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La crisi di Ennahdha e il ritorno alle miniere

 

di FULVIO MASSARELLI

Il 23 ottobre 2012 scadrà il mandato dell’Assemblea Nazionale Costituente  per pubblicare la nuova costituzione tunisina. Ad oggi sono trascorsi poco meno di 10 mesi da quando solo la metà della popolazione recandosi alle urne affidò ad Ennahdha il compito di organizzare un nuovo governo e di  orientare con la maggioranza i lavori dell’assemblea. L’appuntamento fu disertato e osteggiato dalla piazza rivoluzionaria che fin dalle prime ore della sua promulgazione per bocca del presidente Essebsi vedeva appropriarsi dalla contro-parte il primo punto delle rivendicazioni sollevate nel processo rivoluzionario. In quei giorni la parola “costituente” era ben piantata nell’immaginazione rivoluzionaria del proletariato giovanile, delle precarie, dei disoccupati, degli operai, degli uomini e delle donne che avevano costruito i comitati della rivolta dalla fine di dicembre del 2010. Ma con l’intervento in televisione di Essebsi che annunciava la disponibilità da parte del regime in transizione di organizzare le elezioni, la costituente non è più affare solo di “libertà, giustizia sociale, dignità e lavoro”, ma entra anche nel campo del potere, in termini di reazione politica e normalizzazione sociale. Diviene un concetto in piena tensione tra la persistenza del regime pronto a darsi una nuova forma liberal-democratica e la potenza del “potrebbe essere” che iniziava ad affiancarsi alla parola “dégagé” del movimento.

Ad oggi “rien n’à changé!” dicono gli abitanti delle regioni centrali della Tunisia e delle periferie delle città costiere, ma non si tratta di una disperata e desolante scoperta, al contrario è un intransigente affermazione delle proprie ragioni che per mesi hanno attraversato, e attraversano, le piazze e le strade infuocate dalle lotte contro il regime, contro Ennahdha al potere. Una volta contata l’ultima scheda elettorale la stragrande maggioranza dei media occidentali hanno abbandonato la Tunisia e lasciato che il blackout di un tempo tornasse a coprire il paese. A volte si è parlato di qualche scorribanda salafita, ottima occasione per il governo islamista di presentarsi all’opinione pubblica occidentale come figura rassicurante e in grado di tenere a bada i fratelli più esagitati, ma raramente, e solo grazie all’impegno della contro-informazione, dalla Tunisia sono uscite le cronache, le voci, e le immagini di un anno di rivolta e di organizzazione delle lotte. Il 2012 inizia a gennaio con una rivolta a Gafsa a seguito dell’immolazione di un disoccupato, e poi Susa, Jendouba, Tunisi, El-Ksar, Sbeitla, Rades, Om Laarayes, Medenine, Ras Jdir, Sidi Bouzid, Kasserine, Sidi Youssef, Thyna, El Hencha, queste ed altre città e paesi sono state attraversate da straordinarie rivolte locali e regionali dove tutto il lavoro di organizzazione tra i lavoratori del braccio e del cervello, dei sindacalisti di base, e della nuova generazione di giovanissimi proletari, protagonisti delle insurrezioni da poco trascorse, si è mostrato in tutta la sua ricchezza e irresistibilità. In quelle occasioni il “dégage” del movimento durante gli assalti ai palazzi delle autorità locali si è unito al “rien n’à changé!” facendo divenire l’opposizione sociale al governo islamista largamente maggioritaria. D’altronde è ormai chiaro a molti che i poteri della transizione ben poco hanno fatto di rivoluzionario, anzi hanno seguito il corso inaugurato durante la campagna elettorale, ovvero fare di ogni accadimento politico un referendum sull’islam. Il potere legislativo di transizione, l’Assemblea Nazionale Costituente, si è contraddistinto in questi mesi di lavori per la completa assenza di dibattito sul testo costituzionale, tranne nei casi in cui, per ovviare alle crisi interne al partito di maggioranza, si è alzata la voce sui temi legati alla laicità o meno dello stato. L’assemblea non ha avuto neanche la forza di essere qualcosa di poco più di una macchina ratificante le decisioni prese altrove, come la recente destituzione del presidente della Banca Centrale della Tunisia per opera del governo e del presidente della repubblica ha esplicitato all’opinione pubblica. Il governo non appena insediatosi aveva annunciato provvedimenti rivoluzionari per combattere la disoccupazione e la povertà, ma al contrario si è distinto per una repressione in pieno stile benalinista contro le insorgenze dei poveri abbandonati alla loro miseria. Il potere giudiziario da parte sua non ha allestito alcun serio processo che mostrasse almeno la volontà di costruire una verità giudiziaria sul regime di Ben Ali o sulla repressione micidiale dell’inverno del 2011. Al contrario sono stati numerosi i processi contro militanti politici, e contro artisti o giornalisti indipendenti colpevoli secondo la magistratura di dileggiare la religione oppure di lavorare ad inchieste scomode, mostrando a chi avesse ancora dubbi, quanto la cancrena del vecchio regime abiti nelle aule dei tribunali tunisini. Il potere legislativo, esecutivo, giudiziario, lo spazio mediatico pubblico, e la finanza del paese sembrano tutto tranne che innervati da quell’energia “democratica” applaudita dai commenti degli osservatori occidentali all’indomani delle elezioni. Seguendo il dibattito intorno all’Assemblea Nazionale Costituente e considerando le informazioni trapelate sui giornali tunisini o durante i dibattiti organizzati dalla società civile non è errato supporre che il prossimo 23 ottobre, i costituenti, presenteranno delle carte con scritto un codice penale, moralizzato secondo Ennahdha, più che una costituzione. Quelle carte avranno lo scopo di garantire la compressione sociale e il regime di povertà ancora più radicalizzato dall’approfondirsi della crisi attuale, poggiando e facendo leva come un tempo sulla produzione di paura e solitudine, a cui al fondamentalismo neoliberista di Ben Ali, si mescola oggi l’ossessione per i corpi del fondamentalismo islamista di Ennahdha.

