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Impresa, soggettività e capitalismo cognitivo. Appunti preliminari per un’inchiesta

 

di SALVATORE COMINU e RAFFAELE SCIORTINO

In apparenza niente potrebbe apparire più inattuale di un’inchiesta sull’impresa. Da decenni i conflitti più incisivi si situano al di fuori dei luoghi della produzione immediata o comunque non assumono come terreno di scontro le grandezze (orario, salario, organizzazione del lavoro) che definivano le coordinate della lotta di classe nel fordismo. Ciò non significa che i conflitti sul lavoro siano scomparsi. E’ vero il contrario. Anzitutto al livello della produzione mondiale, dove sono anche conflitti “orario e salario” e i cui effetti non sono solo locali, ma retroagiscono a livello globale. In secondo luogo, conflitti del lavoro hanno attraversato e attraversano l’Europa su terreni affatto “arcaici” come i) la ristrutturazione del settore pubblico – contro privatizzazioni, tagli, liberalizzazioni, introduzione di criteri di misurazione e valutazione di prestazioni e compensi; ii) l’intensificarsi dello sfruttamento (anche ergonomico) nelle produzioni a elevata intensità di scala e capitale tecnologico; iii) la stabilizzazione dei rapporti di lavoro in settori dove la flessibilità si configura come puro ricatto. Vertenze puntiformi, talvolta con forme di lotta non compatibili con le regole del gioco, hanno segnato anche la geografia del nostro paese, spesso combinandosi con i movimenti “esterni”: dalle piazze di Genova alle mobilitazioni contro la guerra, dalla May Day alle lotte per i “beni comuni”, dalle pratiche di cittadinanza dei migranti alle nuove mobilitazioni delle donne, per finire ai movimenti che, dall’Onda del 2008 alla rivolta del 14 dicembre, hanno fatto di scuole e università luoghi di soggettivazione del precariato cognitivo. I conflitti “operai”, tuttavia, non hanno più assunto carattere generale, raramente si sono posti su un versante offensivo, non hanno più imposto l’agenda al nemico. Su questo è bene essere chiari; al di là di ogni (giusta) attenzione la resistenza di Pomigliano e Mirafiori in occasione dei referendum imposti dal management di Fiat non ha costituito – né poteva – il trampolino di rilancio del conflitto operaio. Per non parlare della dismissione senza lotta di Termini Imerese.

Sempre più, conflitti e processi di soggettivazione si danno nel panottico ed eterogeneo campo della trasformazione del fare sociale in valore economico, in quel processo di produzione permanente di “diritti di prelievo” sulla cooperazione sociale, che possiamo situare alla base dell’accumulazione nel nuovo capitalismo. E’ questa qualità pervasiva e ubiquitaria a connotare infatti l’accumulazione cognitiva, il suo tenere insieme molteplici modi di estrazione del valore, diverse forme dello sfruttamento, plurali campi di formazione e trasformazione delle soggettività, dalle quali in ultima istanza dipende e che nel contempo disegna l’orizzonte dei conflitti.

Esiste dunque una feconda “circolarità” delle lotte nella crisi, che avvengono fuori dall’impresa ma l’attaccano “a monte” e “a valle”, individuando come terreno di conflitto i presupposti sociali e sistemici dell’accumulazione. Il campo di lotta che qui traspare oppone la logica del comune a quella dei collective competition goods, per utilizzare una categoria della sociologia economica che rimarca la dipendenza delle imprese, nel nuovo capitalismo, da risorse collettive di cui devono in qualche modo appropriarsi “per competere”. Le lotte universitarie, in Italia e in Europa, hanno posto con forza il tema dell’accesso, ma anche degli usi della conoscenza:  appunto, comune contro competition goods. Le insorgenze e le rivolte che, sia pure nella diversità di forme di mobilitazione, contesto ed esiti, hanno connesso Londra al Nord-Africa alla Spagna, hanno avuto nell’articolazione e nell’eterogeneità delle figure sociali e del lavoro un tratto comune, ma hanno anche visto come soggetto “modale” la figura “politica” del precario cognitivo; una “composizione” priva di luoghi permanenti di aggregazione e concentrazione, che ha nella mobilità e nella fluidità la principale risorsa vulnerante, ma a ben vedere anche la sua vulnerabilità.

