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Desiderio ed etica sovversiva del comune. Conricerca e produzione del comune oltre la famiglia, il welfare e la cittadinanza

 

di ROBERTA POMPILI e GISO AMENDOLA

Fuori e contro l’identità

Chandra Talpade Mohanty, nel recentemente tradotto in italiano Femminismo senza frontiere (Ombre Corte), ha evidenziato come il  contributo del femminismo postcoloniale abbia in qualche modo aiutato a mettere in luce le forme dell’oppressione e dello sfruttamento a partire dall’intreccio di razza, genere, classe: non il sesso o il colore come terreni politici separati, segnati da identità omogenee, ma il modo in cui sono stati “utilizzati” dal capitale e il modo stesso in cui noi li ripensiamo. Queste chiavi di lettura aiutano a rinnovare l’analisi delle strutture di dominio, a ridare visibilità alle differenze: alla loro cattura come dispositivi di produzione del valore e, allo stesso tempo, alle loro particolari ricombinazioni, alle strategie di risignificazione che possono attraversarle e riconnetterle. Se pensiamo alla complessità e all’articolazione delle differenze dentro la contemporanea composizione di classe (di per sé costitutivamente eterogenea), possiamo forse provare a pensare a genere e razza non solo come terreni su cui intervenire attraverso esercizi di decostruzione e di critica, ma anche come linee di forza, utilizzabili come leve contro il capitale, perché intorno ad essi si animano resistenze e prendono vita forme di controsogettivazione.

Il piano moltitudinario può darsi come l’elemento unificante: laddove per moltitudine si intende un rinnovato e più articolato concetto di classe; non la classe esclusivamente come forma specifica, “presupposta”, della condizione lavorativa, ma come il processo di tensione verso una rinnovata composizione dell’eterogeneo, e proprio per questo attraversato da una coalizione straordinaria di singolarità. Un piano “di classe”, non solo distante anni luce da qualsiasi nostalgia di omogeneità, ma capace di farsi critica di qualsiasi politica dell’“identità” e apertura alla sperimentazione di una nuova produzione di soggettività, ricca delle differenze che la cooperazione contemporanea esprime.

Vedere le differenze è, infatti, un passaggio importante: ma da solo non basta, non solo perché le differenze sono continuamente prodotte dentro le dinamiche sociali, ma perché esse si incarnano, hanno a che fare con corpi concreti e singolari, le singolarità. Le differenze non si misurano tanto né sul piano di costruzione di identità omogenee (sebbene provvisorie e contingenti), né su quello della costruzione di gerarchie di priorità. Le composizioni possibili, i concatenamenti politicamente virtuosi delle differenze, hanno piuttosto a che fare con il piano moltitudinario orizzontale della dimensione etica e delle lotte.

Se infatti il comune è ciò che insieme produciamo, è nella tensione per liberarlo dalle griglie del potere e restituirlo alla sua potenza che prende vita il nostro desiderio costituente, il nostro approccio etico-militante.

Oltre la cittadinanza e il lavoro

Rileggiamo, quindi, la razza, il genere e la classe e il loro intreccio, attraverso due terreni di interesse, che rappresentano lo sfondo trasversale delle molteplici questioni che affrontiamo.

Pensiamo in particolare al lavoro e alla cittadinanza. Tradizionalmente, lavoratori e cittadini sono stati i dispositivi di produzione di soggettività attorno ai quali il modello welfaristico classico si è affermato. Oggi, pur nella crisi di quel modello, l’ombra di quei dispostivi identitari continua, anche se attraverso trasformazioni radicali, a stendersi sulle nuove forme che assume la cooperazione sociale: lavoro e cittadinanza, dimessa oramai ogni parvenza di “integrazione”, si mostrano esplicitamente come dispositivi di selezione, ma, soprattutto, come meccanismi per bloccare le soggettività, per impedire la combinazione delle singolarità, per mortificare la capacità trasformativa dei desideri e ricondurla alla “dura” disciplina dell’identità.

