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Il divenire relazionale della produzione. La soggettività ambivalente dei lavoratori della conoscenza nella Torino postfordista

 

di EMILIANA ARMANO
Questo scritto riporta alcune considerazioni in riferimento ad una ricerca empirica incentrata su incontri e interviste e volta ad approfondire qualitativamente la condizione soggettiva di uno spaccato del lavoro della conoscenza a Torino.Uno studio qualitativo di caso per conoscere in profondità la soggettività nelle sue molteplici dimensioni (senza ovviamente la pretesa di pervenire a risultati generalizzabili).

La scelta è stata di realizzare la ricerca nella Torino postolimpica, nella città terreno storico della grande industria italiana e ora in corso di forte terziarizzazione e di scegliere i knowledge workers come protagonisti di questo studio: le loro aspirazioni e le loro paure, le loro skills e la loro invisibilità politica, la carica di innovazione che incorporano e quella di incertezza che subiscono. Le storie raccolte per esteso ci parlano di nuove soggettività del lavoro, raccontate in presa diretta sul crinale tra autonomia e sfruttamento. Le interviste sono state realizzate prevalentemente durante alcuni significativi “eventi” tra fine 2006 e inizio 2007: Virtuality, Linux Day, Artissima, Festival del Cinema. Eventi che segnano anche simbolicamente il passaggio di una città-laboratorio di trasformazione. Sono interviste a informatici, programmatori, sviluppatori, lavoratori delle telecomunicazioni e della ricerca universitaria, webdesigners e web workers, artisti digitali, formatori, ricercatori, designers industriali, giornalisti, traduttori, fotografi, videomakers, inseriti con contratti principalmente temporanei, dalla partita iva al tempo determinato alla microimpresa. L’intento della ricerca è di approssimare l’autorappresentazione del lavoro cognitivo come primo passo per un riconoscimento della necessità di autotutela; lo studio si colloca quindi nel solco della fruttuosa tradizione della “conricerca” italiana.

Per quanto riguarda i risultati, la ricerca, rispetto a quelle che sono le letture prevalenti sulla condizione dei knowledge workers evidenzia alcune dimensioni inedite. L’esperienza soggettiva dei knowledge workers è stata descritta, nella letteratura, prevalentemente attraverso il ricorso a stereotipi oppure a categorie particolari che assumono di volta in volta singole frazioni di lavoratori presentate come composizione generalizzata. Alcuni autori li hanno rappresentati tout court come nuova “élite” in una sorta di e-topia un po’ mitizzata della creatività (Florida, 2006). Sul versante opposto è stata proposta l’immagine dei “net slaves” o del precariato della rete, con un’interpretazione che li mostra esclusivamente come “vittime” delle forme de-regolamentate di funzionamento del mercato del lavoro (Lessard, Baldwin, 2000; Sennett 2001; 2008). La nostra ricerca ha cercato di sondare la rappresentazione soggettiva di alcuni lavoratori in carne ed ossa mettendo così al vaglio queste due opposte letture.

Cercando di restituire in profondità il punto di vista dei knowledge workers sulle loro esperienze reali, i risultati rimandano l’idea di una condizione socio-professionale e di vita caratterizzata da una forte ambivalenza, non risolvibile, tra elementi di precarietà e di innovazione. Il lavoro nel postfordismo se da un lato mette in scena nuove capacità comunicative, relazionali e creative, dall’altro queste stesse capacità vengono messe a valore ed espropriate.
La condizione del lavoratore della conoscenza è stata indagata a partire dall’assunzione iniziale orientativa secondo cui il rischio (nella accezione in cui ne parla Ulrich Beck) investe i soggetti in più modi e in particolare rispetto ai diritti sociali e del lavoro, con aspetti di precarietà connessa alla debolezza delle tutele formali previste dai contratti atipici e alla peculiare condizione dei lavoratori autonomi.
All’inizio della ricerca sul campo ci attendevamo che i partecipanti parlassero facilmente del tema dei diritti, della instabilità contrattuale, della rappresentanza assente. Invece abbiamo constatato quanto emergessero spontaneamente e ripetutamente discorsi sul valore della realizzazione di sé nel campo professionale e sull’importanza dei network di riferimento. E’ intorno a ciò che ruotano principalmente le narrazioni come elemento fondamentale dell’identità di questi lavoratori.
I risultati mostrano che la percezione del rischio da parte dei soggetti non si incentra esclusivamente e principalmente sulla mancanza delle tutele formali e contrattuali, bensì sul rischio che vengano meno le tutele informali su cui in questo mondo socio-professionale si fa forte affidamento.