 

Perché l’inchiesta sull’impresa dunque? Non perchè ci si debba aspettare il ritorno, nella crisi, al conflitto su un terreno “classico”. Non c’è tuttavia coincidenza immediata tra spazi in cui si formano le soggettività e spazio delle lotte. Nella contro-formazione del lavoro cognitivo l’esperienza del comando d’impresa non ha parte marginale.

Non è già (o almeno non solo) la percezione dell’impossibilità di convertire gli investimenti educativi in posizioni sociali vantaggiose, che costituisce spiegazione mainstream del disagio delle generazione entranti nonché premessa discorsiva dei progetti di ristrutturazione del mercato del lavoro, ma anche la consapevolezza della miseria e della svalorizzazione del lavoro sotto comando (diretto o esternalizzato) e della banalizzazione delle conoscenze (individuali e sociali) operate dall’impresa, a fornire la matrice delle lotte dei giovani. Ipotizziamo che, sebbene raramente “teatro” esplicito del conflitto, l’impresa nel capitalismo cognitivo non costituisca uno spazio pacificato, ma sia attraversata da contraddizioni che sedimentano sapere e soggettività dentro (dove il conflitto si dà nella forma della sottrazione, della indisponibilità) e fuori l’impresa.  Certamente il rapporto tra dentro e fuori è di problematica lettura e difficile demarcazione. Quali siano i “confini dell’impresa” e quali siano i confini del “tempo di lavoro” sono interrogativi che dividono da tempo economisti e sociologi. La messa al lavoro delle prerogative biologiche personali, delle relazioni, degli affetti, dei pensieri, non trova tendenzialmente altro limite che la capacità umana medesima. La percezione di essere in produzione anche quando non si è fisicamente sul posto di lavoro – tradizionale o “domesticato” che sia – non è un’astratta teorizzazione, ma la concreta esperienza di tantissime/i lavoratrici e lavoratori (salariati e non), che di ciò sono pienamente consapevoli. In questo senso il fuori è inattingibile. Anche il tempo di non lavoro, tende infatti a essere sempre più impresizzato. Non solo nel significato per cui, ad esempio, il consumo è reso produttivo in quanto monitorato, organizzato, sussunto dalle imprese, che ne traggono segnali, idee, indicazioni da tradurre in prodotti. E neanche solo in quanto tante attività volontarie (sociali, di networking, di produzione collettiva) che avvengono nella rete e sul territorio creano di fatto contenuti appropriabili da imprenditori organizzati al fine di trarre dalle medesime valore economico. Ma anche e forse soprattutto perché è la razionalità stessa dell’impresa che ha pervaso il tempo e lo spazio sociale nella sua interezza. Questo dal punto di vista dei singoli significa anche, da una parte, che il tempo e lo spazio della vita quotidiana sono “contesi” e tendenzialmente organizzati da una molteplicità di “imprese”, ma anche che l’esperienza individuale è organizzata in senso imprenditoriale, ben oltre quanto suggerito dalla nozione di “imprenditori di sé stessi”. Impresizzazione del sociale e impresizzazione dei singoli, dunque, rendono del tutto permeabili lo spazio dell’impresa (il dentro) e lo spazio sociale (il fuori), che vanno letti nella loro articolazione e non nella separatezza. E’ questa molteplicità che definisce, in potenza, la ricchezza delle istanze conflittuali.

Nel contempo, e qui sta il punto, la problematizzazione di questo rapporto non può scivolare nell’indistinzione, come se a monte dei processi di cattura e d’impresizzazione non esistessero catturatori organizzati. Questi diversi piani dello sfruttamento non sono infatti equivalenti, nonostante s’incrocino e sovrappongano. Le imprese non sono entità diluite in un capitalismo “liquido”: il rapporto salariato (inteso qui in senso generico) reca infatti con sé la ratifica di un primato del tempo dell’impresa, un diritto a disporre del lavoratore, ma prima ancora della persona, che struttura e gerarchizza gli altri tempi.

