitano la possibilità di indebitamento dei tunisini, anticipando somme di denaro necessario per chiedere prestiti a enti bancari e avviare attività imprenditoriale. Migration and development dunque, e di fatti l’Organizzazione internazionale per le migrazioni oltre a riproporre le ormai usuali campagne di sensibilizzazione per convincere le persone sui rischi della migrazione irregolare, fissa le persone allo spazio attraverso “programmi di reinserimento” dei migranti rientrati attraverso la formula del “rimpatrio volontario”. Eppure soffermandoci sui dati di questo preteso governo ordinato delle migrazioni, è facile notare che si tratta di numeri al limite dell’inconsistente: 24 progetti selezionati in tutto il Paese, con una percentuale che si aggira intorno allo 0,8% di persone assistite sul totale dei migranti tunisini rientrati dalla Libia o dall’Europa nel 2011.

D’altro canto, le attività lavorative finanziate, nonostante il registro neoliberale mobilitato sia da Iom che dagli enti bancari attraverso la teoria del best-practices transfer, sono in realtà molto  vicine a un’ economia informale o di sussistenza: se da un lato le agenzie del discorso del migration governance si propongono di facilitare la transizione democratica della Tunisia postrivoluzionaria, nei fatti è la logica del “to make the poor work” che viene messa in gioco. Tra l’altro, tra i migranti sono solo quelli rientrati “volontariamente” a poter beneficiare dei finanziamenti mentre gli espulsi, nel modello di Tunisia disegnato dalle agenzie internazionale, restano esclusi da ogni forma di sovvenzionamento e di reinserimento sociale. Economia morale e moralità economica si sovrappongono nella governance delle migrazioni: oltre a un governo del rischio vengono anticipate e prefigurati percorsi di buona condotta, promettendo pacchetti-rimpatrio che di fatto invertono il progetto migratorio, legando il rientro della persona fin dall’inizio a un progetto imprenditoriale da costruire una volta nuovamente in patria. Governo delle migrazioni che dunque sconfina ben oltre le funzioni di controllo e “prevenzione”, iscrivendosi nelle politiche di sviluppo ancora con più veemenza in uno spazio (post)rivoluzionario come quello tunisino, dove la logica della transizione democratica e della stabilità fanno del migrante rientrato un agente responsabile della nuova cultura civico-imprenditoriale.

