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Diario economico-politico: Globosclerosi

 

di CHRISTIAN MARAZZI

Il 18 aprile l’agenzia di notazione Standard&Poor’s ha assegnato un “negative outlook” alla capacità degli Stati Uniti di gestire, cioè ridurre, il proprio debito pubblico, che si aggira attorno al 105% del PIL. Per ora si tratta di una semplice minaccia di downgrade, di declassamento: se il debito statunitense dovesse continuare su questa strada (e, secondo l’agenzia, le probabilità sono 1 su 3), allora gli USA saranno downgraded, come è capitato ai paesi periferici della zona-euro o, in passato, ai paesi in via di sviluppo. Non era mai capitato in settant’anni. Secondo l’Economist (“Wakey, wakey”, 23 aprile), la mossa di S&P’s va interpretata come un tentativo di sciogliere il tira e molla tra democratici e repubblicani sul che fare con il debito pubblico. Tagliare le spese, quelle sociali in particolare, e/o aumentare le imposte sui redditi elevati e su quelli del ceto medio (su questo punto Obama, almeno finora, ha cercato di resistere). La tensione è alta, anche perché entro il 16 maggio bisognerà trovare un accordo sull’aumento del debt ceiling, il limite di debito che ora è pari a £14,3000 miliardi: se il Congresso non agisce in fretta, “il paese più grande del mondo potrebbe fallire entro l’inizio di luglio” (“Nervous Wall St  warns on debt limit”, Financial Times, 27 aprile).

La reazione dei mercati finanziari è stata sorprendentemente contenuta: i prezzi delle azioni, dopo una breve flessione, si sono subito stabilizzati; i rendimenti delle obbligazioni del Tesoro sono addirittura calati, il che significa che gli investitori hanno aumentato i loro acquisti. Infatti, negli stessi giorni la discussione sul possibile default della Grecia ha favorito i Treasuries americani, considerati pur sempre i più liquidi e sicuri al mondo. Semmai, sostiene l’Economist, i mercati finanziari si preoccupano del rischio d’inflazione e della “stranamente” debole ripresa economica americana. Francia, Germania e Gran Bretagna, addirittura l’Italia, che pure hanno debiti e deficit in rapporto al PIL parecchio elevati, non sono stati ancora declassati (e neppure minacciati) dalle agenzie di rating e questo, sempre secondo l’Economist, perché i loro programmi a medio termine di gestione del debito e del deficit pubblici sono “credibili”, cioè sono decisamente e chiaramente improntati all’austerità.

Primo punto: che un’agenzia di rating, per quanto americana (come tutte le altre, peraltro), cerchi di condizionare “tecnicamente” il dibattito politico interno agli Stati Uniti con minacce di declassamento costituisce un precedente non di poco conto. Come minimo ci troviamo di fronte alla fine definitiva dell’autonomia del politico e al trionfo della governance, della governamentalità, secondo la logica astringente dei mercati finanziari. E questo su scala globale, ossia non solo nel caso di paesi economicamente deboli. Parliamo di governance postdemocratica, di meccanismi di regolazione parziali (tecnici) in cui non è l’entità del debito pubblico in sé che è presa di mira, quanto piuttosto l’individuazione di interi settori della spesa pubblica da privatizzare. Ricordiamoci che l’altra agenzia di rating, Moody’s, declassò il Giappone nel 1998, seguita da S&P’s nel 2001, ma da allora il debito pubblico giapponese non ha cessato di aumentare (c’è chi lo stima a 260% del PIL) e i rendimenti sui Bot sono a tutt’oggi bassissimi, e questo grazie alla deflazione e al fatto che il 95% del debito pubblico è in mano ai risparmiatori giapponesi. In gioco, in altre parole, non è l’ampiezza del debito, ma la sua gestione secondo criteri di mercato.