Proprio mentre, nella trasformazione produttiva post-fordista, le forme del lavoro si diversificano e si individualizzano, il lavoro e la sua ideologia unificante e identitaria, con la loro funzione di soffocamento e imbrigliamento, si pongono – ancor più che come una forma di sfruttamento – come la forma del comando e del controllo sociale. Il capitalismo contemporaneo distende i suoi dispositivi di cattura su tutta la produzione sociale, al di là delle delimitazioni spaziali o temporali, al di là dei luoghi elettivi dello sfruttamento e/o della disciplina e ignorando qualsiasi misura del tempo: tutta la vita messa al lavoro, come si è spesso ripetuto nelle analisi sul capitalismo cognitivo. Ma, proprio perché i dispositivi di cattura attraversano l’intera vita, insinuandosi sotto la pelle stessa delle soggettività, la sua ubiquità si traduce continuamente in dispositivi di identificazione, in modelli identitari che tendono a bloccare le capacità trasformative, proliferative, inventive delle soggettività che intendono catturare. Le figure dell’identità perciò prosperano: se non c’è più bisogno d’esser bravi “lavoratori”, perché quell’identità non è più centrale, il capitalismo cognitivo chiede – e prova a formare – identità che bloccano la propria potenziale ricchezza negli incantesimi delle nuove forme di etica della prestazione, della concorrenza, dell’autoresponsabilizzazione e della valutazione, e, spesso, dell’autosfruttamento puro e semplice. Se è vero quindi che il capitalismo biopolitico, in quanto governo e sfruttamento dei corpi, razzializzati, sessualizzati e dunque gerarchizzati, non ha alcun piano di centralità spaziale (la fabbrica), né temporale, né identitaria, è vero anche che il capitale unifica di continuo, ideologicamente, tutto quanto per altro verso si distende entro temporalità e spazialità decentrate. Il capitale così produce continuamente politiche identitarie, atte a separare comunque lavoratori e non lavoratori (le donne, i migranti, i “disoccupati”), proprio mentre, in realtà, tutta la vita entra nei processi produttivi. Contro questa tensione continua al blocco e all’identità, che caratterizza il capitalismo contemporaneo al di là del suo distendersi su superfici fluide e reticolari, (al suo continuo riterritorializzare i flussi deterritorializzati, per dirla con Deleuze e Guattari), occorre riattivare costantemente il nostro pensare e agire dis-identificante, al ritmo delle singolarità e della potenza moltitudinaria del comune.

Come il lavoro, così la cittadinanza, proprio mentre si pretendeva dispositivo di progressiva, universale integrazione, si costruiva come dispositivo di organizzazione gerarchica delle differenze. Il welfare ha poggiato tutto il proprio tentativo di articolare il proprio modello di ordine sociale su soggetti ben “incardinati” ed “orientati” all’interno di formazioni collettive storiche, assunte anche come agenzie di senso e luoghi di scoperta, conferma e stabilizzazione della propria identità. Costruire la società come fondamento omogeneo, e, anzi, continuamente ricostruire questa omogeneità, riconducendo a identità riconoscibili tutto quello che apparisse soggettiva ec-ecentrico, è stato l’imperativo categorico della costruzione welfaristica. Attorno a questa concezione statica delle identità, il  welfare costruiva il suo modello di intervento “settoriale”:

Oggi, specie la “sinistra” tradizionale si fa interprete del rimpianto e della nostalgia di quel modello di welfare, dipinto spesso come il frutto più alto della mediazione statuale: la sua crisi viene così raffigurata come una sorta di irrimediabile perdita, di un esaurimento di ogni capacità politica di tenere insieme le differenze e di costruire un’accettabile inclusione sociale. Dopo la crisi del welfare, ripetono a “sinistra”, non si è data più alcuna mediazione possibile, solo la consegna alla lunga deriva di un individualismo riottoso ad ogni legame sociale e votato alla cancellazione di ogni dimensione collettiva. Lo stesso desiderio, senza più riferimenti identitari forti, disperso in una società senza modelli e senza “padri”, si sarebbe lasciato consumare nelle logiche del godimento immediato, del consumismo e del mercato.

