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Fine dell’Unione Europea?

 

di TONI NEGRI

Or non è molto, Étienne Balibar esprimeva preoccupazione per la “fine dell’Unione Europea”, di quella costruzione la cui storia è cominciata cinquant’anni fa sulla base di una vecchia utopia ma le cui premesse non erano state mantenute. Aveva ragione. Si aggiunga che, quanto più continua la crisi economica, tanto più si approfondisce la crisi politica del progetto europeo. Le voci che richiedono il ritorno dello Stato-nazione non costituiscono un brontolio sordo che solo diviene coro assumendo toni estremisti, ma sembrano ormai costituire una polifonia di voci populiste ed identitarie che vanno oltre le nazioni stesse – dalla Cecoslovacchia alla Boemia e alla Slovacchia, e dopo il Belgio le Filandre e la Vallonia, dopo l’Italia e la Spagna, i Paesi baschi e la Padania… una balcanizzazione infinita. Qualcosa, nel processo della costruzione europea, non solo sembra essersi bloccato ma andare à rebours. Proprio quando, nella nuova fase della mondializzazione, di fronte alla crisi dell’egemonia americana sul mercato globale e l’emergere di altri blocchi continentali, dell’Unione gli europei hanno soprattutto bisogno. Ma, a rilanciare l’Unione, non basterà rivitalizzare il vecchio processo. Esso era basato, dal punto di vista dell’iniziativa politica su una governance equilibratrice delle dissimmetrie e delle eventuali emergenze dentro una gerarchia tradizionale di Stati; per le politiche economiche, sul coordinamento di uno sviluppo a geometria variabile, sempre tuttavia a dominanza neoliberale. Ed anche dal punto di vista giuridico le cose non sono diverse: è emersa una forma tecnocratica e giurisdizionale dello sviluppo costituzionale che esclude la partecipazione democratica e configura uno “statalismo senza Stato”, la forma peggiore del sovranismo.

Ma la malattia cronica dell’Ue della quale tutte le altre si nutrono, è l’interiorità del progetto europeo alla politica Nato. Gli Usa non hanno mai voluto un’Europa unita. Almeno dalla metà degli anni cinquanta hanno sempre detto: non s’ha da fare! Ne hanno accettato il progetto iniziale solo per stringere il destino europeo nelle strategie della guerra fredda. Ma dopo la caduta del Muro non c’era più ragione di Ue. Per gli Usa questo rifiuto è strategico. L’Ue è per gli Usa un’inaccettabile sfida geopolitica (l’unico paragone adeguato, mi è sempre sembrata la sfida del “bancor” che a Bretton-Woods Keynes lanciò al dollaro). Tanto più è inaccettabile in un mondo pluralizzato dalla crisi della loro egemonia globale. L’Europa è infatti la sola potenza che dal punto di vista economico, culturale e politico, può rappresentare un polo alternativo agli Usa nel contesto plurale della mondializzazione.

A questo scopo, l’Ue dovrebbe, nella situazione attuale, rendere più profondo lo spazio atlantico; di contro, aprire verso l’Est; riequilibrare il suo rapporto con le potenze mediorientali; aprire i suoi mercati ai flussi Sud-Sud. Chiunque abbia una qualche esperienza all’interno della diplomazia internazionale sa che di queste cose un europeo non può nemmeno fare cenno. Perché? Perché gli Usa non vogliano, la Gran Bretagna spia per loro conto, i tecnocrati europei tremano ad ogni fruscio di foglia: ed i capitalisti europei incapaci di sganciarsi da mercati finanziari corrotti (che gli Usa gli offrono) toglierebbero loro la fiducia; e le classi politiche europee sono da troppo tempo selezionate per essere cieche a questo proposito. Ma è sufficiente andare in Brasile o in Cile, in India o in Sud Africa per sentire l’imperiosa sollecitazione che viene agli europei perché rinnovino la loro iniziativa. Nella sensibilità mondiale, il postcoloniale è nei confronti dell’europeo meno ostile di quanto il postimperiale lo sia nei confronti degli yankee.

Se l’Europa non prende consapevolezza di questo – e quindi accentua, ad un tempo, l’iniziativa costituzionale per stringere istituzionalmente i rapporti interni, l’iniziativa politica per garantire ed incrementare la funzione dell’Euro e quindi un’iniziativa unitaria autonoma nella politica estera per mostrarsi come polo essenziale di pace e di regolazione delle relazioni internazionali – essa è destinata a diventare, nell’ambito geopolitico mondiale, qualcosa che rassomiglia alla Svizzera, nel quadro delle relazioni europee dei secoli scorsi. Quanto agli Stati-nazione, se l’iniziativa internazionale non viene riavviata sotto la spinta dell’Ue, sono destinati a divenire delle piccole nuove potenze feudali – che garantiranno un asfittico dominio (sulle rendite e non sui profitti industriali) ai ceti capitalisti, una progressiva degradazione degli stipendi e degli salari dei ceti medi (nonché una recessione dei desideri e dell’immaginazione) e la più squallida povertà per le classi subordinate.

Per finire, un po’ d’ironia. Le forze che più di altre dovrebbero in Europa essere attente a questi problemi, quelle di sinistra, sono in realtà le più insensibili. Sembra infatti che per le forze di sinistra in Europa, il Muro non sia mai crollato. Così, le prove di lealtà agli Usa non sono mai terminate. Per fare un solo esempio, ricordiamo un’ultima tragica farsa, quando D’Alema – il capo dell’antico partito comunista italiano – e Fischer – il capo dei nuovi Verdi germanici – fecero bombardare l’ex-Jugoslavia per nessun’altra ragione che non fosse servilismo atlantico. Non è così che si serve il progetto europeo né che si serve la sinistra. E se gli Usa avranno sempre bisogno di “guardie svizzere”, la sinistra europea, quella vera, non ha mai avuto bisogno del Vaticano. Noi sappiamo che solo una sinistra radicalmente rinnovata potrà costruire l’Europa.

 

 

 

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