La guerra di Rio de Janeiro: l’offensiva del capitalismo cognitivo

 

di GIUSEPPE COCCO

  1. Il capitalismo cognitivo e il capitalismo mafioso. In un bell’articolo Didier Lebert e Carlo Vercellone[1] affermano correttamente che “capitalismo cognitivo e capitalismo mafioso” sono strettamente legati tra di loro. Nello stesso articolo, troviamo una distinzione tra “capitalismo mafioso” e le “forme tradizionali di criminalità”: mentre queste ultime hanno come obiettivo il “consumo” (M-A-M), il capitalismo mafioso è caratterizzato dalla logica della circolazione del denaro come capitale. Il capitalismo è sempre un po’ mafioso. Le sue diverse modalità (circuito corto del capitale finanziario, circuito lungo del capitale mercantile o del capitale produttivo) nascondono in effetti il carattere strutturale di un capitalismo i cui meccanismi di accumulazione contengono sempre i metodi dell’accumulazione “primitiva”. Il capitalismo in generale è quindi strutturalmente legato al capitalismo mafioso mentre l’economia criminale ne costituisce solo le frange. La forza e l’illegalità mafiose non hanno luogo sul versante della distribuzione, ma nel processo di accumulazione (primitiva). Il capitalismo cognitivo si caratterizza per la sua necessità di attualizzare continuamente l’accumulazione primitiva: l’arbitrio della forza e quello della legge appaiono come le due facce della violenza della stessa moneta. Mentre il capitalismo industriale tenta di costruire la sua legalità “negando” le sue origini “mafiose” (cioè dimenticando e facendo dimenticare la violenza dell’accumulazione “primitiva”, relegandola, appunto, alle “origini”) il capitalismo cognitivo appare sempre come tale: mafioso. Cioè, nel capitalismo cognitivo, l’appropriazione violenta del comune deve essere continuamente rinnovata e non riesce ad apparire come “primitiva”, come un episodio perso in un “passato remoto” che non vale più la pena di ricordare. Noi vorremmo usare il breve saggio di Lebert e Vercellone per, da un lato, analizzare l’evoluzione e le radicali trasformazioni della “guerra di Rio de Janeiro” e, dall’altro, sottoporre in ritorno queste ipotesi alla verifica della dinamica brasiliana.
  2. Un’accumulazione violenta che non è mai riuscita a diventare “primitiva”. Come ricordano Aglietta e Orléan, il capitalismo in generale è direttamente legato alla forza: la moneta contiene sempre una certa dose – originaria e fondatrice – di violenza. Quando osserviamo questo rapporto incestuoso tra violenza e capitale dal Brasile e particolarmente dalla metropoli di Rio de Janeiro, ci sembra possibile affermare che il passaggio da un capitalismo mafioso di tipo industriale (“sviluppista”) ad uno di tipo “cognitivo” si fa dentro una situazione che non è mai riuscita a separare con chiarezza  l’accumulazione mafiosa da quella “puramente” capitalista: cioè, in Brasile non si è mai riusciti a trasformare l’appropriazione coloniale e mafiosa in “accumulazione primitiva”. Come dicevamo, se nel capitalismo cognitivo il meccanismo cronologico (lo sviluppo) che rende remota e limitata la violenza del capitalismo (industriale) non funziona più, in Brasile esso non ha mai funzionato: lo sviluppo non è mai riuscito a redimere il peccato originale dell’accumulazione primitiva. Per questo, possiamo dire che questa trasformazione appare chiaramente nella periferia del mondo, cioè laddove il rapporto tra accumulazione primitiva e accumulazione industriale non si è mai organizzato nel tempo cronologico dello sviluppo (capitalistico). Cioè, quando cambiamo di prospettiva e passiamo dal Centro (il Nord del mondo industrializzato e poi cognitivo) alla Periferia (il Sud che diventa cognitivo senza essere mai stato completamente industrializzato) l’analisi del capitalismo cognitivo e delle sue dimensioni mafiose cambia. In primo luogo perché la novità non sta più solo nel rapporto tra