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Il diritto del comune

 

di ANTONIO NEGRI

Dissolvenze. Gli scienziati del diritto hanno messo in evidenza alcune caratteristiche fondamentali della governance globale: la tendenza dei processi e delle pratiche di governance a eccedere la rigidità dei sistemi giuridici e delle strutture normative; la frammentazione dei sistemi giuridici sotto la pressione dei conflitti del sistema globale e la collisione fra differenti generi e specie di norme. La governance rende vano qualsiasi tentativo di unificazione dei sistemi giuridici globali difronte alla necessità di far funzionare una logica modulare con cui gestire i conflitti e assicurare la compatibilità giuridica dei frammenti del mondo globale. In tal senso, la governance è effettivamente un “governo dello stato di eccezione” (ovviamente in senso opposto a quello teorizzato da Schmitt per definire la sovranità).

A noi sembra che questa conclusione sia corretta e che nel mondo globalizzato la decostruzione delle forme tradizionali del diritto e della sovranità sia inevitabile. Bisogna insomma accettare che la governance globale sia “postdemocratica” nel senso che essa non si appoggi più all’impianto del sistema rappresentativo che ha sostenuto e garantito la legittimità dello Stato; che gli organi, le tecniche e le pratiche della governance possiedano la flessibilità e la fluidità necessaria per adattarsi in maniera costante ai mutamenti delle situazioni; e che la sua esecutività sia da imputarsi a una pluralità di forme di regolazione controllate, spesso in modo indiretto, dalle oligarchie, in particolare da quelle economiche.

Ok. Ma questa analisi della crisi del diritto e della sovranità nella globalizzazione, con il forte contenuto decostruzionista che la caratterizza, non perviene a confrontarsi con l’altro termine che (contemporaneamente se non sincronicamente) è posto nell’ambito della globalizzazione: il tema del comune.

Osserviamo innanzitutto che globale e comune non sono termini coestensivi. Quando li si ritenga tali, li si involgarisce (Nancy, Esposito eccetera). Di contro: quali che siano le sovrapposizioni politiche e giuridiche, globale è termine spaziale, comune è termine produttivo (con una forte incidenza significativa sul terreno dell’ontologia). Perché allora accostarli? Perché la globalizzazione è causa di questo passaggio? Certo, lo è in maniera primaria, ma non perciò essa è un dispositivo di definizione e tanto meno di costituzione del comune. Anzi, la mondializzazione è motore di caotiche frantumazioni e/o di imprevedibili collegamenti, spesso ancora determinati da flussi residui (non perciò meno efficaci) di azione sovrana.

Se non ci si affida ad un approccio ideologico, si può forse supporre che il termine “comune” intervenga nella discussione come tema centrale, quando nella globalizzazione e nelle pratiche giuridiche che ad essa si accompagnano, vediamo venir meno, come sigla definitoria, i trascendentali del diritto privato e del diritto pubblico e le conseguenti pratiche giuridiche. Sembra che ci siano aspetti, dimensioni, profili del “comune” che – se non danno risposta a quella crisi – ne riqualificano il terreno. Riprenderemo più avanti la questione. Chiediamoci dunque: mentre si dà dissolvenza, non solo giurisprudenziale ma concettuale delle categorie del vecchio diritto, come si pone il tema del “comune”?

Storia. Un’ipotesi maggioritaria ritiene che il vecchio diritto si definisca essenzialmente a partire dal concetto di proprietà privata. Non è superabile questo orizzonte? E allora, a fronte delle dissolvenze che sul terreno di una governance globale del diritto si danno, come configurare la permanenza del diritto? Da qualsiasi punto di vista si sviluppi un’analisi storica attorno a questo argomento, sembra potersi confermare che dietro alle dissolvenze che la globalizzazione ha determinato, ci sono storie che mostrano, con la loro attuale crisi, l’impossibile evoluzione del diritto privato e del diritto pubblico verso un’altra specie di diritto, verso un tertium genus. Tanto meno, esplicitamente, verso un “diritto del comune”. Si aggiunga subito che il termine “diritto” è qui altrettanto equivoco e dubbio del termine “comune”.