Non intendiamo, in base a queste premesse, postulare che le lotte sul terreno della produzione e riproduzione sociale, per farsi “vera” lotta di classe, debbano ritornare dentro le mura (metaforiche) del lavoro sotto comando, ma che (questa la prima ipotesi) tali processi costituiscano diverse facce dello stesso problema, all’incrocio tra impresizzazione delle attività umane e sussunzione della vita sociale. Allora, la questione è: come si ridetermina la forma-impresa nel momento in cui le forme del lavoro, della produzione di soggettività e della valorizzazione rendono labile il confine tra dentro e fuori? Tutto ciò rimanda a un secondo versante della questione.

 

Il secondo presupposto dell’inchiesta prende le mosse delle forme di accumulazione nell’orizzonte stabilito dai processi di finanziarizzazione e globalizzazione e, sul versante micro, delle concrete forme di captazione e cattura “dei saperi e delle competenze cognitive della forza-lavoro”. In questa dinamica, con qualche forzatura e un certo grado d’astrazione, possiamo affermare che l’espropriazione della cooperazione è condizione necessaria dell’accumulazione del capitale. Intorno ai commons cognitivi prende forma una contraddizione fondativa della nuova economia: le risorse comuni devono infatti  essere costantemente prodotte e incentivate, ma devono anche essere rese produttive per le imprese. E’ necessario chiedersi che parte abbiano le imprese in questa dinamica.[1]

Sempre più i “mezzi di produzione” sono incorporati nel lavoro vivo; conoscenze, attitudini, linguaggi, relazioni, sentimenti, non possono essere separati dal vivente, che diviene “capitale fisso” (Marazzi): a fronte di questa qualità biopolitica i singoli capitalisti (le imprese) predispongono le condizioni della cooperazione in misura diversa dal passato. E’ tuttavia importante mettere a fuoco che, se il capitale predispone meno che in passato le condizioni della cooperazione, soprattutto lo fa in maniera diversa. Esistono due “rischi” impliciti (se non sviscerati) nella rappresentazione di un capitale ridotto a pura dimensione rentiér.  Il primo consiste nell’immaginare appunto un capitalismo spersonalizzato, senza catturatori, dove le imprese non esistono se non come pura forma del comando o come semplici agenzie di riscossione di “diritti di prelievo”. A questo proposito si può osservare che frazioni rilevanti del capitalismo contemporaneo funzionano esattamente in questo modo, ma ciò condurrebbe a sottovalutare la molteplicità delle forme dello sfruttamento, tra loro connesse  (non scindibili tra forme arretrate e forme avanzate), dove il capitale è presente in forma tutt’altro che impersonale e non prescrittiva.

Il secondo, a nostra opinione più rilevante, è pensare le imprese reali, per dirla seccamente, come “vittime” della “finanza globale” e delle forme di accumulazione basate sulla rendita. Su questa rappresentazione convergono, per schematizzare, tanto il “tremontismo” quanto vasti settori di “opinione pubblica” progressista, nonché molti sindacalisti e attivisti dei movimenti. Echi di questa visione sono più che espliciti, ad esempio, in tutta la narrazione sulle virtù delle “medie impresa” che rappresentano oggi il riferimento di ogni analisi del capitalismo italiano, anche di intellettuali e studiosi di sinistra. E’ implicita in questa immagine l’idea di una immutabilità dell’impresa capitalistica (e, corollario del ragionamento, del lavoro “produttivo”). In essa scompare il legame osmotico tra finanziarizzazione e produzione di beni e servizi, tra rendita (cattiva) e profitto (buono), ma anche tra processi che avvengono dentro e fuori le imprese e come questi si alimentino reciprocamente. Ciò vale sul piano della ristrutturazione capitalistica del comando, come un’oramai ampia letteratura ha messo in luce in riferimento sia al farsi rete tra reti dell’impresa sia alla sua peculiare finanziarizzazione (money manager capitalism). Ma vale specularmente per le trasformazioni del lavoro. L’operaio o l’operaia di Mirafiori, o della Luxottica, o della Fincantieri, o dell’impresa artigiana che fornisce gli stampi alla Brembo, non vive sulla propria pelle solo la violenza del comando diretto nell’orario di lavoro, ma anche la violenza dell’indebitamento per acquistare casa e mobili, del costo per formarsi o formare i propri figli o per mantenersi in salute, per accedere ai servizi collettivi e ai “beni comuni”, ecc. Queste diverse forme di violenza sono scindibili solo ad un livello molto astratto, poiché concorrono e si combinano nel definire il campo della vita quotidiana, vincolare le scelte, orientare i comportamenti, individuali e collettivi. Per le medesime ragioni, i conflitti che si producono in un dato campo non sono mai del tutto “settoriali”, ma rimbalzano e agiscono come ripetitori nelle altre sfere.