capitalismo mafioso e capitalismo cognitivo, ma nelle dimensioni temporali di questa relazione: essa non è più declinata al passato, ma al futuro. Il capitalismo mafioso si rinnova oggi attraverso la modernizzazione e non più per mezzo del mantenimento dell’arcaico. In secondo luogo, cambia perché la dinamica di questo dislocamento non è quella della “déconnexion” ma quella dell’inclusione generalizzata e, questa sì, “forzosa”. È di una vera e propria nuova frontiera che stiamo parlando. La “guerra di Rio” e le sue trasformazioni (le sue “battaglie” più recenti) indicano un processo di “connexion”, anche se questa “inclusione” è di nuovo tipo: non più per mezzo dell’omogeneizzazione industriale, ma della infinita modulazione dei frammenti eterogenei nella circolazione produttiva che trova nelle metropoli il suo spazio privilegiato. Un inciso: quando parliamo di guerra non stiamo radicalizzando simbolicamente una situazione di violenza civile, ma parlando di una dura realtà. Per parlare solo di Rio de Janeiro, secondo dati ufficiali e nonostante una forte diminuzione, il numero di omicidi (tra aprile 2009 e aprile 2010) è stato di 3.615 (nel periodo anteriore, 4.252). Si tratta di uno dei tassi di omicidio più alti del mondo. Circa un terzo di queste morti è direttamente legato alle forze di polizia: nel 2009, le varie polizie dello Stato di Rio de Janeiro, hanno ucciso 1.040 persone, cioè la polizia di Rio ammazza circa 3 persone al giorno![2]
  3. La battaglia “do Alemão. Un episodio recentissimo ci può dare un’idea non della violenza (che non è la novità) ma dell’accelerazione dei cambiamenti che attraversano la “guerra di Rio de Janeiro”.[3] Il 25 novembre 2010[4], circa 600 uomini delle polizie dello Stato di Rio, appoggiati da 6 carri blindati delle truppe da sbarco della Marina, invadono la favela Vila Cruzeiro, nella zona nord di Rio (a un “tiro di schioppo” – é proprio il caso di dirlo – dallo stadio di calcio del Maracanã e di una delle più importanti università di Rio, la UERJ), di un po’ meno di 20.000 abitanti. In diretta, le televisioni mostrano la fuga disperata di circa 200 giovani narco-trafficanti (scalzi, in bermuda e a torso nudo, disorganizzati e armati con fucili mitragliatori), lungo una strada di terra che li porta a un insieme di 20 favela conosciuto come Complexo do Alemão, dall’altra parte della collina, dove abitano circa 100.000 persone. Il 28 novembre, dopo due giorni di assedio, un contingente di 2.800 uomini (tra polizia, esercito e marina), appoggiato da 27 mezzi blindati e 6 elicotteri, sferra l’attacco al “Complexo do Alemão” dove le stime di polizia e le immagini della stampa indicano la presenza di circa 600 narco-trafficanti armati e fortificati. Questa volta, gli elicotteri della televisione non hanno il permesso di volo. Poche ore dopo l’attacco, le forze di “liberazione” issano la bandiera  nazionale dentro il Complexo a simboleggiare la “vittoria” come (ri)conquista di un territorio. Un’antropologa commenta: “Issare la bandiera nazionale in cima alla collina (della Favela) simbolizza la riconquista per la nazione di questo vasto spazio”[5]. La stampa parla di occupazione incruenta: “Al contrario di quel che si temeva, il bagno di sangue non ha avuto luogo”[6]. Il numero di morti resta indeterminato (alcune stime parlano di 50 decessi) [7]. Se contiamo gli arresti e le eventuali fughe (molte grazie alla corruzione) sono più di 400 giovani narco-trafficanti che mancano all’appello: dileguati tra le dita di tutto quell’apparato di polizia ed esercito. Il giornalista Plinio Fraga, della Folha de São Paulo, scrive: “(Nonostante molti trafficanti) siano fuggiti, i racconti su quelli che sono morti senza che i corpi siano apparsi si ripetono” e trascrive il racconto di Celso de Sousa Campos, detto Binha, leader della favela: “Una madre mi ha raccontato che è andata a raccogliere il corpo del figlio nel bosco e ha visto altri due corpi che i maiali stavano divorando”.[8]