Non è allora possibile leggere l’informalità soltanto come risorsa o viceversa, al contrario, l’informalità come trappola della precarietà. Mentre nei lavori genericamente atipici e flessibili infatti l’informalità viene declinata prevalentemente a senso unico nel senso della precarietà e della debolezza-assenza delle tutele, l’elemento che più colpisce nei racconti biografici dei lavoratori della conoscenza intervistati è che l’informalità nelle sue diverse dimensioni (organizzativa, nelle relazioni di lavoro, nella formazione) risulta indissolubilmente ambivalente come elemento peculiare di questo segmento del lavoro (Alquati, 1997; 2003). Gli elementi di forza dell’informalità si presentano congiuntamente agli aspetti critici. Ciò ridefinisce le nozioni di precarietà e di innovazione basate sul rischio. Una situazione che non è resa adeguatamente per esempio dal concetto di capitale sociale embedded (Granovetter, 1991) che si presta solo parzialmente a descrivere la condizione socio-professionale dei knowledge workers. L’informalità prodotta dai profondi processi di deprocedimentalizzazione, deistituzionalizzazione e deverticalizzazione delle strutture organizzative, destandardizzazione del lavoro e diffusione del rischio, da un lato è vissuta come una risorsa, un capitale sociale fonte di opportunità, informazioni, relazioni, d’altro, allorché si sostituisce alla continuità e alle tutele contrattuali forti, appare come limite.
A differenza dell’epoca fordista sembra scomparso lo scarto tra l’organizzazione formale aziendale e l’organizzazione informale del lavoro (o potenzialmente altra; propria). Tra i knowledge workers, grazie alle tecnologie mobili, é come se l’organizzazione si fosse liquefatta e la dimensione informale del lavoro si fosse sovrapposta e avesse preso il posto dell’organizzazione formale dell’impresa. Una rete composta da persone che fungono da nodi.
Un’“organizzazione informale” che fa leva sul fatto che riuscire a restare nel network è la priorità che orienta l’azione. A differenza del mondo fordista, l’ambiente organizzativo dei lavori della conoscenza non è circoscritto al singolo luogo di lavoro. I legami di fiducia e cooperazione non si limitano al collettivo lavorativo in senso stretto ma affondano nel magma della cooperazione sociale, negli ambienti di frequentazione in senso lato. Abbiamo profili lavorativi individualizzati, traiettorie professionali in cui legami sociali durevoli sono spesso situati in un network oltre il temporaneo luogo fisico di lavoro.

Mentre nel mondo fordista il riferimento fisico era costituito dalla fabbrica, l’ufficio e lo stabilimento, nei lavori della conoscenza il confine fisico è la metropoli, il territorio nel quale il progetto si situa. Non a caso emerge nelle narrazioni, l’idea di network come metafora evocativa per descrivere la socialità e contemporaneamente anche il modello tecnologico su cui è organizzata l’attività lavorativa. Questo tema ricorre sovente per esempio quando i lavoratori dei nuovi media discutono le tensioni e i limiti creati dall’uso di tecnologie mobili o dalla partecipazione a comunità virtuali (il tipo di strutture sociali interattive generate dal web 2.0) che suggeriscono quella metafora secondo cui il software contribuisce a generare relazioni modellate sulla forma della rete.

Ciò anche grazie all’uso della tecnologia mobile che ha disegnato una nuova modalità flessibile e dinamica di lavorare. La novità fondamentale nel rapporto con la tecnologia consiste nel fatto che la conoscenza non è più solamente incorporata nel lavoro e nelle macchine. Esiste uno spazio intermedio di connettività nel quale costruire relazioni di lavoro e di apprendimento. Il lavoro della conoscenza si è riterritorializzato in questo spazio intermedio (Castells, 2006; Shirky, 2009), una vera e propria rete transaziendale, come risulta dalle narrazioni.

