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Fuocherello islamista

 

di PAOLO GERBAUDO

Le proteste scatenate dall’ormai tristemente celebre film anti-islamico L’innocenza dei musulmani hanno prodotto un’ondata di sdegno nell’opinione pubblica occidentale, e hanno dato nuove munizioni a coloro che da tempo sostengono che la primavera araba non è che una tappa verso nuove dittature di stampo islamista. Certo l’attacco di una milizia vicino ad al-Qaeda contro il consolato americano a Bengasi, in cui è stato ucciso l’ambasciatore Stevens, e poi l’assalto contro una scuola americana a Tunisi, saccheggiata e data alle fiamme, hanno fatto vedere come durante questa travagliata transizione l’islamismo militante continui a costituire una forza temibile. Ma l’allarmismo alimentato sui nostri media di fronte all’esplosione della “Rabbia Islamica” come titolato da Newsweek non riflette la dimensione di questa ondata di protesta e il suo significato politico. Specie se si guarda al caso dell’Egitto, paese che da solo vale quasi la metà della popolazione del mondo arabo, si hanno buone ragione per pensare che più che un grande incendio jihadista, come paventato dai nostri media islamofobi, quello a cui abbiamo assistito è tutto sommato un fuocherello che non altera sostanzialmente il percorso della primavera araba.

In un paese fortemente religioso come l’Egitto, nel paese che ha dato i natali ad al-Zawahiri, vice di Bin Laden e ora dato come leader di al-Qaeda, ci si poteva legittimamente aspettare una risposta di piazza ben più veemente di quella che si è effettivamente verificata. Il film anti-Maometto ha scatenato un’ondata di protesta piuttosto modesta, che ha visto la partecipazione di poche centinaia di persone, e un bilancio morti (1 manifestante) e feriti (circa un centinaio), che è tutto sommato modesto rispetto a quello a cui ci siamo abituati a vedere in Egitto negli ultimi mesi. I manifestanti si sono accontentati di invadere l’ambasciata americana, di tirare giù la bandiera a stelle e strisce e sostituirla con il vessillo nero islamista che recita “la-allah-illa-lah”: non c’è Dio al di fuori di Dio. Per fare un paragone, ben più grande era stata la protesta contro l’ambasciata israeliana al Cairo nel settembre del 2011, suscitata dall’uccisione di alcuni soldati egiziani da parte delle truppe di Gerusalemme, durante l’inseguimento di un gruppo di terroristi islamisti. Bastava poi farsi un giro nelle strade vicino all’ambasciata americana, che sta a pochi passi da Tahrir Square, per capire che la manifestazione aveva a che fare solo in parte con il fondamentalismo religioso, e che si trattava in buona misura dell’espressione di un sentimento anti-imperialista e anti-americano, che per motivi comprensibili (Palestina, Iraq) cova nel cuore di molti egiziani. Nella folla dei manifestanti solo circa un terzo era composto da “barbuti”, dai salafiti dell’islamismo radicale che vogliono la sharia legge di stato e che vedono in Osama Bin Laden un eroe.

A fare numero ci hanno pensato gruppi veterani della rivoluzione del 2011 che con il fanatismo religioso hanno poco a che spartire. Davanti all’ambasciata si sono fatti vedere gli ultras della squadra di calcio cittadina dell’el-Ahly, che erano stati importanti truppe rivoluzionarie durante i giorni dell’insurrezione del gennaio e febbraio 2011 e nei mesi a seguire. Venuti a protestare di fronte a quello che è stato vissuto come un insulto agli arabi e alla loro cultura prima ancora che come un insulto alla loro religione. Tra i manifestanti hanno fatto capolino pure alcuni gruppuscoli della sinistra extra-parlamentare egiziana come i trotzkisti ishtiraki al-thawra (socialisti rivoluzionari), sempre pronti da bravi leninisti vecchio stile a mettere il loro cappello sulle lotte che vanno via via emergendo, anche quando il contenuto di tali lotte faccia palesemente a pugni con il marxismo da essi proclamato. Ma soprattutto tanti “cani sciolti”: ragazzi di classe media più o meno giovani, che nonostante il loro stile di vita americanizzato, dai jeans, alla musica, alla nightlife, fino al sesso, continuano nella loro stragrande maggioranza a vedere nell’Islam l’unica autorità che garantisce la coesione sociale e la solidarietà intergenerazionale. Una foto pubblicata sul Guardian sintetizza questo cocktail culturale contradditorio messo in scena in queste proteste: quattro ragazzi vestiti in stile hipster all’egiziana, che portano sul volto la mitica maschera di Guy Fakwes dal film cult V for Vendetta, che stanno in posa davanti a un muro dell’ambasciata americana su cui compare il graffito “The Prophet” (il profeta, ovvero Maometto). C’è solo da sperare che Alan Moore, il fumettista inglese anarchico inventore del personaggio che è diventato una potente fonte di ispirazione per gli attivisti contemporanei dal Cairo a New York, se la sia persa.

