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Disinnescare la sollevazione. Obama al lavoro con un occhio al “nuovo” Medio Oriente

 

di RAFFAELE SCIORTINO

In Egitto la partita decisiva non è a due, è a tre: la piazza, il regime e Washington. Il tentativo del regime di scatenare i suoi sgherri armati contro la piazza senza riuscire a “liberarla” ha accelerato i passaggi verso il cambio della guardia togliendogli ogni residuo credito anche internazionale. L’amministrazione Obama ha così cambiato passo: dalla transizione ordinata alla transizione now appoggiandosi sui vertici dell’esercito che possono passare all’incasso dell’atteggiamento “neutrale” tenuto in questi giorni verso i manifestanti. Salvo colpi di coda dello stato di polizia mubarakiano – possibili vista la spropositata consistenza numerica con ricadute anche sociali – il secondo venerdì di piazza Tahir potrebbe aver sancito il nuovo equilibrio che per gli Usa deve sporgersi il meno possibile verso le richieste più radicali della piazza, in primis la dipartita immediata di Moubarak. Su queste basi Washington ha spinto per i colloqui iniziati domenica che coinvolgono l’opposizione compresi i Fratelli Musulmani (attestati su posizioni moderate).[1]

Ancora due venerdì fa a Washington non si sapeva come procedere – pur nella sensazione/timore che oramai il regime di Moubarak fosse agli sgoccioli – per evitare che la situazione sfuggisse completamente di mano.[2] Se per il vicepresidente Biden il rais non poteva essere chiamato un dittatore, le teste d’uovo dei vari think tanks avvertivano che non c’è nei paesi arabi un’opposizione “credibile”, quindi attenzione a mollare un cavallo fidato.[3] Non solo per il rischio di rimettere in discussione le relazioni tra Egitto e Israele e dunque l’asse dell’ordine statunitense nella regione ma anche – ricompaiono confronti storici che parevano seppelliti – perchè un governo transitorio debole rispetto alle istanze sociali e politiche della piazza potrebbe fare la fine di… Kerensky nella Russia del ‘17.[4] E’ vero però che già traspariva chiarissima la preoccupazione di apparire dal lato sbagliato della storia, di ripetere l’errore Iran ’79, e perdere così del tutto la residua credibilità in Medio Oriente soprattutto alla luce delle aspettative verso il discorso obamiano del Cairo poi andate deluse con lo stallo della situazione in Palestina.[5]

Intanto a perdere quel poco che rimane della sua credibilità ci pensa il governo israeliano nella sua difesa a oltranza del fedele alleato egiziano. “Penso che non sia il momento giusto per il mondo arabo di entrare in un processo di democratizzazione”.[6] Questa dichiarazione, una fra le tante, di un alto funzionario del governo di Tel Aviv dice tutto (a chi vuol capire). Comunque sia, Israele vede da subito nero: rischia seriamente di perdere il partner decisivo nell’area, dopo che già l’alleanza con Ankara è andata in fumo, e con la sensazione netta di essere stati traditi da Washington troppo titubante nell’appoggio al rais del Cairo. Le peggiori aspettative verso la presidenza Obama paiono avverarsi. (Nè se la passa meglio l’Anp di fronte alla prospettiva di perdere il proprio protettore arabo).

É nella settimana appena trascorsa che si delinea un evidente riposizionamento di Washington. La parola d’ordine diviene dapprima “transizione ordinata”, un passo al di qua della richiesta ufficiale a Moubarak di dimettersi ma con l’esplicito obiettivo di evitare un vuoto di potere. Martedì primo febbraio il senatore democratico Kerry, non una “colomba” e sicuramente in accordo con Obama e il Dipartimento di Stato, rincara la dose chiedendo apertamente a Moubarak di farsi da parte mentre viene spedito d’urgenza al Cairo un inviato speciale statunitense per convincerlo a farlo subito. Per tutta risposta gli apparati di polizia tentano di riprendersi la piazza terrorizzando e uccidendo. Siamo così alla cronaca degli ultimi giorni con Washington che prepara il terreno alla transizione appoggiandosi sui vertici delle forze armate e sul vicepresidente Suleiman.[7] Al di là di oscillazioni e sfumature diverse dentro l’amministrazione, spingono in questa direzione l’esperienza “positiva” con la transizione tunisina attuata dal governo Ghannouchi ma soprattutto il rischio di perdere tutto in un paese cruciale per la geopolitica statunitense.[8]

