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Il “collegato lavoro”

 

di GIOVANNI GIOVANNELLI

La legge come elemento chiave dei processi di governance contemporanea. Il collegato al lavoro rende manifesto il desiderio del potere (bipartisan) di esercitare un sempre più feroce controllo sulle vite di un esercito di oltre cinque milioni di precari. Tutto questo nel pieno della crisi finanziaria globale…

La cronologia è importante per comprendere esattamente quanto accaduto, mettendo ordine in un dibattito che, prima e dopo la definitiva approvazione della legge, si presenta alquanto confuso.

Il collegato lavoro era già stato licenziato dalle Camere una prima volta, fra un mare di polemiche, tutte incentrate intorno al cosiddetto arbitrato e Napolitano lo aveva poi rispedito ai due rami del Parlamento per una seconda lettura, come previsto dalla Carta Costituzionale: oggetto del rinvio (attenzione!) non erano tuttavia le norme antiprecari ma soltanto il ruolo e i limiti della procedura arbitrale per i soli lavoratori stabili.

Le organizzazioni sindacali sono rimaste in silenzio anche dopo il rinvio; non hanno mobilitato gli iscritti per avvisare delle conseguenze. L’intera (cosiddetta) opposizione è rimasta a sua volta taciturna, immobile. In particolare, si sono segnalati per il bassissimo profilo i tre sindacalisti eletti nelle file di centrosinistra e membri della Commissione Lavoro: Achille Passoni, Giorgio Roilo (ex segretario milanese di Cgil) e Paolo Nerozzi (quest’ultimo perfino in odore di legami all’ala più radicale). Più comprensibile, in fondo, risulta l’arrendevolezza dei tre parlamentari che, prima del mandato, svolgevano funzioni di dirigente (chi nelle cooperative, chi nella pubblica amministrazione, chi nelle imprese private), anche loro eletti nel partito democratico e inseriti nella medesima commissione.

Dopo qualche minuetto e qualche emendamento la legge è stata definitivamente approvata il 4 novembre 2010 (naturalmente senza ostruzionismo e soprattutto senza clamore). Questa volta la firma era d’obbligo!

Il 9 novembre la legge approda alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (entrerà in vigore il 24 successivo, dopo la cosiddetta vacatio prevista dall’ordinamento italiano). Il violento attacco alla già difficile situazione dei precari perviene così a compimento; ed è l’inizio di una programmata aggressione.

Già il 10 novembre accade un fatto strano (ma non tanto strano): viene approvata con 255 voti favorevoli, solo 14 contrari e 12 astenuti una mozione d’indirizzo presentata da Francesco Rutelli (e altri). La mozione invita all’approvazione di una sorta di testo unico, riformatore del diritto del lavoro, richiamando esplicitamente il doppio disegno di legge (numeri 1872 e 1873 del 2009) presentato dall’opposizione ed elaborato dal senatore Pietro Ichino (non è solo un docente universitario, ma anche un preparatissimo avvocato che nel vivo del contenzioso assiste professionalmente le aziende contro i lavoratori). I due disegni di legge hanno ottenuto la firma di quasi tutte le componenti dello schieramento di centrosinistra, da Emma Bonino (che aveva promosso il referendum contro lo statuto dei lavoratori) all’ultraliberista Nicola Rossi, dal giornalista Zavoli allo scrittore Carofiglio, dal transfuga Follini al neofita Marino. I disegni di legge contengono una sostanziale cancellazione dell’obbligo di reintegrazione (il famoso articolo 18), la rimozione dell’art. 41 della Costituzione (l’articolo 2084 del progetto introduce i principi di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza cancellando i limiti connessi  all’utilità sociale che pure la Carta impone). I due disegni di legge introducono lacci notevoli all’esercizio del diritto di sciopero (specie nel trasporto) e della rappresentanza aziendale. Dietro la promessa attuazione della flexicurity e del principio di semplificazione il doppio progetto si concreta nell’attacco più coerente e razionale ai diritti dei lavoratori (precari e non), che sia stato mai concepito fra il 1966 e i giorni nostri. Contiene i pilastri del più radicale liberismo non la singola norma ma l’insieme della costruzione legislativa. E’ una concezione più vicina allo spirito del tea party che al riformismo europeo (gli economisti e i giuristi del partito democratico si sentono assai più legati a Gary Stanley Becker di quanto non lo siano a Luigi Einaudi o, figuriamoci!, a William Henry Beveridge). La componente (non conservatrice ma decisamente) reazionaria del nucleo dirigente italiano di centrosinistra (nell’area economico-giuridica) è un’anomalia della penisola; d’altro canto nel centrodestra svolgono funzione di comando giuristi ed economisti provenienti dal disciolto partito socialista (Tremonti, Cicchitto, Scaroni).