Il lavoro mobile che si svolge in questi network professionali, quale ci viene raccontato, da un lato si pone in modo liberatorio fornendo ulteriori gradi di autonomia legati alla potenza delle tecnologie digitali e all’universalità dei linguaggi che consente l’espansione della comunicazione al di là dei vincoli di tempo e di spazio. Dall’altro, il lavoro mobile che viene remunerato a risultato si misura con le nuove modalità di comunicazione connaturate al mezzo digitale che portano con sé la completa saturazione dei tempi che diventano privi di limiti. Cosicché la separazione tra tempi di vita e tempi di lavoro tipica del mondo fordista va completamente in frantumi, così come è pressoché saltata la distinzione tra “casa” e lavoro. Il lavoro dei knowledge workers è dunque meno dipendente dai fattori “spazio” e “tempo” di quanto lo fosse il lavoro fordista e manuale. Il tempo appare introiettato e svincolato dal controllo formale esterno, ma insieme esteso, indefinito e dilatabile all’inverosimile. E’ chiara allora l’ambivalenza della connettività come informalità resa possibile e supportata dalla tecnologia mobile.

Le relazioni sono incentrate sulle persone e dal punto di vista organizzativo sono più simili a connessioni e contatti nel medesimo ambiente e comunità socio-professionale, legami di riconoscimento reciproco piuttosto che rapporti strutturati e formalizzati.
La logica con cui leggere la “rete” è infatti di connessione/disconnessione. La connessione è la creazione di un legame temporaneo basato sulla fiducia rispetto a un obiettivo, un legame iperleggero di cui è possibile sbarazzarsi immediatamente disconnettendosi (Castells 2006; Petti, 2007) nel momento in cui occorre, quando il “contratto fiduciale” non regge più tra le parti o semplicemente l’obiettivo cambia.

Le regole all’interno di questi networks sono anch’esse regole fluide e dipendono più dalla capacità di mettersi in relazione, di interpretare un ruolo lavorativo, di riconoscersi reciprocamente (Pizzorno, 1999; 2006; 2007; Regalia, Sartor,1992) in comunità professionali piuttosto che da procedure standardizzate, protocolli e comportamenti codificati dalle declaratorie professionali. Così ci pare che anche per i lavori della conoscenza assume una valenza paradigmatica la condizione professionale del lavoro dei servizi e del terziario avanzato. Secondo alcuni autori (Touraine, 2006) si può parlare di estesa femminilizzazione del lavoro, come dato ormai acquisito del regime occupazionale postfordista (Morini, 2010). Con tale definizione si fa riferimento alla messa in produzione delle attitudini relazionali, affettive, di interazione flessibile e di cura, appartenenti all’ambito definito di riproduzione della forza-lavoro e storicamente determinate come femminili.

Ma l’informalità, il carattere linguistico (Marazzi, 1994) e la relazionalità che investono le relazioni di lavoro nell’ambito della conoscenza anziché essere solo delle risorse, assumono valenze chiaramente contradditorie. La grande ambivalenza di queste reti informali, amicali, pseudo-“comunitarie” lavorative, consiste nel fatto che in parte le norme e i diritti formalmente definiti dai contratti, in realtà, dipendono da quanto sul piano concreto si riesce effettivamente a farle valere.

Spesso la collocazione, i ruoli e le mansioni dipendono in modo fluido da come le relazioni di lavoro e i contratti si riescono ad interpretare informalmente sui posti di lavoro e nei progetti. E’ evidente che quando le tutele formali sono assottigliate (come nel caso dei contratti temporanei, parasubordinati, e delle forme di lavoro autonomo), le reti amicali e familiari sopperiscono nell’immediato in maniera efficace ma sottraggono al lavoro il discorso pubblico con una sorta di “autorinuncia” ai diritti. E i legami personali vengono messi a valore spesso nel senso dell’autosfruttamento.

Nel network il conflitto non è tuttavia rimosso; assume talvolta un carattere sotterraneo. E’ singolare che molti degli intervistati hanno spontaneamente raccontato storie di infedeltà aziendale. Appena possibile i lavoratori fuggono dall’azienda di provenienza e si spostano rapidamente alla ricerca di situazioni professionalmente e contrattualmente più appaganti e convenienti. L’infedeltà aziendale più del conflitto aperto sembra essere un comportamento tipico dei lavoratori della conoscenza, di adattamento alla flessibilità, una reazione individuale con la quale si cerca di sfuggire alla precarietà; un sistema individuale di gestione del rischio.

E’ singolare che il network, dai nostri intervistati, non viene mai messo in discussione; lo stare nel network come ambito informale di ruoli provvisori con diritti e doveri temporanei sembra essere la necessità pena l’esclusione da tutto: accesso ai contratti-progetti, reddito, identità.