Da movimento clandestino e semi-clandestino Ennahdha si è trovata, senza aver preso parte diretta alle insurrezioni dello scorso anno, a dirigere la “transizione  democratica” e ad occupare con prepotenza tutti i posti lasciati vuoti nelle amministrazioni e in generale nella vita pubblica dalle figure più impresentabili del vecchio regime. Ma ad emergere in questi mesi, oltre alla corsa ai posti di comando, ci sono state soprattutto le radicalissime contraddizioni interne alla fazione islamista che non solo si manifestano in correnti ma che si esprimono anche nella natura intrinseca del suo essere ad un tempo movimento religioso che pratica la daawa (la predicazione) e partito politico di governo.

E’ la daawa, così come viene pensata e praticata da Ennahdha, che nell’islamizzare la società dovrebbe fare in modo che sia la popolazione stessa a desiderare e realizzare l’organizzazione del paese nella forma del califfato, dove la fonte del potere è divina e la legittimità politico istituzionale si fonda su una particolare interpretazione dei testi sacri alla religione musulmana. La daawa ha bisogno di radiografare i corpi per orientarne i movimenti e segnarne i limiti, ha bisogno di curvare ad esempio la lotta dei disoccupati verso la richiesta perversa dell’istituzionalizzazione della zakat (l’elemosina sacra) chiudendo e limitando il farsi strada dei bisogni e dei desideri di parte proletaria. La daawa è quindi la strategia per tentare di attivare la società per mezzo della religione con l’obiettivo di far slittare le fonti dell’autorità politica e istituzionale dal profano al divino.

