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La farsa dell’emergenza economica: parte I

 

di ANDREA FUMAGALLI

L’emergenza ha sempre caratterizzato le decisioni salienti della politica italiana, soprattutto quando si tratta di tematiche socio-economiche. La politica dell’emergenza – si sa – è diventata lo strumento principale dell’arte del comando. Certo, da sola, rischia di non essere sufficiente, se non è accompagnata anche da una “predisposizione istituzionale” che accomuna maggioranza e opposizione, sotto l’egida del presidente della repubblica.

Nell’estate del 1992, la necessità di operare in fretta e firmare accordi capestro ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici (abolizione della scala mobile) era dettata dall’emergenza di entrare nell’Europa dell’euro.

Nell’estate 2011, la necessità di operare in fretta e promulgare leggi finanziarie draconiane, oltre ad accompagnarsi ad accordi sindacali, di nuovo a danno dei lavoratori e delle lavoratrici (ridimensionamento del contratto collettivo di lavoro) è dettata, invece, dalla necessità di non uscire dall’Europa dell’euro.

Tutti d’accordo, dunque, nel fare presto, “per dare un segnale chiaro e inequivocabile alla speculazione finanziaria”, ma pochi entrano nel merito dei contenuti della manovra correttiva.

In primo luogo, occorre osservare che sono due i provvedimenti che si stanno varando. Il primo è il decreto legge che imposta la finanziaria per il periodo 2011-2014 e intende recuperare 33,3 mld di euro. Il secondo è invece la legge delega fiscale, che richiederà tempi più lunghi e che prevede interventi per 14,7 mld. Tale legge delega è stata modificata nel passaggio dal Senato alla camera. Nel testo presentato a Palazzo Madama, sia nel 2011 che nel 2012, le maggiori entrate producevano un effetto marginale sui saldi, mentre nel biennio successivo la riduzione del deficit operava prevalentemente attraverso il contenimento delle spese: circa il 61% nel 2013 e il 74% nel 2014. Ora dal testo licenziato dalle Camere, nel 2011 all’apporto più significativo delle entrate, cui è affidato circa l’89% della correzione, si unisce una contenuta riduzione della spesa. Nel 2012 l’apporto alla manovra netta è interamente legato alle entrate, a fronte di un aumento delle spesa. Nel biennio successivo, entrambe le componenti contribuiscono al miglioramento dei saldi, anche se resta prevalente l’apporto delle entrate: 54,6% nel 2013 e 60,1% nel 2014.

Complessivamente, la manovra economica ammontava inizialmente a 48 mld. Con le ultime modifiche introdotte alla Camera relative al taglio delle agevolazioni fiscali (del 5% per il 2013 e del 20% a partire dal 2014 che, se non sarà selettivo, finirà per colpire tutti i bonus) l’Erario prevede un recupero di gettito a regime pari a 3,5 mld nel 2013 e a 20 mld nel 2014. L’effetto complessivo della manovra arriva così a quasi 80 miliardi, di cui più della metà concentrati nel solo 2014. L’obiettivo è il quasi-pareggio di bilancio nel 2014 (-0,2%), con un avanzo primario, cioè al netto degli interessi passivi sul debito, del 5,2% del Pil. Tale manovra è distribuita nel tempo in modo asimmetrico e ciò è indicativo delle intenzioni del governo attuale. Infatti, per l’anno in corso, la correzione sarà solo di 2 mld, nel 2012 di 6 mld. Sarà quindi quando l’attuale legislatura sarà terminata che si concentrerà il grosso della manovra: 20 mld nel 2013 e 45 mld nel 2014.

Vediamo ora più in dettaglio i provvedimenti decisi, grazie anche alle elaborazioni di Roberto Romano del servizio studi della Cgil Lombardia. Il decreto legge della Finanziaria impone tagli per 23 mld e dovrebbe consentire maggiori entrate fiscali per 4 mld. Più in particolare, il contenimento della spesa pubblica, senza prendere in considerazione la cd. riduzione dei costi della politica (una sorta di specchietto per le allodole a vantaggio della stampa compiacente e con effetti quantitativi a dir poco risibili), interessa tre capitoli principali di spesa:
minori trasferimenti alla sanità per 5, 45 mld di euro, con l’effetto di intervenire pesantemente sulla qualità del servizio e sulla garanzia dell’universalità dell’accesso. A ciò si aggiunga, l’impossibilità di assunzioni e di far fronte al turn-over e sul lato fiscale all’introduzione di varie forme di ticket sanitari (25 euro per le visite al pronto soccorso con bollino bianco e di 10 euro in su per le visite specialistiche). Complessivamente l’intervento sul fronte della sanità, tra tagli e entrate fiscali, diventa il più corposo di tutta la manovra. Si tratta, di fatto, di favorire uno strisciante processo di privatizzazione della salute a scapito delle fasce di reddito meno abbienti; riduzione dei trasferimenti agli enti locali per 6,4 mld (regioni a statuto ordinario – 1,6 mld, regioni a statuto straordinario – 2 mld, province – 0,8 mld, comuni con più di 5000 abitanti – 2 mld). Tale provvedimento è accompagnato in modo, stavolta non strisciante, dalla raccomandazione di compensare i mancati introiti con la privatizzazione delle imprese municipalizzate adibite alla fornitura dei servizi di pubblica utilità (acqua, energia, trasporti, ecc.), proprio dopo la vittoria del referendum per mantenere pubblica e comune l’erogazione dell’acqua. Gli effetti di tale provvedimento, oramai una costante delle ultime finanziarie (alla faccia del federalismo fiscale), porteranno presumibilmente ad un incremento delle tariffe dei servizi locali, ad una riduzione degli spazi di welfare locale e ad un incremento dell’imposizione locale.