Ciò è confermato innanzitutto quando si consideri il diritto continentale. In Occidente, la dimensione giuridica è divenuta fondamentale a partire dal momento in cui essa si è articolata attorno alla figura dell’individuo-proprietario. Il quadro istituzionale (e quello concettuale) del diritto occidentale trova le sue radici nelle esigenze dell’individuo, modellato dentro le relazioni conflittuali (a somma zero) che egli intrattiene con la sua controparte processuale. Lo stabilimento del Corpus Juris di Giustiniano serve da epilogo di un’evoluzione giuridica nel mondo romano che dà corso a duemila anni di storia giuridica successiva. Poi, il diritto romano sarà ripreso e riqualificato in funzione delle necessità del capitalismo nascente, e vale così ad interpretare in maniera adeguata e ad organizzare l’accumulazione primitiva di capitale. È caratteristico di questa storia il fatto che le procedure giuridiche, processuali e giurisprudenziali consolidano il diritto dell’individuo-proprietario e producono un meccanismo di validazione uniforme per proprietà (il mercato) e per sovranità (lo Stato). Entrambi questi sistemi concentrano il potere sull’individuo ed escludono ogni altro soggetto decisionale nella sfera di giurisdizione data. Hic Rhodus, hic salta. Cercare in quest’ambito un passaggio al di là della stretta concezione privatistica del diritto e delle sue procedure di applicazione e di verificazione, sarebbe vano. Di conseguenza, cercare una definizione del comune in quest’ambito è del tutto improprio. Il diritto continentale non permette di riconoscere il comune, comunque questo sia interpretato. Le frontiere (del conflitto a somma zero) nel pubblico e nel privato non lasciano, per il momento, alcuno spazio alla definizione di un terzo polo.

Lo stesso vuoto concettuale si presenta quando si segua quella tradizione del vecchio diritto inglese che si chiama right of common - che potremmo tradurre come diritto “al” comune. Si tratta del diritto arcaico strettamente implicato nelle strutture comunali delle città medioevali. Quando Maitland e Pollock analizzano questo “diritto al comune” riconoscono che lungi dall’esser un diritto “del comune”, esso è un diritto individuale, un diritto che non è in un rapporto di rottura con l’individualismo giuridico, vale a dire con l’interesse proprietario. È anzi un diritto che l’individuo può opporre a un governo collettivo dei comuni, un diritto che in nessun modo può ricondurre l’esigenza del comune a quella “dell’eguaglianza nella coproduzione di norme giuridiche non statali” (come recentemente il “diritto del comune” è stato formalmente definito). Non è un caso che quelle antiche definizioni comunali siano state riprese negli anni ’50, per esempio, da Hayek, e si sa perfettamente in che senso.

Sembra dunque che sia assai difficile riconoscere un diritto del comune che nasce all’interno delle vecchie strutture giuridiche e da esse si emancipa. Tanto più se (come spesso si teorizza da parte del socialismo giuridico) si pensa che l’evoluzione del diritto pubblico, in funzione antagonista al diritto privato, offra una base per il passaggio al diritto del comune. Interessante è in proposito il riferimento all’esperienza sovietica. Pasukanis – il più grande giurista del tempo – lo vide immediatamente con grande lucidità. Non si dà – egli dichiara – diritto proletario: “con il passaggio allo stadio di un socialismo sviluppato, la scomparsa delle categorie del diritto borghese significherà l’estinzione del diritto in generale, vale a dire la graduale scomparsa del momento giuridico nel rapporto  fra gli uomini”. Quanto allo Stato sovietico, esso è definito come capitalismo di Stato proletario. Nel capitalismo di Stato proletario, si danno, secondo Pasukanis, due realtà dello scambio e del diritto. La prima consiste in una vita economica che si svolge secondo modalità “pubbliche” (programmi generali, piani di produzione e di distribuzione eccetera), la seconda consiste invece nella connessione fra unità economiche che svolgono la loro attività “nella forma di valore delle merci circolanti e quindi nella forma giuridica del contratto”. Ora è evidente che la prima tendenza (quella del diritto pubblico e della pianificazione) non comporta alcuna prospettiva progressiva ed apre solamente ad una graduale estinzione della forma giuridica in generale, traducendola nella gestione economica della società. La seconda tendenza è quella che, riprendendo l’autonomia della forme economiche e considerandole nella loro cooperazione, potrà invece svilupparsi verso il comune.

