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Con le Pussy Riot, oltre le Pussy Riot

 

Intervista a ILYA BUDRAYTSKIS e ALEXEI PENZIN di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO

La Cattedrale di Cristo Salvatore sorge, come un pugno nell’occhio, a ridosso del centro di Mosca. Qualche anno dopo la rivoluzione d’Ottobre fu abbattuta per lasciare successivamente spazio alla più grande piscina all’aperto del mondo, che durante l’estate offriva sollievo e refrigerio magari non alle anime, ma certo ai corpi dei lavoratori. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica una delle prime iniziative della municipalità moscovita fu la ricostruzione dell’orribile edificio, per rendere chiara a tutti – fingendo ce ne fosse bisogno – la restaurata vigenza del potere spirituale fedelmente al servizio di quello politico. É questo il luogo dove è avvenuta, nello scorso febbraio, l’ormai famosa performance delle Pussy Riot, il cui processo e la cui condanna sono ormai noti al mondo intero grazie a una grande campagna internazionale che ne ha chiesto l’immediata liberazione. Ma le azioni e la conseguente repressione delle militanti del gruppo punk femminista non riguardano una generica libertà di espressione negata dal regime illiberale di Putin (come affermano i media e le liberaldemocrazie occidentali, tra cui gli Stati Uniti, che proprio negli stessi giorni stanno cercando di tappare la bocca ad Assange e sbatterlo in gattabuia). E sarebbe altrettanto sbagliata la personalizzazione del caso, quasi ad accreditare l’immagine dell’artista o dell’intellettuale engagé che parlano nel nome di un popolo addormentato. Le Pussy Riot e il processo che le vede protagoniste vanno infatti inquadrati dentro un movimento che dallo scorso inverno sta riempiendo le piazze e presenta, insieme a peculiari specificità, diversi caratteri comuni con gli occupy globali. D’altro canto, non solo le Pussy Riot ma almeno un’altra ventina di attivisti sono a tutt’oggi rinchiusi nelle carceri russe con accuse pretestuose che costeranno loro altri anni di carcere.

É proprio da questa necessaria contestualizzazione politica che comincia la nostra conversazione con Alexei Penzin, militante di Chto Delat e filosofo, e con Ilya Budraytskis, storico e anch’egli particolarmente attivo nelle mobilitazioni degli ultimi mesi.

A. P. : La mobilitazione in Russia è iniziata lo scorso dicembre, ma prima già stavano emergendo nuovi movimenti e c’erano varie organizzazioni politiche, quindi non è stato qualcosa di completamente inaspettato. Tuttavia, è stata la prima volta, dopo la perestroika, di una mobilitazione politica di protesta di così grandi dimensioni. Dopo le elezioni di Putin a marzo ci sono state altre mobilitazioni e nel mese di maggio si è concentrata molta attenzione su Occupy Mosca, anche se non come per il caso Pussy Riot. É importante sottolineare come qui – soprattutto dopo gli scontri con la polizia del 6 maggio, che hanno avuto particolare peso – per la prima volta gli attivisti abbiano organizzato un’assemblea che riprendeva le forme di discussione e di decisione del movimento occupy. Dobbiamo allora analizzare la vicenda delle Pussy Riot in questo contesto e in relazione alle dinamiche di movimento del mese di maggio.

I. B. : Credo che sia importante considerare i diversi livelli della mobilitazione e della partecipazione politica in Russia. La maggior parte della popolazione, come hanno mostrato le elezioni di marzo, è ancora dalla parte del regime; la fedeltà di questa parte della popolazione si basa sulla passività politica, ovvero sulla depoliticizzazione che ancora esiste nonostante i nuovi movimenti di protesta. C’è poi questo largo movimento che ha coinvolto circa il 20 o 30% di coloro che hanno votato contro il partito di governo e che hanno espresso la loro insoddisfazione attraverso le elezioni. E poi c’è un terzo livello, quello delle mobilitazioni di strada e della protesta. Il 24 dicembre 2011 a Mosca c’è stata una della più grandi manifestazioni della storia russa, con 100.000 partecipanti, e ugualmente in altre città ci sono stati cortei con migliaia di persone (10.000 a San Pietroburgo). Dentro il movimento c’è una minoranza più attiva e politicizzata, particolarmente importante nell’occupazione, che ha comunque visto la partecipazione quotidiana di migliaia di persone. In occasione del processo alle Pussy Riot c’è stata una grande mobilitazione; il 17 agosto, nel giorno della sentenza, c’erano almeno 600 sostenitori, che hanno fronteggiato oltre alla polizia un paio di centinaia di fascisti e ultra-ortodossi che cercavano lo scontro.