Ma Ennahdha ha vinto anche le elezioni dello scorso ottobre, legifera e governa, riconosce e legittima la fonte profana del potere politico. Rinunciando alla fondazione immediata di uno stato teocratico, deve adeguarsi e farsi promotrice delle istituzioni liberal-democratiche, deve preoccuparsi delle elezioni per vincerle ed avere quella maggioranza che gli permetta di incidere sulla società  allestendo strutture istituzionali che almeno alludano alla realizzazione delle prospettive ideologiche e religiose del movimento. Ma le elezioni non si vincono con la daawa e la zakat. Ennahdha per assicurarsi consenso sociale deve attuare provvedimenti che realizzino obiettivi economici e politici immediati, tenendo conto dei rapporti di forza con le altre formazioni partitiche, con il sindacato e le organizzazioni di categoria, e non in ultimo con la piazza rivoluzionaria che da mesi lotta e si organizza riempiendo tutti gli spazi politici aperti dalle insurrezioni dello scorso anno e spingendone oltre i limiti, in una fase estensiva dell’antagonismo sociale. La fazione islamista moderata rifugge e non può tenere conto del processo rivoluzionario se non in termini di scienza del controllo e pratica di repressione garantendo da una parte che  la persistenza del regime segua il suo corso, che le linee di credito continuino a fluire dall’Unione Europea, dall’America e dai Paesi del Golfo, e dall’altra che la contraddizione intrinseca al movimento islamista non esploda, polarizzando la base e frammentando il movimento in partiti e piccoli gruppi. Allo stesso tempo la strategia della daawa negli ultimi mesi ha scoperto e verificato che la Tunisia non è l’Iran di cui Michel Foucault annotava le giornate rivoluzionarie: la religione non attiva le masse popolari, al contrario l’avvio del processo rivoluzionario in Tunisia come in Egitto ha fatto breccia dell’apparato di cattura mediale fondato  sullo scontro tra le civiltà, sulla presunta e belligerante dicotomia tra islam e occidente, presentandosi come movimento di massa radicalmente a-fondamentalista. In questa profondissima crisi  della rappresentanza politica nella transizione democratica, Ennahdha, per non collassare definitivamente e tenere insieme un moderato liberale come Ajmi Lourimi, ideologo del movimento, nonché allievo di Habermas, e un Sadok Chourou che durante uno dei rari dibattiti nell’Assemblea Nazionale Costituente dedicati alla disoccupazione ha proposto di crocifiggere scioperanti e sindacalisti, non può che ricomporsi parlando il linguaggio unico della repressione, prendendo in prestito la grammatica hobbesiana della paura per rivolgerla con toni islamisti contro i governati.

Eppure anche questo meccanismo ricompositivo del movimento islamista, garante di una transizione in cui “tutto cambia affinché nulla cambi”, è immediatamente suscettibile di andare in pezzi perché ancora privo di un forte radicamento e consolidamento sociale. La vulgata retorica per cui il proletariato urbano dei paesi arabi, e in questo caso tunisino, sia eternamente destinato ad essere la base sociale dei movimenti islamisti è un mantra ormai orientalista che la piazza rivoluzionaria tunisina ci invita ad abbandonare. Lo dimostrano la composizione sociale delle rivolte  di questi ultimi mesi che a partire dalle lotte per il diritto all’acqua e ai servizi, contro la disoccupazione e la precarietà, per la soddisfazione dei bisogni e desideri da sempre compressi e schiacciati dai regimi, ha presentato al governo islamista la piazza variegata e composita della prima e della seconda Casbah. A proposito delle numerose giornate di lotta susseguitesi in questi ultimi mesi  potrebbe essere utile considerare quanto accaduto il 26 luglio a Sidi Bouzid quando un presidio di operai dell’edilizia che protestavano contro il mancato pagamento del salario da parte delle autorità pubbliche si è tramutato dapprima in un assalto all’edificio che ospita il governatorato (i cui dirigenti si erano dichiarati indisponibili ad interloquire con i manifestanti) e poi dopo aver ingrossato le file con centinaia e centinaia di solidali si è diretto, scontrandosi con la polizia, verso i locali in cui ha sede Ennahdha riuscendo a saccheggiarli. Mentre alcuni manifestanti davano fuoco alla bandiera del partito, altri raggiungevano le insegne scaraventandole a terra, e tra i “dégage” gridati dalla folla, venivano calpestate e fatte a pezzi. L’immagine della pedata operaia sulle insegne del locale del partito in pochi minuti si diffondeva in tutto il paese  grazie alle miglia di condivisioni sui social network, mentre a Sidi Bouzid la piazza si rivolgeva alle autorità della transizione con la stessa carica destituente di quel “dégagé” che in passato aveva colpito le strutture istituzionali del regime di Ben Ali. A ben poco è servita la dura repressione ordinata dal governo islamista, e i comunicati in cui si definivano i manifestanti “bande di drogati al soldo di qualche esponente del vecchio regime”.  Nei giorni successivi infatti le piazze e le strade hanno continuato ad essere attraversate da cortei e presidi, fino ad arrivare ad uno sciopero regionale che lo scorso 8 agosto ha visto un’adesione del 90%.