Questo sguardo nostalgico per il welfare delle identità, per il welfare del lavoro e della cittadinanza, va completamente rovesciato: la stessa genealogia di quella crisi andrebbe completamente riletta alla luce della forza delle differenze, delle molteplicità, delle singolarità eterogenee, la cui ricchezza è risultata incontenibile dentro quelle le griglie identitarie. La crisi della cittadinanza lavoristica è emersa proprio davanti alla forza di un tessuto di soggettività mobile, ricco, non sintetizzabile nel modello di cittadino, maschio, capofamiglia e lavoratore, intorno al quale il patto welfarisitico si fondava. L’irriducibilità delle singolarità alle identità riconosciute dal patto sociale ereditato, la scoperta del desiderio come produzione di soggettività eccedente la mappa dei “bisogni”, selezionati, classificati e governati dallo stato sociale classico: tutto questo ha segnato il campo sul quale si è prodotta la crisi del welfare. Altro che soggettività disperse dal venir meno dei forti riferimenti identitari (ovviamente sempre quelli, del “buon” cittadino e del “buon” lavoratore), altro che nostalgie per i padri: il modello welfaristico è andato in crisi anche per non aver capito che la ricchezza della nuova composizione sociale, la capacità di produrre della nuova cooperazione sociale, non poteva più essere trattenuta nelle maglie strette della tradizionale cittadinanza e dell’altrettanto tradizionale statuto del lavoro. Il neoliberalismo riuscì ad elaborare dispositivi che, in fondo, sapevano muoversi con una maggiore capacità di cattura delle differenze e delle singolarità: seppe sfruttare la decrepitezza di quel discorso identitario – quello del lavoratore e del cittadino – per presentarsi come ben più aderente al ritmo delle differenze.

Oggi, ogni discorso su un welfare possibile, su un welfare del comune, che voglia liberare la cooperazione sociale dai dispositivi di messa al lavoro che continuamente tentano di catturarne il valore, non può che portare a fondo la critica per qualsiasi nostalgia per i vecchi blocchi identitari: non può che essere, senza riguardi, per la distruzione del Buon Cittadino e del Lavoratore Responsabile, del Buon Padre di Famiglia e della Brava Moglie, del Vero Maschio e della Donna per Bene. Le lotte per il commonfare lasciano alle sinistre tradizionali le litanie per auspicare il ritorno dei Padri o delle Madri Autorevoli e radicano la loro forza proprio nella potenza trasformativa del desiderio, nella capacità plastica delle singolarità: la lotta contro i processi di identificazione – che tornano a bloccare, a gerarchizzare e a selezionare, a ritagliare settorialmente la cooperazione sociale – fa parte integrante della costruzione di un commonfare.

Nel corso del seminario napoletano di Uninomade, per esempio, il collettivo Smaschieramenti ci ha rimandato una formula che felicemente indica questo darsi insieme della questione del rifiuto dei dispositivi identitari e, insieme, della lotta contro i dispositivi di sfruttamento, di precarizzazione e di messa a valore delle differenze stesse: nelle accampate degli Occupy, ci hanno ricordato, queer si fa lotta di classe. Che è enunciare precisamente il punto per noi fondamentale: nei movimenti che si producono ora dentro e contro la crisi, la sperimentazione della capacità trasformativa oltre le gabbie del genere, i processi che tengono insieme la dis-identificazione rispetto ai dispostivi di genere dati e l’invenzione produttiva di soggettivazioni al di là di quei dispositivi, sono insieme affermazione della ricchezza della cooperazione sociale e invenzione di modelli di welfare finalmente indipendenti da ogni condizionamento identitario.

La lotta contro il condizionamento è il cuore di ogni welfare delle singolarità. Non a caso, le ricerche, ma ora, significativamente, anche le lotte che si collocano su quel prezioso terreno ricompositivo che è la rivendicazione del reddito di base, precisano con sempre maggiore puntualità che la caratteristica davvero liberatoria del basic income sta sì nella sua universalità, ma prima ancora nella sua incondizionatezza: parola che certo indica, tecnicamente, la mancanza di condizioni per l’erogazione del reddito, ma che, in un senso più ampio, traduce perfettamente il punto centrale di queste lotte. Il diritto al reddito è un’arma per rompere il reticolo dei dispostivi di ricatto, e affermare la ricchezza di quelle singolarità, il desiderio di un’affermazione positiva, senza condizioni, assoluta, a partire proprio dalla rottura di tutte quelle gabbie, identitarie e condizionanti, che il capitalismo quotidianamente prova a far piovere sulla capacità di vivere, di creare, di inventare delle nostre esistenze.