  4. Le nuove battaglie della guerra di Rio. La “battaglia dell’Alemão” è un episodio (e solo uno tra i molti che hanno già avuto luogo, anche durante l’occupazione, e che si annunciano!) del processo di trasformazione della “guerra di Rio de Janeiro” nel corso degli ultimi 10 o 15 anni. Una trasformazione e accelerazione indotta e drammatizzata dall’agenda di “mega-eventi” che il prestigio internazionale del governo Lula ha “regalato” alla città di Rio: le Olimpiadi Militari (nel 2011), il vertice globale sul clima (Rio + 20) nel 2012, la finale del Mondiale di calcio (nel 2014) e infine le Olimpiadi nel 2016. Le battaglie in corso indicano una trasformazione del rapporto tra violenza e capitalismo. Nella misura in cui la visibilità totale del rapporto che lega il capitale all’accumulazione “primitiva” non costituisce nessuna novità in Brasile (e ancor meno a Rio) le “nuove battaglie” sono il teatro di un’altra trasformazione. Mentre la prospettiva tradizionale era quella di riuscire a trasformare l’accumulazione primitiva (cioè consolidarla come un evento remoto e dimenticato e spalmarla nei processi moderni di accumulazione industriale) in una lotta della legalità (sviluppo) contro l’illegalità (sottosviluppo) oggi questa lotta diventa l’orizzonte permanente di una guerra che oppone due forme – specifiche ma speculari – di capitalismo cognitivo per il controllo dei processi di mobilitazione produttiva dei territori e delle dinamiche di “inclusione” che la caratterizzano. In questo conflitto, è la distinzione tra “cognitivo” e “mafioso” che scompare, così come scompaiono le linee (che in Brasile sono sempre state molto labili) di separazione tra polizia ed esercito, tra dentro e fuori, tra Stato di diritto e Stato di eccezione.[9] Le battaglie attuali oppongono la permanente mafiosità del capitalismo brasiliano a un’accumulazione cognitiva che, anch’essa, funziona per mezzo dell’appropriazione mafiosa del comune prodotto dalla moltitudine dei poveri nella metropoli. In Brasile, accumulazione capitalista e accumulazione mafiosa si mescolano, tra emergenza della mafiosità del capitale cognitivo e l’evoluzione cognitiva del capitalismo mafioso: il territorio da conquistare è quello che la sociologia elettorale del “periodo Lula” chiama “classe C” (la “nuova” classe media) ed è in realtà costituita dalla moltitudine dei poveri mobilitati, democraticamente e produttivamente, durante il governo Lula.
  5. Periodizzazione: le tre grandi guerre di Rio. Con una certa dose di semplificazione e schematismo, possiamo dividere il rapporto tra capitalismo e criminalità così come tra capitalismo mafioso e mafiosità del capitalismo nel Brasile del secondo dopoguerra (tenendo la città di Rio de Janeiro come riferimento) in tre grandi periodi, tutti caratterizzati dalla presenza sempre attualizzata del rapporto tra accumulazione primitiva e altre forme di accumulazione:
    1. La prima fase va dagli anni ’50 ai ’70. Il capitalismo “mafioso” si rinnova legandosi all’emergenza di un capitalismo fondiario e immobiliare urbano ibridato con le tradizionali forme mafiose oriunde dal latifondo schiavistico (il “coronelismo” dei romanzi di Jorge Amado).
    2. Il secondo periodo, è quello che si afferma negli anni ’80: alle attività mafiose tradizionali si sovrappongono quelle di un narcotraffico che – militarizzandosi – svilupperà le sue attività di dettaglio arruolando i giovani poveri e occupando come punti di vendita i territori delle favelas.
    3. Il terzo periodo è quello che comincia negli anni ’90, con la stabilizzazione neoliberale, l’inserimento brasiliano nella globalizzazione e l’onda di privatizzazioni. Il controllo del territorio cambia di valenza economica ed emerge una nuova forma di capitalismo mafioso, legata al fenomeno delle “milizie” cognitive.