È interessante notare come, nel discorso sovietico (minoritario ma marxisticamente corretto) di un Pasukanis, venga sottolineata l’impossibilità di estrarre il “diritto del comune” dal diritto pubblico e venga invece considerata la possibilità di giocare sulla cooperazione del lavoro collettivo, non solo come uscita dal diritto proprietario ma come costruzione di nuove forme di vita e di organizzazione sociale non capitalistiche (il “mercato – contadino cinese comune – senza capitalismo” di Arrighi è un modello con le medesime risonanze).

E la storia attuale, quella nella quale le procedure di governance si stanno affermando, ci dà qualche indicazione positiva nel cammino verso il “comune”? è possibile intravedere nelle procedure di governance una “tendenza al decentramento” contro la pur forte tendenza ad una concentrazione del potere capitalista su terreno globale, alla frammentazione dei poteri contro la loro solida unità economica, alla possibilità di controllo diffuso da parte di un opinione pubblica attiva, alla sperimentazione dal basso di meccanismi di partecipazione nella divisione del lavoro sociale e nelle redistribuzione del prodotto? Con molto ottimismo lo si potrebbe forse congetturare ma con realismo si può notare che una governance concepita come esercizio del potere e produzione di norme giuridiche, come modalità istituzionale aperta, flessibile, a geometria variabile, in un programma giuridico privo di centro ed affidato a meccanismi di conflitto tra norme e di competizione tra ordinamenti – bene, che questo modello sa molto di utopia e che anche questa storia attuale mostra piuttosto l’impossibilità di un lineare sviluppo degli attuali sistemi giuridici verso il comune.

Considerazioni di fatto. Detto quanto abbiamo detto, resta da chiederci perché il globale richiami il comune. Lo richiama perché la globalizzazione ci ha messo immediatamente difronte ad un comune, per così dire “cattivo”: il comune del capitale. Le trasformazioni della legge del valore (quando alla misura temporale del lavoro si sostituisce la potenza della cooperazione, e i dispositivi della circolazione delle merci, dei servizi produttivi e della comunicazione si pongono come agenti della valorizzazione capitalista; quando il processo di sussunzione reale, ovvero il passaggio dalla produzione industriale di merci  al controllo della vita sociale messa al lavoro, con l’automazione e l’informatizzazione produttive   – bene, tutto ciò presenta il capitale come biopotere globale. La nuova base su cui lo sfruttamento s’instaura, consiste in un passaggio progressivo del comando capitalistico dalla fabbrica (l’organizzazione fordista dell’industria e la disciplina della massa operaia taylorizzata) alla società intera (attraverso l’egemonia produttiva sul lavoro immateriale, la valorizzazione attraverso lavoro cognitivo, il controllo finanziario eccetera): vale a dire che la nuova base su cui opera il capitale consiste nello sfruttamento della cooperazione, dei linguaggi, delle relazioni sociali comuni (risiede, in generale, sulle cosiddette “esternalità sociali”, internalizzate alla produzione capitalistica su scala globale).

Un solo esempio, partendo dalla crisi economica globale attuale. Molte sono le letture che se ne sono fatte. In ogni caso, venissero da destra o da sinistra, le ragioni della crisi erano riportate al distacco tra finanza e “produzione reale”. Se si assumono i nuovi presupposti di cui fin qui abbiamo parlato, che fanno capo all’emergenza di una nuova qualità “comune” del lavoro vivo ed al suo sfruttamento come tale, si dovrà qui insistere sul fatto che la finanziarizzazione dell’economia globale non è una deviazione improduttiva o parassitaria di quote crescenti di plusvalore e di risparmio collettivo, bensì una nuova forma di accumulazione del capitale, simmetrica ai nuovi processi di produzione sociale e cognitiva del valore. Per uscire da questa crisi, è inutile illudersi che la risposta possa evitare di costruire nuovi diritti di proprietà sociale di beni comuni – e questi diritti, con tutta evidenza si contrappongono al diritto di proprietà privata ed esigono la rottura da quel diritto pubblico che della proprietà privata rappresenta la forza legale.   [Ripetendo quanto elaborato nei seminari di Uninomade: “se fino ad oggi l’accesso ad un bene comune ha preso la forma del “debito privato” (ed è proprio attorno all’accumulazione di questo debito che la crisi è esplosa), da oggi in poi è legittimo rivendicare il medesimo diritto nella forma della “rendita sociale”. Far riconoscere questi diritti comuni è insieme l’unica e la giusta via per uscire dalla crisi”].