A questo riguardo, ci preme da ultimo soffermarci sulle ricadute della cooperazione spontanea e della condivisione informale presenti nei network socio-professionali. Il capitale umano essendo per sua natura indissociabile da colui che lo detiene, trasforma lo stesso soggetto in una sorta di impresa (Cohen, 2001). Il lavoro della conoscenza, abbiamo visto, incorpora una porzione importante di lavoro immateriale e relazionale cosicché i comportamenti, le motivazioni, le competenze sociali ed emotive giocano un ruolo importante nella qualificazione di queste attività e nella loro messa a valore. Su questa base André Gorz può sostenere che “la personne devient une entreprise” (2001). E questo “transfert des compétences entrepreneuriales vers la base” permette di “supprimer dans une large mesure les antagonismes entre travail et capital”.

Il lavoro immateriale presuppone un insieme di attitudini, capacità e saperi che possono essere assimilati alle conoscenze in senso lato. E’ questo “capital de connaissances” viene a costituire una parte decisiva delle risorse aziendali.
Ciò rimanda alla natura dell’economia di rete in cui ogni impresa e attività è inserita in una trama territoriale e sociale di interconnessioni. La produttività dipende allora in larga parte dalle capacità di cooperazione, comunicazione, auto-organizzazione dei nodi e dei partecipanti. Il risultato non è qualcosa di tangibile ma è prima di tutto la costruzione di relazioni, un’attività di interazione in cui si produce altresì il sé degli attori. Essendo tale la natura della soggettività e delle sue relazioni, si pone allora il problema: a chi appartiene tale ricchezza? Chi accumula queste risorse e le pone a valore?

Per le imprese, come in una sorta di nuova frontiera delle enclosures, si tratta di espropriare (ricodificare) il capitale umano che esse non hanno né coltivato né pagato (Cohen 2001; Gorz 2003). Questo capitale è costituito da quell’insieme di attività di socializzazione non remunerate, le più comuni e quotidiane, che ci rendono capaci di interagire, comunicare, apprendere, creare fiducia. Le imprese si giovano delle capacità prodotte dalla società nel suo insieme, le capacità di interpretazione e di comunicazione sedimentate nel linguaggio. Le persone da parte loro si appropriano, o possono appropriarsi, di questo sapere e capitale culturale per utilizzarlo a fini propri per la produzione di sé e di un’autonoma socializzazione.

Il capitale umano prodotto della società, o se si vuole questa produzione di sé, diviene allora la posta in palio tra i soggetti che sono riusciti a svilupparlo a partire da un insieme di facoltà e capacità personali e il mercato come rete di imprese le quali puntano a disporre gratuitamente di questo capitale sociale, umano e relazionale secondo i loro bisogni specifici e particolari.
Si tratterà allora di capire come può modificarsi il rapporto tra pratiche relazionali e forme di coalizione. Se il punto di partenza è la categoria del rischio, il punto di arrivo non può che essere l’idea di autotutela. Ma il sé si difende e si potenzia individualmente o …?

L’insistenza sul tema del rischio e della sua gestione evidenziata dalle narrazioni mostra come siano centrali nelle soggettività le traiettorie costruite, le concatenazioni di attività. In tali traiettorie, se è vero che si ha il recupero della soggettività, se è vero che l’iniziativa viene restituita alle persone e si liberano modalità relazionali, ciò non toglie che la crescita del rischio genera al contempo nuova precarietà, sfruttamento e autosfruttamento, incertezza, furto del futuro. Occorrerà quindi cercare di capire attraverso quali processi spontanei e/o organizzati potrà essere effettivamente socializzato il rischio nel lavoro della conoscenza e se si creeranno nuove forme di solidarietà che non costringano a rinunciare alla maggiore autonomia e alle nuove inedite potenzialità acquisite. “Procede ancora qualcosa di analogo, una nuova informalità collettiva e integrata? Tele-integrata. E cosa eventualmente circola lì dentro? Con che conseguenze? In che senso possiamo dire che procede ancora una socializzazione tra lavoratori, anche nei paesi tecnologicamente più avanzati dell’Occidente?” (Alquati, 1997:161).

BIBLIOGRAFIA

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Quaderni di San Precario – n.1
http://quaderni.sanprecario.info/

 

 

 

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