Nessun parlamentare si è alzato per difendere i diritti minacciati della parte debole o per sostenere il punto di vista precario. Nessun parlamentare ha ritenuto di dover almeno censurare il misfatto dell’appena avvenuta approvazione del collegato lavoro. La mozione d’indirizzo ha riunito tutte le componenti dell’aula, concretando di fatto il convinto via libera delle Camere alle nuove norme antiprecari (si sono poi sorpresi, come di consueto, per le prime reazioni bellicose messe in opera dalle vittime).

Il giorno successivo, evidentemente (e dal suo punto di vista giustamente) galvanizzato, il ministro Sacconi (un altro sindacalista ex socialista) è uscito allo scoperto, presentando un disegno di legge governativo di soli due articoli. Sempre ai fini della semplificazione (e dunque in linea con il progetto Ichino, anche se lievemente meno aggressivo) il disegno (ministeriale) di legge, sottraendo di fatto la materia all’imbarazzante pubblicità del dibattito (in commissione e in aula), concede al governo ampia delega per emanare uno o più decreti per attuare la flessibilità, cancellando fino al 50% delle norme in vigore. Una svolta epocale dunque, subito inoltrata alle organizzazioni sindacali ai fini della risorta concertazione e della preparazione delle norme; e, questa volta all’unisono, le organizzazioni sindacali sono rimaste tranquille.

Esplicitamente la delega viene richiesta per modificare e, se necessario, anche abrogare le norme dello Statuto (da trasformare in Statuto dei Lavori); salvo un “nucleo” di diritti universali intoccabili la parte restante potrà essere delegata alla contrattazione collettiva. I limiti posti dalla legge italiana, frutto di conquiste negli anni scorsi, rischiano l’abrogazione, in tempo di crisi. In cambio dell’accesso alle gabbie di sfruttamento si prevede mano libera per le imprese, nei confronti del migrariato, del precariato, della manodopera espropriata dell’intera esistenza con l’invocazione della flessibilità, del mercato, del profitto. Già si affacciano golosi gli ascari di Cisl e Uil per contrattare il compenso, pronti a firmare qualsiasi intesa; esitano dubbiosi (ma attratti, per il desiderio di esistere) i funzionari della Cgil (più ritrosa la Fiom, naturalmente: ma conta davvero?).

Questo è il piano che accompagna il varo del collegato. Dividere il precariato e il migrariato dai lavoratori stabilizzati per poi sconfiggere separatamente entrambi, imponendo una (speriamo solo utopica) normativa di severa restaurazione. Questa è la sostanza grave (ma ancora poco compresa) della vicenda, che si inserisce in un quadro di silenziosa complicità ambientale.

Vediamo ora la legge, nei suoi aspetti particolari.

Il collegato lavoro ovvero la legge 4 novembre 2010 n. 183 è un insieme alquanto confuso di ben cinquanta articoli, di vario contenuto e senza alcun criterio organico; vi si ritrovano tradizionali tutele di casta (come l’art. 17 che estende un trattamento più favorevole al personale inquadrato, anche mediante trasferimento, nei ruoli della Presidenza del consiglio, con un costo stimato per difetto di oltre tre milioni di euro nel solo 2010), amnistie perverse (art. 4, che esenta, con un marchingegno, dalle sanzioni chi evade la contribuzione), interventi misteriosi e specifici per particolari categorie (gruppi sportivi delle forze armate o vice periti tecnici della Polizia di Stato: articoli 28 e 29).