 

Sul piano metodologico, è la natura complessa delle forme dell’accumulazione che ci obbliga a porre al centro la molteplicità dei “dispositivi di controllo e di sfruttamento”. Proprio la rilevanza “degli elementi soggettivi nel corpo del lavoro vivo su cui esercita la sua presa il capitalismo cognitivo” presuppone che questo (il lavoro cognitivo) debba essere costantemente ri-prodotto, in un duplice senso: di capacità umana generica e di disponibilità a cedere il proprio capitale all’impresa. Lungi dall’immaginare questa produzione come un processo idilliaco, riteniamo che proprio la mobilità, il desiderio di autorealizzazione, la consapevolezza del suo potenziale, rendano contraddittoria la pressione sul lavoratore/trice a cedere alle imprese le sue prerogative biologiche, cognitive, relazionali. Senza produzione del produttore, però, verrebbero a mancare le basi medesime del funzionamento della cosiddetta knowledge based economy. Ciò nel capitalismo vale da sempre, si potrebbe osservare: la trasformazione del proletario in salariato ha costituito fin dalle origini il presupposto del rapporto di capitale. Nel post-fordismo, ciò richiede una qualità e un’intensità per molti versi inedite. Schematizzando e correndo il rischio di rappresentare come distinti processi che nella realtà si presentano combinati, possiamo affermare che:

 

  1. il lavoratore nel capitalismo cognitivo è prodotto attraverso la formazione, l’aggiornamento delle sue capacità e soprattutto della sua soggettività; ciò avviene attraverso agenzie formative in senso stretto e in senso allargato (i media, i prodotti culturali, ecc.), le agenzie del welfare, le reti sociali e cooperative – e tra queste rientra naturalmente anche il conflitto;

 

  1. il lavoratore cognitivo è reso disponibile attraverso una serie di disposizioni sistemiche e dispositivi culturali; appartengono al primo tipo, ad esempio, il ricatto della disoccupazione o della sottoccupazione, l’indebitamento, l’assenza di schemi di protezione sociale, le norme che regolano la mobilità e i diritti di permanenza sul territorio, e altri. Questi avrebbero tuttavia scarsa efficacia (in termini coercitivi) se non si combinassero con aspettative individuali di promozione sociale. Per inciso, proprio la crisi di questi dispositivi sembra oggi funzionare da propellente delle lotte nella crisi: l’esodo dalle ideologie (dispositivi) del professionalismo, della classe creativa, da un lato, una prima messa in crisi della fiducia verso l’impresa come luogo “normale” e regolato della produzione di ricchezza dall’altro, appaiono oggi un passaggio necessario, potenzialmente costituente, “compositivo”. Non può sfuggire, in questo senso, che le mobilitazioni hanno avuto per protagonisti soprattutto soggetti entranti, che fanno i conti con la perdita di efficacia delle promesse d’integrazione in una società della conoscenza rappresentata in termini di accesso generalizzato ad una middle class riconosciuta per il valore delle competenze detenute.

 

L’aspetto su cui vogliamo richiamare l’attenzione, tuttavia, è che creare le condizioni sistemiche, coercitive e motivazionali, della disponibilità del lavoratore cognitivo non è sufficiente a renderlo funzionale all’impresa. Le cronache, l’esperienza diretta, le ricerche empiriche sul lavoro post-fordista insistono sulle frustrazioni dei knowledge worker, sul senso di svuotamento e inutilità, sui fenomeni di burn out, sulla scarsa identificazione negli obiettivi aziendali. Il lavoratore cognitivo deve essere reso quotidianamente disponibile a condividere la sua esperienza, a rendere performanti corpo e mente, a cooperare e produrre innovazione, a conquistare i clienti, a indossare la maschera aziendale, a incanalare esperienza, sapere, sentimenti, in sequenze di pratiche che creino valore. A fronte di un ristretto numero di professional (socialmente riconosciuti e ben remunerati) gran parte di essi vive concretamente l’esperienza di una banalizzazione delle conoscenze e la miseria della cooperazione sotto comando.