In sintesi, la critica del “genere” della “razza”, così come della famiglia, della religione, di ogni essenza identitaria, oggi sono esattamente coincidenti con la liberazione dall’etica del lavoro, sono le forme contemporanee del rifiuto del lavoro: e questo, proprio perché le catene del lavoro oggi passano per il tentativo di governare la grande capacità delle soggettività contemporanee di trasformarsi, di ibridarsi, di “fare comune” attraverso l’imposizione di identità rigide, identità adatte a ricondurre alla docilità la ricchezza di quelle soggettività. Il campo di lotte per il welfare del comune diventa perciò il campo di lotta per la rottura di tutti quei dispositivi attraverso i quali l’energia plastica e trasformatrice delle differenze viene continuamente tradotta come alterità, come mancanza, come sottrazione: quei dispositivi che vogliono ricondurre le differenze alla legge dell’Identità (e in concreto, alla legge della concorrenza, della “adeguata” prestazione, ma anche alla legge del “giusto” genere, della “buona” famiglia) e impedirne la connessione sul terreno della produzione del comune.

Salute e famiglia: identità codificate contro singolarità e cooperazione

Dentro il piano del welfare, per esempio, se ci interroghiamo sulla legge 194 – che su quel piano per le donne assume la stessa valenza simbolica in riferimento all’autodeterminazione delle donne, che l’articolo 18 ha nel diritto del lavoro – non possiamo non considerare che quel dispositivo normativo se da un lato è stato strappato da un ciclo passato di lotte, oggi che i fronti si moltiplicano (obiettori di coscienza, RU486, legge sulla procreazione assistita), è, in una certa misura, svuotato di senso.

Le lotte che si pongono sul piano della salute/sessualità/procreazione e della maternità/paternità consapevole, oggi, ancora più che nel passato, viaggiano su diversi e più articolati piani, sulla produzione di rinnovati immaginari che decostruiscono i processi di reificazione, identificazione, rompono binarismi e gerarchie. Hanno a che fare con una pluralità di bisogni e ci interrogano altrimenti.

D’altra parte possiamo osservare la riproduzione come luogo privilegiato per il controllo di stato nell’era del biopotere, e vedere quali sono i meccanismi attraverso i quali lo stato neoliberale giustifica la sua azione politica e si riproduce. Le biopolitiche in questo campo si misurano con un fronte trasversale pronatalista sostenuto dalle retoriche dei mass media e dei discorsi “scientifici”, per le quali la bassa incidenza di natalità nel nostro paese è costruita come un problema che deve essere contrastato attraverso norme che rinvigoriscano la famiglia tradizionale eterosessuale e autoctona. A tale proposito è interessante evidenziare come gli appelli alla coesione sociale (nel suo stretto legame con la questione demografica) e alla crescita della natalità non solo siano bipartisan, ma vadano a braccetto con le politiche di smantellamento e/o ristrutturazione del welfare fordista, a partire dai luoghi preposti alla salute procreativa e dagli stessi consultori. I biopoteri possono allora essere riletti, al tempo della crisi, nel loro rincorrere i nuovi desideri e bisogni di sessualità, procreazione e di scelta, nel loro porsi come tappo al dispiegarsi eccentrico e fuori norma della vita.

E ancora, nel tempo della crisi, questi dispostivi di blocco del desiderio e di controllo sulla vita incontrano perfettamente le retoriche politiche fondamentaliste e religiose nel loro orientamento a produrre un modello normativo femminile egemone legato alla famiglia (pensiamo agli accordi informali tra sinistra e cattolici integralisti sulla Ru 486 che, in molti territori regionali, impediscono la diffusione della pillola per l‘aborto chimico, legale nel nostro paese e ampiamente sperimentata in altri paesi come la Francia). La produzione dei corpi di stato nella crisi, si situa dentro una miriade di dispositivi che riproducono le donne come naturalmente eterosessuali e madri, moralmente orientate verso lavori e ruoli tradizionali di cura, dentro una riprodotta gerarchia familiare. Così, ancora una volta, il significante donna ovvero la produzione di una identità omogenea legata al moloch della famiglia (e del welfare familistico) si pone in contrapposizione,e, al tempo stesso, in perfetta complementarietà al cittadino (maschio, bianco, eterosessuale, lavoratore, titolare di welfare). La famiglia d’altra parte è sempre stata l’interfaccia del welfare: il welfare fordista era fondato sulla divisione sessuale del lavoro e sul non riconoscimento del lavoro domestico. Nell’era della crisi, con il declino dell’intervento pubblico, assistiamo dunque ad una avanzata del “welfare familistico”.