Le parti che interessano davvero i lavoratori (stabili, ma soprattutto precari) sono rinchiuse in soli quattro articoli: 30, 31, 32, 50. Fortunatamente sono mal scritti e, per la gran parte, non raggiungono interamente lo scopo malvagio che si era prefisso l’autore collettivo delle norme; ma creano certamente danno e mostrano chiaramente la comune volontà delle forze parlamentari di attaccare i lavoratori a vantaggio delle imprese e del potere politico.

L’articolo 30 riguarda la cosiddetta certificazione; in buona sostanza le imprese acquistano la possibilità di codificare negli uffici territoriali del lavoro contratti in cui si escluda la subordinazione (è un tentativo di legittimare a priori il vecchio cococo-cocopro); o ancora di prevedere clausole di licenziamento automatico mediante accordi individuali o collettivi.

In pratica tuttavia la previsione è talmente barocca, complicata e illogica che i giuslavoristi (anche di parte datoriale) prevedono che si tratti di una norma senza possibilità di reale concreta attuazione, senza futuro.

Lo stesso dicasi dell’articolo 31 (il famoso arbitrato che tante polemiche e discussioni ha provocato nel lungo percorso parlamentare, fino al rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica).

Il tentativo di conciliazione (che era obbligatorio fino a ieri) viene finalmente cancellato, preso atto che non serviva assolutamente a nulla; rimane come facoltativo e possiamo ritenerlo archiviato. L’arbitrato è cosa diversa; è la concorde assegnazione di una controversia ad un organismo diverso dalla magistratura. Il collegato lavoro prevede tre arbitri (uno per uno, più il presidente, o scelto di comune accordo o designato dal Presidente del Tribunale).

E qui arriva il primo ostacolo: il compenso è di 1% per ciascun arbitro di parte e di 2% per il terzo membro. Non è il 2% di quanto ottenuto (attenzione!), ma di quanto chiesto; e va versato subito al 50% per ciascuno, con assegno circolare, prima di iniziare la causa, democraticamente, padrone e operaio alla pari!

Mentre la procedura giudiziaria è gratuita, quella arbitrale (che dovrebbe essere più conveniente) costa; per esempio un lavoratore vittima di un infortunio sul lavoro, con danni permanenti, che chieda un risarcimento, deve prima versare il 3% del risultato cui aspira (e se si è infortunato difficilmente è in grado di farlo) sperando di arrivare a buon fine. A nessun essere dotato di buon senso verrebbe in mente di utilizzare spontaneamente un meccanismo del genere; ed è comunque escluso che possa essere vincolante nel caso di licenziamento o di risoluzione del rapporto di lavoro (a termine, a progetto, di somministrazione ecc. ecc.).

La legge prevede, per le liti durante il rapporto di lavoro, che si possa vincolare il dipendente a prescindere…ma la clausola (oltre ad escludere il licenziamento) deve essere approvata dopo l’assunzione e dopo il periodo di prova (anche in questo caso il meccanismo è talmente complicato che difficilmente qualcuno chiederà di utilizzarlo). La ragione di tanta irragionevolezza più che nel timore degli industriali (anche loro alquanto freddini verso un simile sistema di risoluzione delle controversie, affidate a soggetti di dubbia affidabilità) sta nell’ostilità delle organizzazioni sindacali (Cisl e Uil sono legatissime al ministro Sacconi, un settore consistente della Cgil anche) verso l’azione giudiziaria autonoma dei lavoratori, a tutela (pur solo eventuale) dei diritti svenduti negli accordi (la verifica giudiziale abbassa il costo della mediazione sindacale, laddove non fornisce la certezza del risultato richiesto dalle imprese in cambio del prezzo versato come contributo).

E’ dunque un problema di controllo e di mantenimento della posizione. Difficilmente tuttavia l’istituto si svilupperà e possiamo prevederne una rapida archiviazione (a questa conclusione sono del resto giunti tutti i relatori e quasi tutti i partecipanti, durante il convegno nazionale di Bari dell’Associazione Giuslavoristi Italiani, che raggruppa gli avvocati dei dipendenti e delle imprese, quanto meno per le valutazioni tecniche).