 

E’ su questo terzo punto che vorremmo focalizzare l’attenzione. La cattura delle conoscenze sociali, presuppone infatti l’esistenza dei catturatori. L’attività di cattura è essa medesima lavoro che viene organizzato attraverso procedure prescrittive e motivazionali – allo scopo di riprodurre la disponibilità del lavoratore cognitivo e la sua aderenza/fedeltà agli obiettivi aziendali. L’impresa, oltre a connettere in modo efficiente lavoro, tecnologie e impianti (nei settori a elevato capitale “macchinico”), deve rendere costantemente produttivo il capitale incorporato nel lavoro vivo. Quest’obiettivo è perseguito attraverso molteplici modalità. Lo sviluppo dei knowledge management system ne costituisce un primo e immediato esempio. Senza addentrarsi nel merito della letteratura manageriale, possiamo limitarci a rilevare che scopo esplicito e dichiarato dei KWS è mettere al servizio dell’azienda le conoscenze individuali, in altre parole “catturare” competenze collettive e “integrare” conoscenze frammentate. Ciò è perseguito attraverso specifiche tecniche e modelli di gestione, che combinano incentivi individuali e di gruppo, assegnazione di premi materiali e simbolici, articolazione delle carriere, sviluppo di leadership e via di seguito. In secondo luogo, le imprese sono bacini di conoscenze proceduralizzate e informazioni stoccate e discrezionalmente distribuite. Lo sviluppo, l’aggiornamento e la manutenzione dei sistemi informativi costituiscono da tempo un campo d’investimento rilevante, soprattutto nelle imprese di servizi terziari, finanziari, di consulenza, assistenza, ecc. Il ricorso all’outsourcing è una ulteriore modalità di organizzazione tecnica della cooperazione, che si accompagna allo sviluppo dei supply chain management, delle condizioni organizzative e contrattuali che consentono di massimizzare l’efficacia delle fonti esterne. La fidelizzazione dei clienti, vera ossessione dell’impresa postfordista, è perseguita anch’essa attraverso tecniche di customer relationship organizzate in forma manageriale, ma anche attraverso lo sviluppo di corporate identity il cui fine, ancora una volta, è creare identificazione nell’azienda.

 

Non insistiano su queste tecniche gestionali e manageriali, la cui efficacia peraltro appare tutta da verificare: essetestimoniano però che l’impresa non è attore inerte, ma partecipa attivamente ai meccanismi di cattura ed espropriazione del comune attraverso la formulazione di tecniche e procedure il cui obiettivo ultimo è sempre la produzione del lavoratore cognitivo.

Quanto affermato va letto nella sua potenziale conflittualità: la produzione del lavoratore cognitivo, come si è detto, oltre a non essere un processo idilliaco, non è un atto unilaterale del capitale sul lavoro, poiché ha la sua genesi proprio nel conflitto (e in certa misura, però, anche nella convergenza) tra bisogni, comportamenti, pratiche, desideri di autonomia e necessità di piegare queste risorse alla “creazione del valore”. Riteniamo che questo programma di ricerca possa costituire un terreno di confronto anche con alcune componenti sindacali che si trovano oggi a doversi confrontare fattivamente sia con l’emergere di primi segnali di conflittualità sia con il nuovo, complesso quadro dello sfruttamento oltre i confini del singolo “posto di lavoro”. Il che è adombrato nel venire in primo piano del tema “lavoro come bene comune”. Ma, appunto, solo adombrato: quale lavoro? e cosa significa divenire bene comune?

 

 

 

 



[1]Marx rilevava che il ruolo fondamentale del capitalista nel processo produttivo, immanente ai meccanismi dello sfruttamento, era quello di predisporre le condizioni della cooperazione (portare gli operai in fabbrica, fornire i mezzi di produzione, organizzare un piano della cooperazione […] il capitalista assicura la cooperazione, Marx lo immagina come un direttore d’orchestra […] Nella produzione biopolitica il capitale non organizza più la produzione o perlomeno non nella stessa misura […].” (Hardt-Negri, Comune)

 

 

 

 

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