Riduzioni delle spese ministeriali per 5 mld (valore stimato tutto da verificare poi nella concretezza), riduzione delle spese per il pubblico impiego per 740 milioni, in seguito al blocco della contrattazione collettiva e la minor indicizzazione degli assegni previdenziali (per un risparmio pari a 680 milioni), con l’effetto di diminuire il livello delle pensioni, pur se concentrato per i livelli superiore ai 1.400 euro al mese (è il contentino per i sindacati compiacenti).

Relativamente alla legge delega fiscale, che entrerà in vigore solo a partire dal biennio 2013-14, le maggiori entrate fiscali complessivamente ammonteranno a 36,5 mld, con un incremento della pressione fiscale di 2,7 punti (alla faccia della riduzione delle tasse). Esse interessano 3 voci principali:

taglio delle agevolazioni fiscali per 23,5 mld. e delle agevolazioni assistenziali per 5 mld. Dietro tali voci si nascondono l’abolizione di vari bonus fiscali e soprattutto la riduzione degli assegni familiari, ovvero un provvedimento che colpisce il welfare familiare, che, in assenza di un sistema universalistico di reddito minimo, rappresenta in Italia, come è noto, il vero ammortizzatore sociale contro il rischio di povertà. In particolare, viene colpito il lavoro di cura eminentemente femminile con il rischio di accentuare una divisione sessuale del lavoro di novecentesca memoria.
Aumento dell’imposta indiretta (IVA del 10% e del 20%) di un punto percentuale, con una stima di incremento delle entrate di 6 mld. E’ uno dei provvedimenti più iniqui in quanto regressivo sulla distribuzione dei redditi e con l’effetto di un aumento dei prezzi che andrà a penalizzare ulteriormente la dinamica salariale e il mantenimento del potere d’acquisto dei salari, dal momento che con molta probabilità la forbice tra inflazione effettiva e inflazione programmata (che segna il limite massimo di adeguamento dei salari) tenderà ad ampliarsi.
Futura armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie al 20% per introiti dell’ordine dei 2 mld. Al momento è previsto un incremento del bollo sul deposito titoli e l’aumento dell’Irap per banche, in attesa che la legge delega venga apporovata. Si tratta degli unici provvedimenti che si possono sottoscrivere, anche se l’armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie non è detto che riesca a passare per le ovvie opposizioni dei poteri forti interessati. In realtà, si tratterebbe dell’unico intervento strutturale e duraturo, e per di più introduce un elemento di equità di trattamento fiscale in un contesto che vede la tassa sui depositi bancari (la forma di risparmio più comune per chi non possiede grandi redditi) più che doppia rispetto alle tasse sulle rendite finanziarie (interessi sui titoli e plusvalenze). Occorre però ricordare che si tratterà di un provvedimento dovuto, richiesto a livello europeo, per armonizzare l’imposizione fiscale europea e non l’esito di una precisa scelta politica.

Sulla base di tali provvedimenti e dei dati allegati, gli obiettivi del piano di stabilità e del piano nazionale delle riforme (pareggio di bilanci al 2014) possono sulla carta essere conseguiti. Tuttavia, nella relazione tecnica che accompagna la manovra, non vi è traccia delle stime di crescita del Pil e soprattutto degli effetti strutturali depressivi (minor crescita) e sociali (minor servizi) che tale manovra avrà sicuramente sulla dinamica congiunturale, soprattutto nel biennio 2013-14.
Per supplire a tale lacuna (che già basterebbe a definire poco trasparente la manovra correttiva), possiamo far riferimento ai dati previsivi del documento di economia e finanza 2011, approvato dal Parlamento in data 5 maggio 2011 e quindi prima dell’attuale manovra. In tale documento, gli effetti strutturali di un’ipotetica (allora) misura correttiva erano calcolati per il periodo 2012-204 nell’ordine di 0.8% per anno. Si tratta di dati non credibili visto che un intervento correttivo di 20 mld e di oltre 40 mld hanno rispettivamente un impatto recessivo di oltre l’1,4% nel 2013 e 2,7% nel 2014 sulla dinamica del Pil. E’ proprio per questo che all’ultimo momento, nel passaggio dal Senato alla Camera, per la paura che la manovra correttiva non venga valutata positivamente in sede europea, che, in modo del tutto frettoloso, si sono aggiunti i 20 mld di tagli alle agevolazioni fiscali. Come ricordato, si tratta di provvedimenti che devono essere ancora approvati in quanto contenuti nella legge delega e non nel decreto legge approvato il 15 luglio. Ne consegue, che in simili condizioni, nulla assicura che l’obiettivo del pareggio potrà essere conseguito. Ciò che invece appare certo è che si sono reperite le risorse per tranquillizzare i detentori dei titoli pubblici, per il 50% collocato all’estero e per l’80% in possesso delle Sim, dalle banche, dalle assicurazioni, nonché degli stati sovrani oggi leader in Europa (Germania e Francia, in primis).

 

 

 

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