Queste giornate di mobilitazione e rivolta sono la manifestazione di quanto i processi di organizzazione delle lotte si distendano ancora e si consolidano soprattutto nella regione dei fosfati, per poi spingere la carica destituente del movimento nel resto della Tunisia, che da mesi inizia a conoscere anche le prime forme di autogoverno locale e le prime esperienze di autogestione della produzione. A ragione si è spesso fatto riferimento alla rivolta di Gafsa del 2008 come preziosa memoria di lotta che è riemersa nell’inverno del 2011, ma si è forse posta quasi esclusivamente l’attenzione sul terreno del conflitto tra i disoccupati e l’industria d’estrazione dei fosfati, tralasciando alcuni aspetti, che come suggerito da inchieste e colloqui con attivisti della regione, oggi riemergono prepotentemente, dando alle lotte il carattere irriducibile alla mediazione politica e sindacale, e ostile ad ogni rappresentanza istituzionale. E’ necessario accennare ad una genealogia delle lotte del bacino minerario a partire dal processo di inurbamento relativamente recente che nell’arco di un secolo ha trasformato le terre che vanno dalla città di Le Kef sul confine occidentale con l’Algeria fino al lago salato del Chott El-Jerid in una delle risorse economiche più importanti della Tunisia. La maggior parte delle città e dei paesi della regione sono stati costruiti intorno a delle piccole o grandi fabbriche in cui venivano costrette a lavorare le popolazioni semi-nomadi che abitavano quelle terre. Il potere coloniale prima e il regime di Bourguiba poi applicava una politica di urbanizzazione forzata entrando in aperto conflitto con le forme di vita, le relazioni affettive, sociali, economiche delle popolazioni. I paesi e le città venivano organizzati  per il lavoro in fabbrica, e di generazioni in generazione l’industria dei fosfati mobilitava e socializzava la popolazione locale nella produzione. Simultaneamente la memoria della lotta anticoloniale dei fellaghas (come vengono chiamati i protagonisti della resistenza al colonialismo francese in Tunisia) innervava il conflitto operaio nelle fabbriche e nei quartieri in cui comparivano le prime strutture dello stato sociale. Durante la metà degli anni 60 si avvia una prima ristrutturazione di fabbrica che introduce sistemi di automatizzazione più elevati espellendo ampie quote di forza-lavoro dalla produzione. Gli operai che si erano battuti per maggiori salari e maggiori diritti venivano scacciati dalla fabbrica per fare posto a mano d’opera meno qualificata, mentre il sindacato unico UGTT  entrava in uno degli scontri più duri con il regime. Allo stesso tempo Bourguiba dava il via alle politiche di collettivizzazione forzata delle terre che incontrerà una straordinaria resistenza popolare. Ed è in questo momento, tra il 1966 e il 1968, che il piccolo gruppo della sinistra rivoluzionaria legato alla rivista Perspectives inizia a turbare i sonni del Rais. Nei numeri della rivista, alla cui redazione partecipavano per lo più studenti universitari, e in altri fogli militanti scritti dal gruppo, si leggono gli esiti delle inchieste svolte da questa nuova generazione di militanti tunisini che guardavano alla rivoluzione culturale in Cina nutrendosi delle letture di Sartre. Il collettivo di Perspectives annotava la straordinaria disponibilità alla cooperazione della forza-lavoro operaia a cui corrispondeva la più risoluta  indisponibilità e insubordinazione al programma di collettivizzazione forzata imposta dal regime. Il collettivo facendo leva e propaganda politica sugli esiti delle inchieste diveniva uno dei nemici giurati del regime che dichiarava guerra a chi avesse tentato di sabotare la direzione delle politiche di collettivizzazione. In quei mesi uno studente universitario del gruppo, Ahmed Othmani, originario di una famiglia semi-nomade delle regioni tra Gafsa e Sidi Bouzid, entrata in contatto con Michel Foucault che insegnava all’università di Tunisi, ed oltre ai corsi, organizzava ogni settimana in un grande anfiteatro delle conferenze pubbliche gremite di studenti universitari e non solo. Il forte legame tra Othmani, il gruppo Perspectives, e Foucault tramutò la residenza a Sidi Bou Said di quest’ultimo in una stamperia segreta e rifugio per i militanti rivoluzionari già ricercati dalla polizia politica. I mesi successivi vedranno Foucault recarsi al tribunale di Tunisi per tentare di deporre a favore della prima generazione del gruppo di Perspectives che nella  metà del 1968 era stato duramente colpito dalla repressione. Il giudice si rifiutò di registrare la deposizione di Foucault che dopo aver tentato l’impossibile lasciava l’Università di Tunisi, mentre per Othmani e il resto dei militanti arrestati che avevano osato opporre alle politiche di sviluppo decise dal regime  la possibilità che fosse la soggettività operaia a orientare i processi di collettivizzazione, inizierà il decennio dei supplizi e delle torture nelle carceri del paese magrebino. Il regime non tollerava che ci fosse a sinistra una differente ipotesi di sviluppo e una critica all’ideologia della “modernizzazione” che Bourguiba aveva elaborato per distinguersi da Nasser e dalle organizzazioni baatiste.  Il bacino minerario diveniva proprietà dello stato che espropriava tutte le forme di vita della popolazione residente per sacrificarle alla modernizzazione della Tunisia. La violenza di questo processo rimanda ad esempio alle deportazioni di intere comunità da una zona all’altra della regione per permettere l’istallazione delle macchine estrattrici dei fosfati, che tramite bombardamenti sotterranei frammentano i minerali lavandoli nelle faglie freatiche, con il risultato di inquinare le sorgenti d’acqua. Numerosi studi mostrano come l’estrazioni dei fosfati abbia reso impossibile la fioritura di una ricca agricoltura e comporti un tasso molto elevato di casi di cancro tra la popolazione. Eppure la produzione va avanti tra inquinamento e disoccupazione lasciando che la “mal vie” di Mohamed Bouazizi, diplomato e disoccupato, divenga la condizione di vita della stragrande maggioranza della popolazione.