La variabile decisiva per questo riposizionamento è però stata e continua a essere la protesta di piazza, la sua ampiezza e trasversalità, e la sua tenuta di fronte agli attacchi. Una sollevazione tanto più significativa in quanto innescata da quella tunisina e con un possibile effetto domino. Dunque non contenibile con i vecchi strumenti e per i poteri globali da disinnescare al più presto a evitarne l’accelerazione e radicalizzazione. Anche a costo di mollare il fedelissimo degli ultimi trent’anni, di gettare nel quasi panico Tel Aviv e di indebolire gli altri alleati arabi. Effetti di una “rivoluzione” ai suoi primi passi – quindi ancora con residui margini di mediazione – il che può suonare paradossale solo a chi confonde il ruolo internazionale di Washington con quello della Russia della Santa Alleanza.

Il passaggio è stretto, forse strettissimo per Obama. Che però mostra di averlo messo a fuoco anche contro le resistenze fortissime all’interno e dell’alleato sionista. Tra titubanze e oscillazioni, l’obiettivo è quello di star dentro gli eventi, e non alla coda, per condizionarne l’esito e il decorso politico rilanciando in qualche modo il ruolo statunitense. Obama può giocare sulle aspettative della piazza egiziana e dell’opinione araba, o almeno di una sua parte, sincere o semplicemente improntate a realismo, verso l’unico attore internazionale in grado oggi di giocare un ruolo pesante (non si dimentichino i due miliardi di “aiuti” annui).[9] La sollevazione, un po’ paradossalmente, lo ha così costretto e gli permette al contempo di riprendere in parte il programma del discorso del Cairo dei primi mesi della sua presidenza, in cui si delineava uno scambio tra caute riforme politiche e civili nel mondo arabo e il mantenimento del rapporto privilegiato con gli States. La necessità di una exit strategy dal bushismo si faceva virtù con l’abbozzo suadente di un “nuovo” Medio Oriente. Come scrive Georg Soros, uno che se ne intende, la politica di Obama dovrebbe aiutare a ricostruire la leadership americana e a rimuovere una debolezza strutturale nelle nostre alleanze dovuta al legame con regimi repressivi.[10]

Con quante chances reali di successo oggi? Comunque le si valuti, una cosa è certa: la “svolta” cui assistiamo non è improvvisata anche se quel programma era pensato più per prevenire le rivolte che non per “accompagnarle” verso un esito non sfavorevole a Washington.[11]

C’è poi un secondo versante su cui Obama sta giocando, quello della partita geopolitica con l’Europa e la Cina. La nullità – e peggio, se si guarda a Francia e Italia – dell’Europa in questa vicenda, la sua incapacità di costruirsi un ruolo attivo sia per disinnescare il materiale esplosivo sul suo fronte sud sia per sottrarre spazi a Washington, sono sotto gli occhi di tutti.[12] Ma anche la Cina – oramai primo acquirente del petrolio saudita e iraniano e con una proiezione economica non indifferente nel continente africano – è in estrema difficoltà, dopo che la secessione del Sudan meridionale ha già inferto un bel colpo alla sua politica di inserimento “pacifico” in Africa e nella partita globale del petrolio. Nè si tratta solo di rivalità inter-imperiali. La carta decisiva che Obama può gettare sul tavolo in faccia ai partner/rivali è l’indispensabilità, ancora, degli Stati Uniti a fronte dei primi grossi sconquassi politici nella crisi globale. Se è impensabile ad oggi un intervento militare statunitense nelle aree di crisi, stante i disastri bushiani e i problemi di bilancio, Washington resta comunque l’unico attore globale in gradi di “imporre ordine” contro la rivoluzione sociale che inizia a far capolino (e non risulta sia molto amata neanche da Berlino e Pechino). Questo ruolo non mancherà di essere agito anche sul piano della ripartizione dei costi economico-sociali della crisi globale, entrata forse nella sua “terza fase” paventata a Davos, quella della crisi sociale e delle rivolte.[13]