Approssimazioni 1. Il diritto tradizionale non riesce dunque a definire (e neppure a volgersi verso) il comune. È sempre costretto, nella crisi attuale, ad una azione di governance, per così dire, restrittiva ed è condannato ad una sostanziale ambiguità. La governance non può in realtà che rendere fluido lo scambio sociale e ottimizzare lo scorrimento dei flussi. Questo significa trascrivere la sovranità in termini negoziali, degerarchizzare le strutture della decisione, introdurre un’ottica di relazione frammentata e policentrica, indebolire la tradizionale separazione fra pubblico e privato – ma non può far nulla di più di questo. Come ci ricorda Chignola, sulle orme di John Fortescue e del giudice Coke, “con il termine governance ci si riferisce, e sin dagli esordi, tanto al governo in quanto personalmente riferito al diritto di comando del principe e alla gerarchia degli uffici amministrativi che da lui dipendono, quanto all’insieme spesso di norme, consuetudini, statuti e libertates, che definisce l’intreccio di diritti e di poteri dell’organizzazione politico-civile”. Nel tramonto dello stato di diritto si ripetono le luci dell’alba.

Attenuando il sospetto con cui fin qui si è trattato della governance, ammettiamo tuttavia che essa possa aprirsi, in termini costituenti, oltre le condizioni attuali nella quali si trova ad agire. Assumiamo che il terreno del comune ci si presenti più vicino, come un terreno di transizione dal pubblico al comune e che la governance vi si adatti percorrendo la trama di questa transizione. La questione da porci, a questo punto, potrebbe essere: se il diritto tradizionale non riesce a definire (a controllare, a trascrivere, ad istituire) il comune – in che maniera la governance può approssimarlo? Che è come dire: sarà la governance (ambiguamente, esprimendo una sorta di conatus) a costruire il nuovo diritto?

Approssimazioni 2. Dal punto di vista riflessivo ovvero della filosofia del diritto possiamo qui provare a porre il problema di come si definisca il comune. Propongo degli esempi che rappresentano dei casi estremi (fra i quali corrono infinite combinazioni) ma che possono forse aiutarci a procedere.

Da un lato, dunque, il comune è stato definito in termini di darwinismo sociopolitico come l’effetto di relazioni di coproduzione economico-politiche. A questo proposito si conosce la famosa formula di Saint Simon, ripreso da Marx e Engels, secondo la quale l’“amministrazione delle cose” prenderà il posto del “governo dei uomini”. Il comune qui si rivela come l’amministrazione economica della società da parte di se stessa. All’autoequilibrio degli interessi che il mercato liberale propone, il socialismo risponde con l’autorganizzazione economica cosciente degli uomini. Questa formula ritorna nel socialismo continuamente, almeno fino a Lenin. Si tratta evidentemente di una teleologia del comune, innervata dalla razionalità tecnologica industriale. Il comune è un fatto (participio del verbo “fare”), “un movimento reale che realizza lo stato delle cose presenti”.

Un opposto modello di definizione del comune è quello sociologico-istituzionale. Lo sviluppo, dalla società civile alle forme di organizzazione pubblica, ad un comune concepito come risultato societario o associazionista, è visto appunto come prodotto di un’attività continua. Alla necessità economica e tecnologica del primo modello si oppone qui un attivismo procedurale e sociale. Considerato nelle sue più recenti figure, il comune “istituzionale” si definisce (per esempio in Luc Boltanski) attraverso l’abbandono delle sociologie che mettono l’accento sulle dimensioni verticali e sull’opacità della coscienza alienata degli attori, a vantaggio di una sociologia che insiste sulle relazioni orizzontali (e, evidentemente, sulle reti) e sull’azione “in situazione” di attori guidati da motivazioni strategiche o da esigenze morali. Gli elementi di “performatività” del sociale sono messi in primo piano e quand’anche il pubblico (lo Stato) venga richiamato ed assunto come elemento equilibratore dei processi, questo istituzionalismo sociologico pragmatico riconosce sia le contraddizioni entro le quali in tal modo il processo si chiude, sia la potenza dei suoi dispositivi aperti. Insomma, “un movimento reale che agisce lo stato delle cose presenti”.