  6. Primo periodo: l’accumulazione primitiva dal campo alla città. Come dicevamo, l’esodo rurale trasferisce – tra gli anni ’50 e ’70 – la violenza dei rapporti sociali neo-schiavistici dalla campagna alle città. Allo stesso tempo, la violenza si è trasformata: dal conflitto agrario sulla proprietà della terra (che attualizzava – e continua a farlo – le dimensioni coloniali di un’accumulazione primitiva continuamente rinnovata e modernizzata) si è passati alla violenza dell’accumulazione fondiaria come principale vettore dell’espansione metropolitana delle città. Il capitalismo dei rentiers si è organizzato ed espanso a partire da giganteschi e caotici processi di appropriazione privata di suolo pubblico basati sulla più assoluta promiscuità tra  potere pubblico e capitale immobiliare. Il latifondo passa dalla campagna alla città e rinnova l’accumulazione primitiva. La frontiera tra arcaico e moderno, legale e illegale, moneta e violenza non si afferma mai. Il modello arcaico di sovranità (il potere di “far morire e lasciar vivere”) e quello industriale della disciplina dei corpi, come diceva Foucault, si sovrappongono senza sostituirsi e formano un ibrido nel quale il moderno non domina l’arcaico e anticipa il postmoderno. Il mix di legalità e illegalità è costitutivo di una moneta che si mantiene sporca di sangue. L’accumulazione primitiva è continuamente attualizzata. Quelle dimensioni “arcaiche” e neo-schiavistiche che lo sviluppo economico doveva spingere sulle sue “frange” sociali e politiche si trasferiscono invece, massicciamente verso le città, cioè verso un “centro” che allo stesso tempo si periferizza. Dislocandosi dalle campagne alle città, l’accumulazione primitiva si modernizza ma continua il suo corso: legale e illegale, formale e informale. Contratto e guerra formano una solida e fedele coppia. Nella misura in cui il contratto sociale appare come legge interna ad ogni società, sia nella sua forma legittima o illegittima, Althusser si chiedeva: “Come mai una forma illegittima (quella normale) si ricostruisce in forma legittima?”[10]. Non per caso Althusser sviluppa queste riflessioni attraverso una revisione della teoria marxiana dell’accumulazione primitiva e afferma che “gli incontri aleatori” tra l’uomo del denaro e i proletari “non si limitano al XIV secolo inglese”. L’accumulazione primitiva ha luogo tutti i giorni e “non solo nei paesi del terzo mondo che ne sono l’esempio più eclatante”. Per Althusser, si tratta di un “processo costante che inscrive l’aleatorio nel cuore della sopravvivenza e del rafforzamento del ‘modo di produzione’ capitalista” (ibid. 587). In Brasile, la mobilitazione delle masse (l’esodo rurale) e la loro inclusione nel rapporto salariale non hanno coinciso. Come diceva Althusser, la “produzione del proletariato” non coincide necessariamente con la sua “riproduzione allargata da parte del capitalismo industriale“ (ibid.). La rivoluzione può essere delle masse e non necessariamente funzione borghese dell’accumulazione industriale. L’esodo rurale in Brasile è una linea di fuga, di costituzione autonoma, biopolitica, dei poveri. Solo attraverso la sua ibridazione, il blocco del biopotere è riuscito a controllarla. La gestione mafiosa del territorio, passando dal latifondo agrario alla speculazione fondiaria urbana, si è così mantenuta saldamente nelle mani dell’apparato repressivo dello Stato e nel suo funzionamento per mezzo di “subappalti” di tipo neoschiavistico: la polizia continua a operare secondo i modi del “cacciatore” di schiavi fuggiaschi, il “capitão do mato”.[11] Infine, trasversalmente alle dinamiche della accumulazione immobiliare, in questo periodo, la struttura di controllo territoriale di tipo mafioso si organizza anche attorno al gioco illegale di scommesse conosciuto come Jogo do Bicho. I vari clan (i “banchieri” del “Bicho”) si spartiscono il territorio metropolitano e a volte entrano in conflitto tra di loro in funzione di tentativi egemonici o di “vuoti di potere” aperti da fasi di successione.  In questo caso, la corruzione è “classica”, diretta ai “notabili”, siano essi interni all’apparato dello Stato o no. In questa fase, l’economia illegale (e criminale) si sviluppa sui margini della società (i poveri) e della città (nell’appropriazione e controllo violento della sua espansione fondiaria). La struttura territoriale e mafiosa dei “clan” del “Jogo do Bicho” appare esplicitamente nel rapporto di “beneficienza” e controllo che stabiliscono con il Carnevale. Da un lato il Carnevale è ufficializzato e organizzato sullo stile di un campionato di calcio, dall’altro, la sfilata delle scuole di Samba, diventa il momento in cui – ancora oggi – lo Stato e i Clan del “Bicho” vanno letteralmente a braccetto nel Sambodromo.