Viene allora spontaneo chiedersi perché mai due norme sostanzialmente inutili abbiano scatenato tanta polemica; la risposta a mio avviso è assai semplice. Destra e sinistra sollecitavano l’attenzione su aspetti secondari per distoglierla dal vero attacco portato ai precari: l’articolo 32 e l’articolo 50 del collegato.

L’articolo 50 è, a modo suo, un piccolo capolavoro nell’ambito dell’arte di manovra in corridoio; è l’aiuto bipartisan ad una specifica e ben identificata società di grandi dimensioni che tiene da molti anni rapporti gioviali con le tre organizzazioni sindacali, con i membri del governo, con il ceto politico parlamentare.

L’articolo 50  (quello che degnamente chiude la legge, l’ultimo ma non il meno importante) è scritto appositamente e senza ipocrisie per Atesia (oggi: Almaviva).

Ricordate, qualche anno fa, il rumore mediatico provocato dall’ispezione di alcuni funzionari del Ministero che avevano ordinato di assumere qualche migliaio di lavoratori a progetto, ingaggiati nei vari call center di Atesia,  a prezzi da fame, con un cottimo ignobile, tenendo le maestranze sotto ricatto, senza pagare la contribuzione pensionistica?

Era una moltitudine di moderni schiavi, nel pieno della capitale, ignorati da sindacalisti e deputati progressisti. Subito erano accorsi, acquistati da un moderno colonnello Tancredi Saletta in veste di Capo del personale, i mercenari (Basci Buzuk) delle truppe sindacali indigene, con i loro funzionari (Sciumbasci) muniti di frustino (il Curbasch): l’ordine era stato opportunamente sospeso dal Tribunale amministrativo del Lazio e le tre (tutte e tre, anche la Cgil, silente la Fiom che non aveva voce in capitolo trattandosi di terziario) organizzazioni sindacali avevano con un accordo vergognoso svenduto i diritti di migliaia di lavoratori, frodati, in cambio di centesimi a compenso della frode. Un vero e proprio tradimento (non esiste un altro termine che renda l’idea).

Un gruppo di ribelli (poco più di un centinaio) decise di percorrere ugualmente la via della tutela giudiziaria davanti al Tribunale del Lavoro; e dopo alterne vicende, rotto l’isolamento iniziale, le cause furono vinte contro ogni previsione. A volte anche i poveri la spuntano nonostante le circostanze ostili. Ottennero un posto, un contratto assai più favorevole di quello dell’accordo sindacale, un risarcimento considerevole (da 50 a 100 mila euro di arretrati, per ciascuno). Calcolate il bottino di Atesia (ora Almaviva) ottenuto grazie all’accordo sindacale imposto dai funzionari locali del sindacato: centomila per duemila!

Ebbene, l’articolo 50 rimedia a questo orrore… qualora vi sia un accordo che preceda il 30 settembre 2008 (un accordo sindacale collettivo, anche) che contenga una qualsiasi proposta di assunzione (non importa se impresentabile, disastrosa e inaccettabile come era quella dell’accordo Atesia) la vittoria viene cancellata, il risarcimento cade con effetto retroattivo (perfino durante il giudizio di cassazione), il danno viene contenuto nel massimo di sei mesi dell’ultimo stipendio (quello illegittimo del 2008). Ecco: centomila euro diventano cinquemila! Questo è il vero collegato, quello di cui non si trova cenno sulla libera stampa italiana.

L’articolo 32, infine, rappresenta il cuore sperimentale del provvedimento. L’apertura non è illogica, si limita a porre un limite temporale (270 giorni) alla facoltà di impugnare un licenziamento (già impugnato stragiudizialmente) davanti al Tribunale. Il vero punto è un altro; è l’estensione ai contratti precari del limite temporale (ora doppio) previsto per il licenziamento.

Il meccanismo è sottilmente perverso, sfugge al primo esame di chi non sia addetto ai lavori.

Il tradizionale licenziamento raggiunge il lavoratore già stabilizzato e chiude un contratto ben noto, acquisito; chi perde il posto fisso sa di avere 60 giorni per opporsi (ed ora 270 giorni per dare corso alla controversia giudiziaria). Di fatto, anche prima del collegato, i licenziamenti del personale stabile venivano trattati senza inutili rinvii (il lavoratore aveva e ha interesse a recuperare il posto; l’impresa a non trascinare una situazione di incertezza).