Un terzo modello interessante (che rappresenta tuttavia il mediano fra gli estremi), sempre nella prospettiva di una definizione del comune, consiste nella ripresa filosofica di una teoria dialettica (debole) della relazione. Era in cammino sul quale era avanzato il formalismo di Habermas e sul quale procede il realismo di Honneth. Il comune è qui visto come una Aufhebung (debole), priva di necessità; la difficoltà della sua realizzazione consiste nel determinare – nell’indefinito contesto delle condizioni – la compossibilità delle differenze. Si sperimentano così qui, fra l’altro, le difficoltà ormai divenute evidenti nello sviluppo del progetto foucaultiano, quando lo si consideri un modello epistemologico piuttosto che un dispositivo politico.

Queste approssimazioni restano tali. Tutte attaccano l’idea che il comune possa esser in qualche maniera presupposto ed affermano che possiamo solo pensare a delle pratiche sociali di produzione del comune. Come potrà la governance interpretare, ed eventualmente andare oltre, queste premesse su una via che conduce verso il comune?

Per evitare ulteriori ostacoli, ci si può qui domandare se la determinazione comune dell’agire in comune debba necessariamente prendere la forma dell’”istituzione”, quando ci si inoltra su questo terreno. Rispondendo negativamente alla questione si potrà piuttosto insistere sul fatto che la produzione di regole che non rilevano dalla legge può prendere la forma di usi negoziati, di pratiche del comune che non possono darsi che attraverso delle determinazioni concrete e dei rapporti di forza. In questo quadro ci si potrà ulteriormente chiedere: come articolare il terreno della proprietà con quello degli usi? Quali sono le condizioni di conpossibilità degli individui/singolarità? Come evitare che la solidità delle identità chiuda ogni possibilità di compresenza delle singolarità? Quali sono i processi di soggettivazione che attraversano questi processi costitutivi? La costituzione di un comune non “additivo” e neppure “integrativo”, di un comune che non sia “somma” e neppure “organismo” può darsi fuori da una progressione (o regressione, forte o tenue) dialettica di stampo hegeliano?

Per rispondere alla questione introduciamo qualche ulteriore domanda/esperimento.

Esperimento 1. Se assumiamo che il contesto della governance, nel quale la pluralità  degli attori sviluppa la sua azione, sia privo di ogni determinazione finalistica o di valore; se ogni determinazione è una potenza che vince (o perde) rispetto ad altre potenze, il primo  esempio giuridico cui si possa riferire la ricerca del comune, è quello tradizionalmente rappresentato dal diritto internazionale di guerra. Qui il comune paradossalmente riaggancia il globale. Si tratta certamente di un terreno libero da formalismi. Sono infatti evidenti i rischi che si correrebbero qualora si pretendesse di operare in quest’ambito con i concetti liberali dello Stato di diritto o con le dottrine della giustizia ancorate agli schemi astratti del razionalismo metafisico. Ma così facendo si abbassa la pratica giuridica alla mera registrazione dei fatti – è la maniera nella quale sociologia ed empirismo realistico procedono – si entra in un ambito (quello definito da Carl Schmitt per il diritto internazionale in quanto non-diritto), dove la governance si definisce in assenza di qualsiasi possibilità di nomos. Siamo di nuovo immersi nella dissolvenza. L’esperimento del diritto internazionale non modifica le dissolvenze se non dislocandole. Qui deve porsi sul terreno della globalizzazione, una nuova riflessione. Che riconosca gli antagonismi basilari tra i quali, in ogni senso, si muove il processo della riorganizzazione globale; che elimini ogni omologia con il passato, ogni riferimento alle vecchie costituzioni internazionali; che cerchi di costruire regolazioni provvisorie ed efficaci su nuovi spazi e temi (biopolitico, mediatico e soprattutto finanziario) eccetera ecc.