  7. Secondo momento: l’accumulazione primitiva verso una nuova frontiera biopolitica. Negli anni ’80, l’esodo rurale ha già avuto luogo, l’economia è entrata in stagnazione e le rendite costruite sull’espansione urbana hanno esaurito la loro dinamica, ma l’accumulazione primitiva non si stabilizza e parte in direzione a una nuova frontiera, biopolitica. L’esclusione delle grandi masse di poveri (che abitano le favelas e i “lotti” informali e illegali delle periferie) perde l’orizzonte dell’inclusione (che la crescita doveva fornire attraverso l’inserimento nel rapporto salariale). La pressione sociale è gigantesca. È il periodo dei grandi scioperi dell’ABC paulista, delle sommosse nel centro di Rio, dei saccheggi dei supermercati. Ecco che comincia a crescere e svilupparsi la vendita al dettaglio di droghe: sarà il terreno di riorganizzazione del blocco del biopotere. I suoi meccanismi iniziali sono tre: (i) facile accesso all’ingrosso (grandi quantità di droghe in transito: provenienti dall’America andina, in direzione a Europa e Stati Uniti); (ii) serbatoio infinito di mano d’opera giovanile (esclusa) di facile reclutamento per l’organizzazione della vendita al dettaglio; (iii) trasformazione delle favelas in “punti di vendita” presidiati militarmente. Su questi tre meccanismi, se ne innestano altri tre: (a) i punti di vendita al dettaglio passano per un processo di concentrazione che porta alla costituzione di grandi organizzazioni del narcotraffico (Comandos) che si spartiscono (e così ne striano lo spazio) la città, in modo negoziale o per mezzo di vere e proprie operazioni di guerra[12]; (b) i ricavi delle vendite di droga si articolano – in funzione della centralità dei punti di vendita (il controllo di un determinato territorio: una o più favelas) – direttamente con il traffico di armi sempre più pesanti e numerose; (c) la polizia (con i suoi due corpi di repressione a livello dello stato federato -  Polícia Militar e Polícia Civil – che agiscono in piena libertà, cioè con pieni diritti sulla vita e le proprietà dei poveri: la polizia di Rio “ammazza”  ufficialmente poco meno di 3 persone al giorno) controlla il narco-traffico da fuori, ma allo stesso tempo ne determina il ritmo e la diversificazione delle attività. Assistiamo quindi a un processo di deterritorializzazione e riterritorializzazione del narco-traffico lungo quattro grandi piani: (I) le necessità di accumulazione iniziale di capitale che permettano l’acquisto di grandi quantità di droghe articolano attività di sequestri, rapine e di occupazione di punti di vendita dei Comandos “concorrenti”; (II) la pressione determinata dal prelievo da parte della Polizia (pressione che ha luogo con base in sequestri, omicidi, invasioni) di parte consistente dei ricavi del punto di vendita (“Boca de fumo”) implica ancora una volta la diversificazione delle attività illegali e criminali (sequestri, rapine, furti ecc.) fuori dal punto di vendita; (III) il traffico di armi pesanti, alimentato dalla corruzione della Polizia, sia come fonte di lucro, sia per interesse diretto o indiretto di appoggiare un Comando contro un altro o di renderne possibile le attività criminali più generali; (IV) lo sviluppo progressivo del consumo di droghe da parte della popolazione povera della favela finisce per determinare la moltiplicazione di attività criminali disorganizzate (ma connesse) destinate a garantire la solvibilità dei consumatori poveri (sapendo che il debito insolvente costa la vita). In questa fase, il capitalismo mafioso si articola dentro il ciclo lungo dell’economia criminale: da un lato, il narco-traffico internazionale all’ingrosso e i differenti apparati repressivi dello Stato; dall’altro la vendita al dettaglio appaltata ai poveri: il ciclo è D-Droghe-D¢ -Armi-D¢¢.