Secondo punto: se non c’è dubbio che la regolazione del debito americano ha effetti diretti sul sistema monetario e finanziario mondiale, data la centralità del dollaro, dei tassi d’interesse e dei buoni del Tesoro statunitensi, il rischio di default degli Stati Uniti, per quanto molto relativo o “inesistente”, rimanda comunque alla questione della governamentalità in un sistema mondiale multipolare.  Il problema non risiede soltanto nella possibilità (o probabilità) che il sistema monetario internazionale diventi tra non molto “multicurrency”, un sistema cioè in cui il dollaro è destinato a funzionare come moneta internazionale al pari di altre monete, quali l’euro, il renminbi, qualche moneta latino-americana, gli Special Drawing Rights (vedi a questo proposito Barry Eichengreen, Exorbitant Privilege. The Rise and Fall of the Dollar, Oxford University Press, 2011). Non c’è dubbio che gli Stati Uniti faranno l’impossibile per continuare ad assicurarsi il diritto di signoraggio, ossia la possibilità di stampare liberamente moneta per appropriarsi di beni e servizi da altri prodotti (attualmente circa $500,000 miliardi circolano fuori dagli USA, e il resto del mondo deve procurare agli USA la stessa somma in beni e servizi effettivi). Un altro problema è quello della globosclerosi, come ebbe a scrivere David Brooks sull’Herald Tribune il 2 agosto del 2008: la dispersione del potere “dovrebbe in teoria essere una buona cosa, ma in pratica multipolarità significa potere di veto sull’azione collettiva. In pratica, questo nuovo mondo pluralistico ha dato origine alla globosclerosi, l’incapacità di risolvere un problema dopo l’altro” (è questo, tra l’altro, il senso di un editoriale dell’Economist del 26 marzo scorso, “Another year of living dangerously”, riferito alla concomitanza tra crisi nord africana e medio-orientale, terremoto giapponese, crisi finanziaria europea).

L’impero è la forma adeguata del modo di produzione biopolitico contemporaneo, ma l’impero sembra ingovernabile proprio in virtù del suo stesso multilateralismo.

Il 27 aprile la Federal Reserve ha dichiarato che continuerà fino a luglio col suo programma di quantitative easing 2 (agevolazione quantitativa), ossia di acquisto di buoni del tesoro (stampando moneta per acquistare $600 miliardi di Bot US) per sostenere la ripresa e, si spera, per ridurre la disoccupazione. Non ha parlato di aumento dei tassi d’interesse, alla faccia di coloro che accusano la Fed di perseguire una politica inflazionistica. Infatti, il rischio di inflazione all’interno degli Stati Uniti non dipende dalla politica di creazione di liquidità almeno fintantoché non ingenera un aumento del volume di credito (e con esso un aumento della domanda), che per il momento è molto basso. In realtà, la Fed specula sulle politiche monetarie restrittive nei paesi emergenti, la cui domanda interna è all’origine degli aumenti dei prezzi delle materie prime. Sono infatti i prezzi delle commodities che sono all’origine della paura d’inflazione degli investitori internazionali (R. Bernstein, “Emerging market central banks doing the Fed’s dirty work”, in Financial Times, 27 aprile). Le banche centrali dei paesi emergenti, che negli ultimi tre anni hanno perseguito politiche monetarie espansive e hanno così contribuito a evitare una recessione mondiale di lunga durata, sono oggi chiamate dalla Fed a fare il lavoro sporco, ossia ad aumentare i tassi d’interesse per ridurre il rischio d’inflazione su scala mondiale. E questo significa avviare nei paesi emergenti politiche di contenimento dei salari proprio nella fase in cui, non solo in Cina, si sta assistendo ad una pressione dal basso per il miglioramento delle condizioni di vita (si pensi, ma è un esempio tra molti altri, allo sciopero dei camionisti cinesi). Sarà interessante vedere come risponderà la Cina o altri paesi emergenti. Non è, ad esempio, da escludere una ondata di svalutazioni delle monete dei paesi emergenti per mantenere alte le esportazioni verso l’Occidente. In ogni caso, si tratta di un esempio di “cooperazione conflittuale” a livello di governance multipolare, improntata all’immanenza del comando, alla sua “orizzontalità”. Si tratta però anche di una governance a mezzo di crisi continua, una sorta di fine tuning monetario per evitare un’escalation cumulativa di lotte sulle condizioni di vita su scala globale.

 

 

 

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