Un secondo esempio è quello del diritto sindacale, nella lotta di classe. Nel passaggio postfordista e nel corso della crisi economica – crollato il compromesso renano ed in genere il contrattualismo industriale, più o meno corporativo – il problema della regolazione del lavoro sociale e quello della redistribuzione del “prodotto interno lordo” sono divenuti temi ormai liberati da ogni condizionamento giuridico, dislocati dal terreno produttivo diretto a quello della produzione sociale. Anche in questo caso ogni omologia con il diritto sindacale passato è vana; anche qui c’è un’iniziativa costituente da aprire. Comunque, quello che si presenta oggi è anche in questo caso, un terreno caratterizzato da determinazioni simili a quelle definite dal diritto internazionale – un vero e proprio disastro delle forme giuridiche tradizionali. Per il momento sembrano possibili solo operazioni tattiche di resistenza.

Esperimento 2. È la linea di Commonwealth. Essa ci induce ad affrontare il problema di un eventuale diritto del comune dal punto di vista dell’ontologia del comune.

Questa via parte dal riconoscimento della costruzione e dell’assoggettamento funzionale del comune da parte del capitalismo globale, finanziario, militare. Lungi dal proporre processi di puro riconoscimento o di appropriazione delle strutture e delle figure del “comunismo del capitale” e del suo Stato, questa linea propone di concepire i processi di governance come strumenti di ulteriore destrutturazione del diritto tradizionale ed in secondo luogo si pone l’obiettivo di sollecitare, all’interno di questo processo di destrutturazione, l’emergenza delle nuove figure della cooperazione produttive.

La sola via d’uscita, rispetto a questi problemi sembra dunque essere:

1. la riproposizione del tema del comune su un terreno che non è socialmente omogeneo, che non prevede istituzionalità né omologie precostituite, ma è percorso da antagonismi originari: da un lato c’è una forza-lavoro, sempre più precaria, che riconosce la propria autonomia dal capitale; dall’altra c’è il rapporto di comando che il capitale cerca continuamente di rinnovare. La soluzione di questi conflitti non può darsi secondo alcuna determinazione teleologica o dialettica. È un contesto machiavellico quello dentro cui ci si muove. Ogni determinazione è una potenza che vince (o perde) rispetto ad altre potenze. Il senso del processo è identifica qui assimilato e prodotto dalla potenza della decisione collettiva.

2. In questo quadro il comune non può esser posto in continuità con la tradizione giuridica, non può configurarsi come un terreno dentro il quale si propongono, dall’esterno, idee di giustizia… può solo contenere, costruire usi e governarli nell’immanenza, nella loro reciprocità e comunanza. Il diritto internazionale (proprio in quanto non-diritto) è da questo punto di vista il modello al quale ci si può riferire (ma in maniera inversa, rovesciata rispetto a come Carl Schmitt ha posto il problema).

3. Il rovesciamento della prospettiva schmittiana, non il recupero dell’”eccezione” ma l’insistenza sull’”eccedenza” del lavoro cognitivo, l’assunzione di un contesto biopolitico adeguato eccetera, insomma lo studio delle dottrine e delle pratiche destrutturanti il diritto occidentale e l’esercizio (dentro la destrutturazione del diritto) del potere costituente, costituiscono la sola via d’uscita oggi percorribile rispetto a questi temi.

Pasukanis, negli anni ’20, aveva proposto alcune linee estremamente interessanti: “è del tutto evidente che la logica dei concetti giuridici corrisponde alla logica dei rapporti sociali di una società che produce merci e che proprio in tali rapporti e non nella permissione di una autorità, va ricercata la radice del sistema del diritto privato. La logica dei rapporti di dominio e di subordinazione rientra così solo in parte nel sistema dei concetti giuridici. Perciò la concezione giuridica dello Stato non può mai diventare teoria e resterà sempre un’alterazione ideologica dei fatti”. Per immaginare un diritto del comune (ma perché parlare ancora di diritto?) bisognerà dunque – una volta destrutturata la costituzione proprietaria – risalire dalla pluralità, dalla rete dei rapporti di lavoro a forme di regolazione, che comprendano e sviluppino il potenziale dei rapporti produttivi sociali – che costituiscono, nell’eguaglianza e nella  coproduzione, norme giuridiche non statali per regolare la vita comune.