  8. Il narco-traffico fordista senza fordismo. La nostra tesi è che il periodo del narco-traffico al dettaglio (quello che si sta esaurendo sotto i nostri occhi, tra una battaglia e l’altra di un nuovo tipo di guerra) a Rio de Janeiro è stato di tipo fordista. Per dirla meglio, si è trattato dell’espressione di un rapporto al territorio di tipo fordista, però senza fordismo. Chiaro, si è trattato di un fordismo inesistente, ma pur sempre di un fordismo che funzionava per la sua stessa assenza. Da un lato, la diffusione capillare del narco-traffico in quasi tutte le favelas ha permesso al blocco del biopotere l’esercizio di un potere sovrano di tipo arcaico, un potere di morte sulla vita dei poveri che ha funzionato (e ancora funziona) come una terribile macchina di regolazione biopolitica che trasforma i giovani poveri di colore in Homo Sacer: uccidibili ma non sacrificabili (come ricordava Pasolini). Dall’altro, il narco-traffico, pur non si costituendo mai in un contropotere ma a causa delle caratteristiche stanziali della sua attività nelle favelas, ha partecipato – anche se molto indirettamente – alle forme (minimali ma importanti) di welfare che i poveri hanno conquistato negli anni ’80: in alcuni casi i primi governi democratici facevano arrivare nelle vicinanze l’acqua e l’elettricità (e qualche cabina telefonica) e gli abitanti si allacciavano in modo precario, per proprio conto, ma gratuitamente o a prezzi stracciati: “grazie al comando del crimine la maggioranza non pagava luce, acqua o tasse sugli immobili”[13]. Indipendentemente dai suoi obiettivi, i punti di vendita al dettaglio del narcotraffico hanno finito per funzionare come surrogato del potere “statale” che garantiva alcuni servizi basici di tipo fordista (in assenza del fordismo!). Allo stesso modo, i pochi investimenti sociali realizzati in favela – molte volte con obiettivi di controllo mafioso del processo elettorale – sempre hanno dovuto negoziare con il narcotraffico nelle favela. La dimensione fordista senza fordismo del narcotraffico è apparsa en creux negli anni ’90, nel corso delle grandi operazioni di privatizzazioni, in particolare dei servizi pubblici. Il capitalismo postfordista e cognitivo si lanciava all’assalto dei territori: telefonia, TV a cavo, elettricità, autostrade (comprese quelle metropolitane) erano privatizzate. Ma i concessionari privati dei servizi pubblici – come per esempio la distribuzione dell’elettricità da parte della statale francese EDF – non sono riescono a “fare pagare” gli allacci informali e illegali nelle favela. Questa incapacità conferma per difetto che il presidio militare dei “punti di vendita” al dettaglio da parte dei Comandos del narcotraffico permette il funzionamento, sui generis e indiretto, di un welfare senza welfare. Fino alla transizione – apertura democratica e crisi – degli anni ’80 questo “welfare” faceva le veci del welfare che mancava e si sviluppava ambiguamente sulle frange massificate di un’esclusione sociale priva di ogni prospettiva di mobilitazione (inclusione) dentro il rapporto salariale (a causa della crisi della crescita e dello stesso paradigma industriale).
  9. Il capitalismo cognitivo e l’inclusione dei poveri come poveri. Come abbiamo detto, negli anni ’90, la stabilizzazione monetaria e l’inserimento nella globalizzazione annunciano un dislocamento del quale le privatizzazioni dei servizi sono un asse strategico di “inclusione” dei poveri come poveri, in direzione a una mobilitazione produttiva che ha luogo direttamente sui territori metropolitani. L’accumulazione “cognitiva” ha bisogno di controllare le reti tecniche e sociali. Il caso della telefonia è emblematico. Fino alla metà dei ’90, in funzione dell’estrema disuguaglianza dello sviluppo e della sua crisi (con il virtuale fallimento dello Stato negli anni ‘80), la telefonia fissa era un’infrastruttura produttiva (presente nella grande industria statale o multinazionale: dentro le fabbriche e nelle case degli strati sociali implicati nelle attività intellettuali o comunque di direzione o di servizio) o un bene di lusso per l’elite. Senza piani di espansione adeguati (a causa della prolungata crisi fiscale dello Stato e della stagnazione economica) delle linee, la telefonia fissa era regolata da un mercato parallelo particolarmente perverso: (fino al 1997) una linea telefonica costava come un PC nei quartieri “ricchi” e molto di più nei quartieri poveri. Esisteva un intero settore di piccole aziende (formali o informali) che vivevano con l’affitto di linee telefoniche: una decina di linee era sufficiente a generare un reddito sufficiente a mantenersi nella fascia di reddito della “classe media”. Quando la telefonia viene privatizzata, diventa mobile e si democratizza: tutti – ogni frammento sociale – hanno accesso, senza dover prima passare per un processo de omogeneizzazione sociale (per esempio via inserimento nel rapporto salariale). La rete coinvolge tutti, indipendentemente dall’eterogeneità sociale che li caratterizza: ricchi e poveri, lavoratori formali e informali, abitanti dei quartieri ricchi e delle favela, del centro e della periferia, poliziotti e narcotrafficanti. Tutti inclusi, con il telefonino in tasca. Ora, sappiamo che questo movimento modula, nel senso che produce e riproduce, la frammentazione sociale: tutti hanno il telefono, ma non tutti possono pagarne l’uso; tutti possono virtualmente comunicare, ma le condizioni di mobilità reale nella metropoli sono profondamente disuguali. La disuguaglianza e l’esclusione non sono eliminati, ma modulati, nel dislocamento generale dello stesso processo di accumulazione.