Contemporaneamente, la produzione della soggettività (autoctona) naturalizzata nel dispositivo di cura, fa anche i conti con la sua controparte, l’altra, la migrante, fino a ieri figura centrale nel lavoro di cura, appaltato e razzializzato. Il controllo dei corpi riproduttivi ci dice, infatti, ancora qualcosa che ha a che fare ancora una volta con la produzione delle diverse identità del cittadino, della donna autoctona e della donna straniera.

Se torniamo al fronte pronatalista non possiamo non notare, infatti, come i discorsi (politici e scientifici) che lo attraversano hanno considerano e, in una certa misura, riproducono la donna “bianca italiana”; non a caso, e al contrario, quando si parla di fertilità, di salute procreativa della donna straniera, se ne parla generalmente nei termini di un eccesso di fecondità tale che sembra minacciare i confini dello stato nazione.

E ancora come non pensare a tutte le retoriche invocate in riferimento ai consultori, come luoghi dequalificati, in quanto, almeno nel recente passato, attraversati in gran parte dalle migranti? L’analisi delle biopolitiche sul fronte della riproduzione da questo punto di vista ci dice qualcosa sulla continua produzione/riproduzione dello stato-nazione: genderizzazione e razzializzazione marciano di pari passo, nella riformulazione delle gerarchie della cittadinanza, dei dispositivi dell’inclusione escludente. Mentre la famiglia tradizionale naturalizzata, eterosessuale, autoctona, viene continuamente riprodotta dalle norme, la vita quotidiana si misura con le innumerevoli varietà di forme di relazione, di coesistenza, di vita. La precarietà di vita, la maggiore mobilità nel lavoro, ma soprattutto le diverse aspirazione e i desideri incontenibili delle singolarità si misurano oggi con esperienze di convivenza estremamente variabili. Piuttosto che su un piano univoco polarizzante di esperienza di vita da pianificare, la molteplicità prende vita attraverso il desiderio sessuale vissuto come elemento di gioiosa riappropriazione, la polarità delle scelte degli orientamenti sessuali, le modalità diverse di costruzione della genitorialità: le corporeità singolari si contrappongono alle forme di vita codificate. Un vecchio studioso diceva che l’elemento costitutivo della famiglia – la cui varietà storica e sociale è una evidenza- potesse rintracciarsi nella condivisione dello stesso tetto (e il consumo di un pasto quotidiano condiviso).

La ricerca delle pluralità di forme di coabitazione può mettere a nudo ad esempio le forme di diverse forme di relazioni e  le stesse resistenze. Nel biocapitalismo, le fughe dal modello egemone di vita rappresentano un punto di forza da cui ripartire per indagare le reti della cooperazione oltre il welfare pubblico e privato, oltre la famiglia.

Il desiderio e l’etica sovversiva del comune

Nel contesto biopolitico, d’altra parte, la produzione di discorsi, che decostruiscono la realtà sociale, sono già un aspetto fondamentale dell’ingresso nell’arena politica.

Ma la decostruzione dell’ideologia dominante non può non essere accompagnata anche da una ricostruzione di un discorso etico-politico, teso alla trasformazione della stessa realtà: fare conricerca, documentare, registrare le lotte, portare in primo piano la vita esperienziale e storica, individuare i dispositivi attraverso i quali essa viene cancellata e rinscritta nella storia egemonica.

La militanza si situa in questo spazio, dentro la tensione etica di un desiderio del comune, che tende a smantellare le mappe cognitive del privato e del pubblico – che si riproducono nelle forme giuridiche della famiglia, del welfare, della cittadinanza – e a liberare la potenza della cooperazione produttiva.

Parzialità, messa in gioco soggettiva dentro una produzione eccedente condivisa che si fa ricerca, invenzione, sperimentazione: la militanza si misura dentro la ri-costruzione di un soggetto etico, produzione di un sé, che, fuori dal progetto individualista e identitario neoliberista borghese, non può darsi che come un sé molteplice e contraddittorio.

Ma l’approccio etico rifonda la dimensione di un sé attraverso la virtuosa relazione politica, dentro la molteplicità e singolarità dei corpi e delle vite: relazioni che si pongono fuori dai rapporti di proprietà/identità, a cominciare da quel grande dispositivo proprietario-identitario che è la famiglia, lontane dalle forme delle gerarchie e burocrazie tipiche degli apparati pubblici.

Fuori dal linguaggio di stato, la conricerca è produzione/contaminazione/costruzione di una potenza immaginativa, di un linguaggio che si traduce come comune, felice sinergia di desiderio e lotte, cooperazione e analisi.

 

 

 

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