4. Issam Heni si siede al tavolo del Café del sindacato dei lavoratori di Sidi-Bouzid, adesso diventato punto di ritrovo anche per i giovani diplomés chomeurs che dall’anno scorso si sono costituiti in una rete nazionale autorganizzata. Issam, ci dicono in paese, è il blogger che ha messo in rete le prime immagini delle rivolte a Sidi-Bouzid scoppiate già all’indomani dell’auto-immolazione di Mohammed Bouazizi: dice di essere “très déçu”, molto deluso da come la rivoluzione (non) sta proseguendo, perchè l’opinione condivisa è che proprio adesso occorrerebbe rilanciare il processo rivoluzionario, visto che i problemi non sono stati certamente risolti il 14 gennaio 2011 con la caduta di Ben Alì. Anzi, il “dégage” generalizzato su cui insistono i più celebri blogger di Tunisi, non ha costituito secondo Issam il motore della rivolta, ma è stata una parola d’ordine che ha cominciato a diffondersi solo il 12-13 gennaio, mentre nel mese di dicembre le rivolte sono scoppiate per pretendere una più equa ripartizione delle risorse economiche e un aumento dei posti di lavoro. Nel momento in cui la si è definita politica, ovvero una lotta per il potere, per Issam la rivoluzione è stata tradita. Per questo più che una rivoluzione preferisce definirla un’intifada, una rivolta sociale generalizzata che ha cominciato a perder di forza già con la Kasbah II, nel mese di febbraio, dove sono apparsi i partiti politici e gli islamisti. Rivolte per lo più notturne, confermano i ragazzi di Kasserine, una strategia volta a estenuare le forze di polizia e in cui le donne partecipavano in supporto, fornendo assistenza. Poche effettivamente, per quanto siamo riuscite a capire, le donne che hanno preso parte agli scontri diretti, alcune studentesse universitarie. Ma l’evento rivoluzionario non può essere confinato alle manifestazioni di piazza, e per questo resta tutto da indagare in che modalità le donne vi hanno preso parte. Racconto diverso della rivoluzione tunisina, considerata da tutti ancora in corso e in parte già tradita, è il racconto dei militanti di Tunisi, i giovani del Poct o gli attivisti indipendenti che vedono proprio nella Kasbah I e II i momenti culminanti dello spontaneismo, per usare un termine inflazionato, o di quel sommovimento anarchico che ha caratterizzato i primi mesi della rivoluzione. Nell’occupazione della kasbah si sono sperimentate modalità di presa e risignificazione degli spazi riprese poi nei movimenti Occupy di tutto il mondo; ma fare emergere racconti finora inascoltati della rivoluzione, racconti provenienti dalle cittadine dell’interno dove i gelsomini non crescono per il caldo del deserto, serve a marcare la componente di classe di questo sollevamento popolare: nonostante le regioni dell’interno abbiano un alto tasso di produzione di materie prime la loro lavorazione avviene altrove, nelle città della costa o a Tunisi; e i finanziamenti che ricevono dallo Stato sono inferiori alle altre zone; per frequentare l’università i giovani devono trasferirsi a Sousse o a Tunisi. A un anno e mezzo di distanza a Sidi-Bouzid sono riprese le manifestazioni di protesta e gli scontri, ancora una volta a fronte di condizioni di esistenza insostenibili. Articolare la componente di classe interna allo spazio tunisino con il posizionamento geografico dei soggetti –ovvero la classe dei cittadini dei Paesi a mobilità facilitata – ci aiuta a leggere le pratiche di migrazione non solo come pratiche di libertà, di fuga ma anche come “movimento di riappropriazione delle ricchezze, delle possibilità e dei desideri”. Fattore di classe che in fondo si ripropone nelle partenze degli harraga, i bruciatori di frontiere: tutti volevano partire dopo la rivoluzione, si è detto. Ma poi le case e le storie delle famiglie dei tunisini partiti per Lampedusa e ancora dispersi mostrano un’altra realtà: chi diplomato chi no, in ogni caso a fare harraga sono stati i giovani non contemplati dalle politiche di mobilità selezionata, dalle partnership mobility che l’Europa sta ridefinendo con il nuovo governo per aprire canali di accesso preferenziale alle università europee. Kabaria è uno delle banlieu di Tunisi da cui una buona parte dei tunisini dispersi sono partiti, in gruppo; a Kabaria sanno che in Italia c’è la crisi, che il tasso di disoccupazione giovanile è sugli stessi livelli di quello tunisino e che molti tra gli immigrati hanno deciso di ritornare; alcuni sanno anche che il tempo massimo di detenzione nei Cie è adesso di 18 mesi, un anno e mezzo di galera. E di fatti più che progettare la propria vita in Europa tra i giovani prevale il desiderio di provare per un periodo, provare e poi tornare. E nello spazio tunisino rivoluzionato le famiglie dei migranti dispersi hanno provato a far sconfinare sull’altra sponda del Mediterraneo i sollevamenti contro pretendendo dall’Italia e dalla Tunisia insieme di rendere conto delle vite dei loro figli, ribaltando la funzione di uno strumento di identificazione come le impronte digitali per sapere attraverso un confronto tecnico se i migranti sono mai arrivati in Italia. Un indirizzarsi al potere incondizionato, che non smette di fare rumore, di scomodare funzionari e presidenti di entrambi i governi. Un prolungamento della rivoluzione, un suo rilanciarsi negli spazi e nel tempo, si potrebbe dire, che passa anche attraverso i luoghi simbolo del 2011 rivoluzionario: a un anno dal tentativo di Kasbah III le famiglie hanno rioccupato per qualche momento quello spazio, insieme al gruppo italiano di donne Leventicinqueundici con cui da mesi ribadiscono che, “da una sponda all’altra le vite contano”, riprendendo lo slogan della campagna che ha letteralmente viaggiato tra i due Paesi. Resta il mare di mezzo, lo spazio Mediterraneo attraversato da politiche di controllo, radar e pattugliamenti congiunti, uno spazio in cui agli occhi tecnologici del potere non sfugge niente, eccezione fatta per i 1500 migranti – stima per difetto – dispersi nel mare Mediterraneo nel solo 2011. Uno spazio indubbiamente difficile da rivoluzionare, quello del mare, ma pretendendo dalle politiche di governo di dirci cosa il potere vede e cosa non ha voluto vedere, le famiglie dei dispersi e le loro sostenitrici dell’altra sponda sono in fondo le uniche a provarci.

 

 

 

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