10. Le “milizie cognitive” e la “guerra di Rio”. Alle privatizzazioni segue la creazione delle Agenzie di Regolazione. Il mercato non può – da solo – decidere il valore delle tariffe, poiché quel che le tariffe telefoniche quantificano è per definizione incommensurabile: la cooperazione sociale stessa.  In realtà, le tariffe sono politiche e funzionano come una tassa. Il passaggio al capitalismo cognitivo implica la privatizzazione non solo e non tanto delle imprese ma delle miniere di valore che la cooperazione sociale produce: l’ideologia del neo-liberismo contiene una ridefinizione del politico come terreno di appropriazione – nuovamente primitiva – del comune (la metropoli e le sue reti) che produce cooperazione sociale ed è prodotto da questa, in spirale. È qui che incontriamo allo stesso tempo la dimensione statale della mafiosità del capitale e la dimensione mafiosa del capitalismo come forme specifiche del capitalismo cognitivo. È quel che vediamo nella trasformazione della “guerra di Rio de Janeiro”: proprio negli anni ’90 si afferma come nuovo modello di capitalismo mafioso il fenomeno che la stampa locale definisce come “milícias”.  Le “milizie” sono composte di poliziotti e altri membri di corpi dello Stato. Questa composizione delle “milizie” è pubblicamente riconosciuta dai vertici della polizia e dello Stato. In un’intervista al canale di TV CNT il 2 gennaio 2011, il capo della Polizia Militare di Rio ha dichiarato: “Il narco-traffico è lo strato inferiore del proletariato, invece le milizie sono lo strato inferiore dello Stato”. Ora, è importante notare che le “milizie” (che controllano territori sempre più vasti e che non si limitano alle “favelas” ma coinvolgono interi quartieri, compresi quelli dei “ricchi”) hanno un modus operandi completamente differente dai “commandos” del narcotraffico. Nel territorio delle “milizie”, la prima fonte di remunerazione dell’attività mafiosa è la sicurezza, cioè la pace della “paura”: il narcotraffico è espulso e la “milizia” esercita la sua “giustizia”. Gli abitanti di un determinato territorio pagano una tassa in cambio della “protezione” (quando non direttamente, la pagano via i commercianti locali o le “agenzie immobiliari” che gestiscono i palazzi e/o gated cities). La prima dimensione delle “milizie” è proprio quella della gestione esplicita (anche se non formale) dell’appalto che il blocco del biopotere gli ha fatto per regolare i “poveri”. In seguito, la milizia “completa” il suo essere Stato passando a fondare il suo funzionamento sul raccoglimento delle imposte. Il diritto sulla vita dei poveri si trasforma nel primo meccanismo costitutivo (è chiaro che chi si rifiuta di pagare deve fare i conti con questa realtà, così come le attività illegali “disorganizzate”: le infrazioni come furti, traffico di stupefacenti e anche non pagamento dei biglietti di autobus sono puniti con la morte). Su questa base interviene una vera e propria innovazione. Le milizie non si limitano ad assumere esplicitamente la sua figura “statale”, ma anche quella (di “rentiers”) tipica del capitalismo cognitivo, controllando tutta la circolazione produttiva dei loro territori: la distribuzione clandestina della TV a cavo, la circolazione dei micro-autobus informali (o formali), la distribuzione delle bombole del gas, gli allacci clandestini all’elettricità, la produzione e vendita dei DVD “pirata” e infine una qualche “articolazione” con le attività più moderne del Jogo do Bicho, cioè le reti delle case di giochi illegali (con le slot machines). In certi casi, gestiscono anche il narcotraffico, eventualmente “affittando” determinati punti di vendita a un “comando” o a un altro del narcotraffico. Vediamo la descrizione del funzionamento delle milizie attraverso alcuni episodi di repressione delle loro attività: in agosto del 2010, la Polizia Federale realizza una retata. Dei 12 miliziani arrestati, 4 sono poliziotti. Per mezzo di 7 aziende, gestiscono la distribuzione di internet e TV a cavo in vari quartieri[14].  In giugno del 2010, sempre la Polizia Federale, chiude una centrale di distribuzione clandestina di TV a cavo che aveva 30.000 abbonati (che pagavano da R$30 a 50 mensili, con un giro d’affari mensile de 1 milione di Reais): tra i cinque arrestati, uno è un poliziotto e un altro un ex-agente penitenziario[15]. Infine, il controllo politico del territorio da parte delle milizie si traduce in molti casi nella capacità di partecipare al gioco della rappresentanza politica, eleggendo i suoi rappresentati a livello locale.