Ma l’estensione della decadenza (che prima non c’era) ai rapporti instabili è ben altra cosa. I contratti a termine, per esempio, sono generalmente in sequenza per mesi, e spesso per anni. Il lavoratore li impugnava tutti dopo l’ultimo in ordine di tempo; ora, trascorsi 60 giorni, ogni singolo spezzone del rapporto precario diventa inattaccabile. Ma, per il timore del mancato rinnovo, il dipendente preferisce tacere; e perde la parte sostanziale delle proprie ragioni. Mentre il licenziamento conteneva una decadenza a carico di uno stabile che perdeva la stabilità, il collegato la estende a chi stabile non è, a chi è ricattabile, al precario. Una bella differenza!

Per di più (come una sorta di amnistia strisciante, un condono gratuito ai danni della parte debole) la legge (a partire dal 24 novembre) fa scattare la tagliola per tutto il passato, per tutti i contratti precari (che prima non avevano un limite di tempo per far valere il proprio diritto considerando che era la parte debole) dal medio evo ai giorni nostri. Dopo 60 giorni (e la gran parte dei lavoratori non lo sa: migrariato e precariato non hanno ricevuto informazione), già dal 22 gennaio 2011, il passato si cancella, l’illegale diventa legale, l’ingiusto diviene giusto.

Il terzo e quarto comma dell’art. 32 chiarisce chi siano le vittime, scippate della possibilità di far valere la violazione a loro danno: i cocopro (assunti a progetto); il popolo delle partite Iva; i trasferiti di sede; i trasferiti per le esternalizzazioni; gli appaltati e subappaltati dalle cooperative di comodo nelle mense, nel settore della pulizia industriale, nella logistica; le legioni di contrattisti a termine; i lavoratori in nero; i facchini delle cooperative; i finti artigiani, i muratori, gli autisti cosiddetti padroncini e gli operai di cantiere, in Italia come all’estero; tutti quelli che lavorano per un prestanome e vorrebbero prendersela con il vero proprietario; gli interinali somministrati; gli uomini e le donne dei call center, della grande distribuzione, del terziario avanzato, della moda, della pubblicità, dei giornali, degli ospedali, delle ferrovie; i peones delle onlus e dei servizi sociali. E’ una violenza esercitata contro un esercito di oltre cinque milioni di precari (o di flessibili come preferiscono chiamarli gli economisti neocon, della maggioranza come dell’opposizione); è un attacco feroce, nel pieno della crisi mondiale, rivolto al cuore delle moltitudini, portato direttamente nelle trincee ove si determina il profitto con i prodotti (materiali e immateriali). La finanziarizzazione del ciclo viene portata a un piratesco compimento salvaguardando i forzieri del potere anche dal tentativo di prenderne qualche briciola. E’ il segno dell’arroganza, la minaccia come elemento  del complesso mosaico della governance in salsa mediterranea.

L’ultimo parte dell’art. 32 poco aggiunge; ma non è tuttavia senza rilievo. Anche i pochi precari che riescano a coltivare per tempo la loro lite e per giunta abbiano ragione debbono pagare (in luogo delle imprese che prima se ne facevano carico a malincuore) i ritardi della giustizia. Quando un Tribunale impiega troppo tempo per riconoscere la ragione del precario il danno da liquidare se ne va per così dire in cavalleria: la legge ha posto un limite invalicabile di 12 mesi (da 2,5 a 12 mensilità dell’ultima retribuzione), ridotto a 6 mesi quando (ma senza impegno) esista una graduatoria concordata insieme al sindacato per eventuali assunzioni. Per i Giudici ritardatari nessuna sanzione; il costo dell’inefficienza viene posto a carico della parte debole, secondo l’ormai invalso costume di AntiRobinHood.

Se questa congiuntura si trasformerà in un’occasione potremo saperlo solo nei mesi a venire. Al  momento è un augurio, da coltivare, come di consueto, con l’ottimismo della ragione e (insieme) della volontà.

 

 

 

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