Oltre a coloro che sono scesi in strada, moltissime persone hanno sostenuto le Pussy Riot in rete, contribuendo alla mobilitazione internazionale. Complessivamente nel movimento l’attenzione per le Pussy Riot è stata molto alta e la solidarietà è arrivata anche dalla manifestazione del 12 giugno a Mosca con i suoi 10.000 partecipanti. Credo però che questo caso diventi importante solo se riportato nel contesto di movimento; al contempo non può esserne considerato la massima espressione. In altre parole, nonostante la grande attenzione sul piano nazionale e internazionale alle Pussy Riot, non si può ridurre tutto il movimento a questo caso. Il movimento è infatti composito e combina differenti esperienze e forme di espressione. Il caso delle Pussy Riot è anche in qualche modo l’esito delle divisioni culturali costruite ideologicamente negli anni di Putin intorno al supporto alla chiesa ortodossa tradizionale: quindi, le attiviste del gruppo hanno il supporto non solo degli attivisti di movimento, ma anche di chi si oppone all’invasività della chiesa nella sfera politica.

Come si inserisce allora, in questo quadro, l’azione delle Pussy Riot e con quali rapporti rispetto al movimento?

A. P. : La performance delle Pussy Riot nella Cattedrale di Cristo Salvatore nel mese di febbraio è arrivata in una fase delicata per il movimento, insieme di indecisione e di grande speranza. E la scadenza elettorale era vista come un passaggio importante anche per le sorti del movimento. Va anche considerato che la campagna di Putin si basava soprattutto sul confronto tra la “maggioranza silenziosa” e la classe media, ricca, istruita e responsabile che vive nelle grandi città e soprattutto a Mosca. Il caso della Pussy Riot ha quindi buttato benzina su questa campagna elettorale ed è stato strumentalizzato dai media: se sei contro il gruppo punk sei dalla parte della chiesa ortodossa e del regime di Putin, e questo ha finito per dividere il paese in due sulla base dei diversi orientamenti culturali e del rapporto con la chiesa ortodossa.

La performance delle Pussy Riot è stata molto intelligente, ma in termini concreti e immediati ha rischiato di essere fine a se stessa, dando allo Stato e ai media a esso asserviti, in particolare la televisione, la possibilità di un assalto al movimento e di costruire l’idea di un complotto contro la Russia. Ha insomma consentito di alimentare quelle divisioni culturali di cui si parlava prima. La performance delle Pussy Riot è stata dunque ambivalente: ha certamente espresso sul piano simbolico e affettivo l’opposizione alla chiesa ortodossa e a un paese dispotico, ma nello stesso tempo è stata strumentalizzata con estrema facilità e ha permesso di spostare il confitto dal piano politico a quello religioso, come se si trattasse di un conflitto che ha a che fare con la Russia tradizionale, con una domanda di libertà di espressione connessa con l’Occidente. Al contrario, la lotta è pienamente politica, è legata al regime economico e sociale nel suo complesso, non a questioni strettamente religiose, culturali o etiche.

I. B. : Vorrei aggiungere qualcosa sul ruolo della chiesa nella società russa. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta c’è stato un grande revival ortodosso: appartenere alla chiesa ortodossa divenne una caratteristica soprattutto dell’intellighenzia urbana, durante il periodo sovietico voleva dire assumere una posizione non convenzionale. All’inizio degli anni Novanta molte persone nei movimenti di protesta erano ortodosse e credevano nell’etica della sua chiesa. In conseguenza di questo revival religioso ci sono molti giovani, anche a Mosca, che hanno una relazione intensa con la chiesa. Nell’ultimo decennio la chiesa è divenuta parte integrante dell’elite dominate, in forte connessione con la burocrazia di Stato, con il governo e con le strutture repressive, perdendo in qualche modo quella dimensione egemonica nella società che aveva negli anni Novanta.

A. P. : La visione secondo cui la chiesa ortodossa sarebbe radicata nell’identità russa fa parte dell’ideologia che Putin cerca di imporre. Dopo gli anni Novanta tanti hanno criticato soprattutto il ruolo assunto da alte cariche della chiesa che utilizzavano i privilegi fiscali per i propri affari economici. Le gerarchie ecclesiastiche funzionano come grandi imprese: per esempio la stessa Cattedrale di Cristo Salvatore – luogo scelto dalle Pussy Riot per la loro azione – era stata usata in passato per iniziative secolari e cerimonie pubbliche organizzate dagli stessi vertici della chiesa in cambio di denaro. Tuttavia, nonostante buona parte dell’intellighenzia liberal e della base religiosa abbia criticato questi comportamenti, la questione non è mai stata problematizzata e affrontata in termini politici.

Avete analizzato e sottolineato le peculiarità e le ambivalenze delle iniziative delle Pussy Riot dentro lo spazio del movimento. Quali sono analogie e differenze tra la composizione delle mobilitazioni tra dicembre e agosto e di quelle a sostegno delle Pussy Riot?

I. B. : Nelle mobilitazioni a supporto delle Pussy Riot c’erano soprattutto attivisti, sia liberal sia della sinistra radicale, e persone del mondo dell’arte. La comunità degli artisti ha infatti espresso una grande solidarietà. Gran parte della sinistra russa, però, è preoccupata di queste divisioni culturali e c’è anche scetticismo verso il caso Pussy Riot, che rischia di distogliere l’attenzione del movimento dai temi politici e sociali.