Ulteriore conferma della portata tutto sommato modesta e lieve della mobilitazione è la facilità con cui il governo capitanato dal fratello musulmano Mohammed Morsi ha controllato le proteste. Nei primi giorni il governo ha lasciato che i manifestanti si sfogassero e facessero la loro invasione simbolica dell’ambasciata con tanto di oltraggio alla bandiera a stella e strisce. La polizia anti-sommossa, che negli ultimi mesi di scontri di piazza ha imparato una o due cose riguardo agli effetti mobilitanti delle azioni repressive, se ne è rimasta inizialmente in disparte, lasciando solo i marines a difesa della sede diplomatica. Al contempo Morsi ha attaccato con veemenza gli autori del video e il governo degli Stati Uniti per non averlo censurato. Ma dopo aver lasciato spazio per lo sfogo il governo si è subito mosso per andare a soffocare la fiamma delle proteste. Morsi ha criticato i manifestanti per aver violato un’ambasciata straniera, e con lui i salafiti del partito di estrema destra al-Nour, che pure avrebbero avuto un’opportunità’ per rubare un po’ di voti conservatori ai Fratelli Musulmani. A riconferma del fatto che anche per gli islamisti più conservatori non e’tempo di jihad. Una volta che i manifestanti erano stati messi all’angolo nel dibattito televisivo nazionale, alla polizia sono bastati un paio di giorni di cariche e gas lacrimogeni per sgomberare la zona intorno all’ambasciata. Un’operazione repressiva “pulita” di impressionante efficacia, che fa vedere come davvero i Fratelli Musulmani al governo sono i migliori custodi dell’ordine, e un canale fenomenale per lo stato egiziano per reintegrare le grandi masse povere urbane, per cui l’Islam e le sue reti caritatevoli hanno progressivamente sostituito lo stato socialista nasserista.

Certo ci sono gruppi religiosi fanatici, tra cui gruppi che si ritrovano nell’ideologia qaedista che in Egitto come altrove vorrebbero lo scontro di civiltà alla Huntington. Ma almeno sulle sponde del Nilo durante questa fase, tali fazioni non hanno grandi spazi di manovra per due motivi principali. Primo – come già detto in precedenti interventi – con la transizione alla democrazia l’islamismo si è istituzionalizzato, ed è stato in buona parte assorbito dentro i meccanismi della democrazia parlamentare e nella cornice della legalità. In secondo luogo, in questa fase storica, la strategia militante non trova molto seguito nella popolazione, che dopo un anno e mezzo di insurrezioni grandi e piccole, è per lo più esasperata dalla situazione di crescente insicurezza, e chiede prima di tutto un miglioramento delle condizioni economiche. I Fratelli Musulmani sanno che è soprattutto sull’economia e non tanto sui principi della sharia nella nuova costituzione, o nella difesa del profeta di fronte alle ingiurie yankee, che essi si giocano il consenso degli elettori. Su questo fronte sanno anche che solo mettendo all’angolo gli islamisti più militanti possono raccogliere frutti. Nonostante le ferite economiche portate da un anno e mezzo di insurrezioni, le prospettive economiche sono buone. Gli analisti stimano per i prossimi anni un tasso di crescita al 7% e la borsa valori sta inanellando una serie impressionante di sedute positive nelle ultime settimane. Tanto che l’agenzia di rating Moody’s era in procinto di migliorare l’outlook del debito pubblico, non fosse stato per la nuova ondata di manifestazioni e l’incertezza che hanno generato.

Per tirare le somme, le recenti proteste anti-americane in Egitto come altrove hanno dimostrato che il fondamentalismo islamista continua certamente a essere un fenomeno su cui gli attivisti laici devono tenere gli occhi aperti. Ma sarebbe sbagliato pensare che i paesi attraversati dalle rivoluzioni del 2011 siano destinati a finire sotto il giogo di regimi autoritari di stampo teocratico. L’ho scritto precedentemente e qui lo ripeto. Lo scenario Iran, quello dell’islamizzazione della rivoluzione, come successo nel paese degli ayatollah dopo la cacciata dello scià, non è il termine di paragone più adatto. Semmai, con le dovute distinzioni, il termine di paragone storico più calzante è la Turchia nella travagliata fase di transizione dal potere militare agli islamisti moderati dell’AK Party dell’attuale primo ministro Recep Erdogan. Certo i Fratelli Musulmani sono più conservatori rispetto a Erdogan e company, anche perché la Turchia è un paese molto più secolarizzato dell’Egitto. Ma non sono degli avventuristi. Quello che vogliono è un’economia di mercato accompagnata da tradizionalismo religioso. Islamisti, sì. Teocrati no. E soprattutto capitalisti, che hanno bisogno della liberaldemocrazia per dare una legittimità ideologica all’economia di mercato. Non sarà certo l’ultima volta che vedremo la gente scendere in piazza in difesa della religione in Egitto come negli altri paesi della primavera araba. E l’islamismo fondamentalista continuerà a godere di ampio consenso specie presso le masse povere della popolazione, per cui la religione costituisce una promessa di riscatto esistenziale. Ma sarebbe un grosso errore prendere quello che tutto sommato si è rivelato un fuocherello per un incendio jihadista destinato a far fallire la primavera araba e i suoi ideali democratici.

 

 

 

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