Bisognerà ad esempio seguire i fenomeni della cooperazione della forza-lavoro, dell’autovalorizzazione, che introducono un surplus di capacità produttiva della forza-lavoro singola e collettiva; bisognerà percorrere l’insieme dei fenomeni finanziari rivelandone dall’interno la potenza delle relazioni simmetriche fra produzione sociale e sistema dei segni – reinventando probabilmente, a questo livello, una teoria del “valore-lavoro” (e della sua misura). È solo in questo caso che sarà possibile stabilire delle linee che, ad esempio (non più semplicemente in termini tattici ma finalmente strategici), risalgano dal Welfare al comune (che qui, in questa luce, comincia a definirsi come un’arena di partecipazione democratica più eguaglianza distributiva).

 

Nota alla nota di Teubner. (Hardt e Negri)

Teubner comincia interpretando in maniera a volte confusa alcuni concetti di Commonwealth, ma nella sua finale caratterizzazione delle differenze e delle somiglianze fra il suo percorso ed il nostro è assai corretto e generoso.

Due sono le somiglianze da sottolineare: 1. Il riconoscimento dell’insufficienza dell’alternativa fra le soluzioni neoliberali di mercato e le soluzioni keynesiane o socialiste (di Stato). Se una terza via non si è ancora data, bisognerà inventarla.

2. l’apprezzamento della pluralità del campo sociale e l’insistenza su un movimento politico basato sulla molteplicità. Benissimo dunque fin qui.

La prima critica di Teubner è infatti – quando arriva alla fine del suo discorso – che noi sosteniamo una soluzione politica unificata e totalizzante che tradisce il nostro iniziale affidamento alla molteplicità. Su questo punto aderiamo all’insistenza di Teubner sulla molteplicità, ponendo semplicemente in questo contesto il bisogno di “fare moltitudine” o, più semplicemente di fare società – non come una totalità sociale unificata ma come un contesto coerente di relazioni sociali stabili. Non crediamo di essere molto lontani da Teubner a questo proposito.

Crediamo tuttavia che la discussione vada approfondita sull’uso dei concetti di pubblico e privato. D’accordo, in prima battuta, con l’uso che Teubner fa del “pubblico”. Egli desidera strapparlo allo Stato e ne usa il concetto per molte delle determinazioni che noi chiamiamo con il termine “comune”. Molto più complicata diviene la questione quand’egli vuole recuperare il “privato”. Di passaggio egli afferma che, se può esser d’accordo con la nostra critica della proprietà privata, ci sono comunque molti altri usi del privato che egli desidera mantenere. Noi non abbiamo mai affermato che tutte le garanzie che Teubner vuole conservare per il privato debbano esser gettate via. Al contrario. Noi vorremmo caratterizzarle, piuttosto che usando la nozione di privatezza (privacy), con i concetti di autonomia e di libertà, che sono concetti assai differenti perché si fondano non sulla separazione e sulla protezione ma piuttosto sulla nostra potenza (power).

Infine – cosa forse più importante – noi pensiamo che Teubner sottovaluti l’intensità della nostra critica alla proprietà privata, o piuttosto sottovaluti la trasformazione sociale radicale richiesta dall’abolizione della proprietà privata. Egli assume infatti che tutti gli altri significati della “privacy” (fuori dalla proprietà) siano neutrali in riferimento al “privato” della proprietà – mentre noi riteniamo che essi siano strettamente implicati in essa. Insomma, ci piacerebbe approfondire con Teubner l’argomento di Pasukanis, quand’egli dimostra che la proprietà privata fonda il diritto borghese (e capitalista) mentre le altre energie della singolarità (la responsabilità nel lavoro, la gioia della ricerca scientifica, la solidarietà sociale eccetera) permettono di costruire il comune. Siamo talmente convinti di questo che non ci sembra strano che il comune possa essere costruito a partire da quelle virtù private piuttosto che dalla forza del pubblico, dello Stato (sempre finalizzata alla difesa della proprietà). Teubner forse non si rende conto di quanto le condizioni della proprietà privata, in tutti i contesti, mettano in pericolo quei giochi linguistici che egli desidera preservare.

*Testo dell’intervento per il seminario di Uninomade “Il diritto del comune”

 

 

 

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