Con questo i nodi per Obama non sono affatto sciolti, tutt’altro. All’immediato, l’apparato mubarakiano tutt’altro che evaporato potrebbe o giocarsi il tutto per tutto o, peggio, tentare di prendere per sfinimento la protesta. Per altro verso non sarà facile da parte statunitense far digerire alle masse un ricambio veramente minimale come quello che si prepara con Suleiman al posto di un rais comunque non dimissionato direttamente dalla protesta. Inoltre, il rischio dell’effetto domino non sarebbe scongiurato, al contrario le altre piazze arabe potrebbero sentirsi legittimate a muoversi, e non è ancora chiaro dove verrà tracciata da Washington la linea rossa invalicabile. Si dovrà poi scontare l’opposizione durissima di Israele con i suoi addentellati interni all’establishment U.S. né va dimenticato che Obama dopo la sconfitta i midterm è quasi un’anatra zoppa.[14]

Soprattutto, in prospettiva, cosa potrà offrire di concreto Washington a un eventuale nuovo Egitto e Medio Oriente? Dove sono i margini oggi per allentare la stretta della rapina occidentale o addirittura per concedere qualcosa in più? Senza contare il ruolo di Israele che si farebbe ancora più aggressivo a seguito del maggior isolamento.

Difficile che riesca sul campo il “capolavoro” di declassificare a riedizione in ritardo delle “rivoluzioni colorate” quello che a tutti gli effetti potrebbe essere l’inizio di un ’48 arabo, come ha ben scritto Tariq Ali. La democrazia per cui in piazza si sta rischiando anche la vita dovrà aver ben altri contenuti, politici e sociali, per venire incontro alle istanze profonde della generazione che ha deciso di dire Kefaya. Condizionamenti e depotenziamenti sono sicuramente all’opera, e potrebbero riuscire a breve vista la natura dell’opposizione egiziana, ma siamo solo al primo tempo di un processo che deve ancora dispiegare pienamente gli elementi di autorganizzazione e gli spunti di un programma autonomo una volta che le soluzione intermedie riveleranno la loro inefficacia. E intanto già oggi la Tunisia, l’Egitto, il Medio Oriente tutto non sono più come prima…

6 febbraio


[1] http://www.nytimes.com/2011/02/07/world/middleeast/07egypt.html?hp.

[2] http://www.guardian.co.uk/commentisfree/cifamerica/2011/jan/28/obama-clinton-wobble-egypt-mubarak.

[3] http://www.cfr.org/publication/23925/wrong_side_of_history.html.

[4] http://www.thedailybeast.com/blogs-and-stories/2011-01-27/obamas-support-for-egypt-protesters-risks-a-key-ally/.

[5] http://www.cfr.org/publication/23925/wrong_side_of_history.html.

[6] http://www.time.com/time/world/article/0,8599,2044929,00.html.

[7] http://www.nytimes.com/2011/02/04/world/middleeast/04diplomacy.html?_r=1.

[8] http://www.nytimes.com/2011/02/06/world/middleeast/06policy.html?hp.

[9] E’ sufficiente seguire l’influente AlJazeera per rendersi conto che a Obama si chiede, anche “contro” Washington, di associarsi al Basta.

[10] http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2011/02/02/AR2011020205041.html. E’ interessante come si stia formando una convergenza su questa linea da lidi neocons, conservatori tradizionali e liberal: http://www.nationaljournal.com/protests/obama-s-risky-idealism-reversing-the-devil-s-bargain–20110203.

[11] Sotto questa luce, e non in senso complottista, si possono leggere anche le rivelazioni di Wikileaks sui contatti tra amministrazione e opposizione egiziana non islamista.

[12] Vedi Caracciolo: “In teoria, gli europei avrebbero qualche maggiore possibilità, se non fossero vittime della sclerosi analitica e progettuale che li ha colti del tutto impreparati di fronte alla fine di quello che consideravano, e probabilmente tuttora considerano, il miglior Vicino Oriente possibile”: http://temi.repubblica.it/limes/legitto-e-il-tramonto-dello-status-quo/19637

[13] http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-01-26/credito-crisi-parola-davos-063546.shtml?uuid=AatID02C.

[14] V. l’articolo: http://www.infoaut.org/articolo/obama-al-capolinea-e-il-governo-della-fed-linee-di-faglia-negli-states/.

 

 

 

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