Con la rivolta del 2008 e con l’avvio del processo rivoluzionario del 2011 si è mostrata l’impossibilità da parte degli strumenti della coesione sociale del regime di Ben Ali (le clientele locali, ma anche la contrattazione sindacale concertata tra la segreteria centrale dell’UGTT e il regime) e poi  delle forme della rappresentanza della costituenda democrazia liberale di risolvere e mediare i conflitti  del bacino minerario che per la popolazione non riguardano esclusivamente il problema della disoccupazione. Quando nel 2008 i disoccupati diplomati aprivano il nuovo ciclo di lotte a Gafsa rivendicando il diritto al lavoro, gridavano lo slogan “lavoro, dignità e giustizia sociale”, dove i termini sono associati in un unica espressione di bisogni e di desideri, senza che la richiesta di lavoro, prevalga sulla dignità e la giustizia sociale. Il lavoro non è la prima domanda dei disoccupati e delle popolazioni che abitano la regione delle miniere, ma anzi in quello slogan che continua ad accompagnarsi al “dégagé” e al “ popolo vuole la caduta del regime”, c’è l’affermazione rivoluzionaria all’autogoverno del territorio, dove la qualità della vita è considerata parte del reddito di cui appropriarsi. Sono già iniziate esperienze in questa direzione come ad esempio nella località di Redeyef dove una piccola fabbrica è stata occupata per essere autogestita dagli operai determinati a decidere cosa, come e per chi produrre. E ancora settimane e a volte mesi di autogoverno di paesi e città a seguito della fuga delle autorità pubbliche incalzate dalle rivendicazioni della piazza. D’altronde la crisi e le recenti ristrutturazioni della produzione non permettono alle forze sindacali e al sistema dei partiti di poter mediare tra le istituzioni, le industrie e i bisogni della popolazione, che non può che rivolgere “dégagé” alle autorità pubbliche e tentare di riappropriarsi del territorio.

Su questo terreno il movimento mostra già che il 23 ottobre verranno presentate dai costituenti dell’assemblea nazionale delle carte da considerare reperti archeologici, e che mentre Ennahdha per sopravvivere politicamente lanciava la guerra contro i corpi tentando di moralizzare la società, altrove le pratiche costituenti della Casbah continuavano ad estendersi e svilupparsi. In questo contesto si fa largo nel movimento un nuovo slogan: “fare come in…”, dicono a Redeyef guardando alle fabbriche occupate in Argentina, “fare come in…” si dice guardando alle occupazioni e autogestioni degli ospedali in Grecia. Ma non si tratta di una quanto mai artificiosa riproduzione di una pratica sperimentata altrove, al contrario il “fare come in…” che si ascolta oggi in Tunisia potrebbe essere una nuova espressione di quella koinè dialektos che i movimenti hanno iniziato a parlare tra una sponda e l’altra del mediterraneo. Tra le assemblee di quartiere d’Atene e nella fabbrica occupata e autogestita di Salonicco mentre si discute delle lotte di domani sembra proprio così.

 

 

 

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