A. P. : Nello stesso tempo la dimensione femminista espressa dalle Pussy Riot e l’aver reso esplicita la critica al rapporto tra Stato e chiesa è esattamente il punto di ambivalenza. Può essere interpretata sul piano globale come un esempio dello Stato russo oppressivo e corrotto che se la prende con tre giovani femministe: ciò ha suscitato grande attenzione nei movimenti femministi e glbt sia in Russia sia all’esterno; il discorso, però, è stato tradotto a livello internazionale in forme forse eccessivamente semplicistiche e deboli.

Nella retorica liberale e dei media internazionali prevale il discorso sulla Russia ferma al medioevo che deve essere portata nella modernità…

A. P. : Esatto, è stato interpretato come un conflitto che, in termini sociologici, potremmo definire tra l’arcaico e il progresso; al contempo, la dimensione politica è stata ridotta a una sorta di reazione affettiva contro frodi e ingiustizie.

I. B. : Ritorna un discorso sull’etica paragonabile a quello dei dissidenti sovietici impegnati contro uno Stato arcaico e repressivo. É un’etica centrata sull’individuo, e questo è stato il problema principale dei dissidenti che si configuravano come movimento non politico ma semplicemente per i diritti umani, agito da persone orgogliose della loro coscienza e dei lori diritti, che scelgono una strategia da minoranza etica.

Prima avete fatto riferimento alla solidarietà del “mondo dell’arte”, attraversato negli ultimi anni in Russia da importanti tentativi di organizzazione di lavoratori e precari. C’è una connessione tra questi processi di soggettivazione dei lavoratori dell’arte e la mobilitazione per le Pussy Riot?

A. P. : Le Pussy Riot non nascono propriamente in un milieu artistico, cioè l’arte  è solo una delle linee di intervento del gruppo. In Russia, comunque, il livello di politicizzazione della comunità artistica è buono ed è stata espressa solidarietà alle Pussy Riot, identificandole come artiste (per esempio sono state proposte per il premio Kandinsky). Qualcuno percepisce la posizione degli artisti contemporanei come di opposizione ad una Russia arcaica e ciò produce molti conflitti. Da questo punto di vista, quello delle Pussy Riot non è il primo caso: nel 2003 c’è stata un’esposizione dal titolo “Attenti alla religione” che è stata attaccata con atti vandalici dai cristiani ortodossi. Alla fine degli anni Novanta un artista, Avdey Ter-Oganyan, è stato costretto ad andarsene dal paese per aver organizzato una performance in cui distruggeva icone russe, un’azione davvero provocatoria e radicale per la quale è stato perseguitato dalle autorità religiose e dal tribunale civile e alla fine ha scelto di emigrare. Adesso iniziative come questa diventano molto importanti perché riescono ad avere maggiore risonanza sul piano nazionale e internazionale. La performance delle Pussy Riot è apparsa su tutti i canali televisivi, compresi quelli pro-Putin, e oggi il consenso alle Pussy Riot tende a essere maggioritario.

Quali sono, complessivamente, le prospettive del movimento in Russia? 

A. P. : Per quanto riguarda le Pussy Riot il tentativo è di sfidare il verdetto sul piano giuridico, in ogni caso le mobilitazioni di sostegno continueranno. Vorrei però tornare al punto dell’ambivalenza della questione. Loro avranno la possibilità di rapportarsi al movimento anche dalla prigione: nel prossimo incontro di settembre di Occupy Mosca si discuterà di come portare avanti il sostegno alle Pussy Riot e la solidarietà internazionale che sono riuscite ad avere è di grande importanza per tutti noi. Permette infatti di mostrare cosa succede in questo paese e di rompere l’isolamento del movimento, mettendo in difficoltà il regime di Putin: il clamore sollevato dal caso Pussy Riot ha infatti rovinato la sua reputazione internazionale.

I. B. : Credo che il fallimento della chiesa ortodossa e la critica al patriarca faccia venir meno anche la reputazione delle gerarchie ortodosse nella loro pretesa di giocare il ruolo di autorità morale nella società. E questo è uno dei grandi effetti di questo caso. E se questo movimento di protesta cresce e sarà capace di coinvolgere altri settori della società, assumerà posizioni diverse dall’approccio liberale dei diritti umani.

A. P. : Va infine detto che lo scandalo sui media ha seguito l’esplodere delle proteste, e non viceversa: il movimento è dunque cresciuto da solo. In passato la performance creativa attraverso i media era l’unico modo per attrarre l’attenzione pubblica su qualche problema: questa pratica di provocazione è emersa in un momento di apoliticità della popolazione, in cui questo era il solo modo di raggiungere l’attenzione. Ora che il movimento è cresciuto le tattiche creative e provocatorie hanno un significato molto differente.

 

 

 

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