11. Il doppio ruolo delle milizie. Le “milizie” giocano un doppio ruolo: da un lato, rendono chiara e trasparente la dimensione mafiosa del capitalismo cognitivo nel suo insieme; dall’altro – in funzione del loro rapporto con la “vecchia” accumulazione primitiva – costituiscono una “minaccia” (cioè una concorrenza) al capitalismo cognitivo (cioè alla “nuova” accumulazione primitiva, che, grazie alle privatizzazioni, già controlla queste attività). Nei due casi, abbiamo a che fare con le dimensioni mafiose (parassitarie) del capitalismo cognitivo e cioè con la dimensione statale (politica) della mafiosità e con la dimensione mafiosa del regime di accumulazione cognitivo: l’accumulazione primitiva non si stabilizza mai e appare sempre declinata al presente indicativo. La tariffa di uso del telefonino, del pedaggio di una strada metropolitana privatizzata o del biglietto di un autobus è politica tanto quanto le tasse “imposte” dalle “milizie” in cambio della pace (che esse stesse minacciano!). La “pirateria” (cioè le “milizie”, i DVD pirata ecc.) appare chiaramente come l’altra faccia della privatizzazione: si tratta dello stesso meccanismo di accumulazione primitiva, basato sulla forza dispotica dello Stato e sulla legge dispotica della forza. Quando lo Stato, com’è il caso del Brasile e di Rio de Janeiro, funziona apertamente subappaltando l’uso della forza al suo stesso apparato di repressione (che ha il diritto di vita e di morte sulla popolazione dei poveri), il capitalismo cognitivo ci mostra altrettanto apertamente la sua dimensione mafiosa, cioè parassitaria, “rentière”. Il capitalismo cognitivo delle milizie di Rio non è differente da quello delle milizie di “Black Water”. Solo che in Brasile non c’è bisogno di uscire dalle frontiere per trovare l’Iraq o l’Afganistan. Ci basta circolare per le periferie e le favelas di Rio de Janeiro. L’Impero come “non luogo senza fuori” – come dicevano Negri e Hardt – incontra in Brasile un formidabile e tremendo terreno di anticipazione e radicalizzazione: le operazioni di polizia sono da sempre operazioni di guerra e quelle dell’esercito operazioni di polizia.

12. Le battaglie di Rio e il tumulto di Piazza del Popolo. Perché allora la “guerra di Rio” è attraversata da battaglie di tipo nuovo? Qual è la vera posta in gioco tra i contendenti, dietro gli effetti retorici? Le due configurazioni mafiose del capitalismo cognitivo, le “milizie” e le concessionarie private dei servizi pubblici stanno guerreggiando per la conquista dei territori della povertà, cioè per il controllo dei processi d’inclusione (e non di esclusione, ancora meno di “déconnexion”) che caratterizzano il capitalismo cognitivo e la sua formidabile espansione negli otto anni dei due mandati del Presidente Lula. Questa è la grande novità: mentre negli anni ’90 i poveri erano inclusi dalle privatizzazioni (cioè dalle “milizie” – il loro debole potere d’acquisto non li rendeva appetibili ai rentiers del capitalismo cognitivo), col governo Lula l’inclusione ha incontrato una nuova base. Le politiche sociali di distribuzione del reddito, di accesso dei poveri all’università, di urbanizzazione delle favelas, di valorizzazione del salario minimo, creazione di posti di lavoro che hanno rivoluzionato il Brasile negli ultimi 8 anni finiscono per spiazzare la specializzazione competitiva che si era stabilita tra capitalismo cognitivo mafioso, da una parte, e mafia capitalista e cognitiva dall’altra. A Rio, l’agenda dei mega-eventi (Mondiale di calcio, Olimpiadi ecc.) drammatizza e accelera il passaggio: il primo a farne le “spese” é il narcotraffico nella sua versione fordista senza fordismo, del presidio militare del territorio: “(…) stiamo colpendo il centro nervoso del traffico: la sua economia” dichiara un dirigente della Polizia di Rio[16]. Le battaglie attuali non hanno nulla a che fare con lo smantellamento del traffico. Si tratta invece di disarmarlo per impedire che continui a dominare stanzialmente determinati territori: un’operazione condotta dallo Stato (Forze Armate e Forze di Polizia insieme) e dalle Milizie. Il territorio è riconosciuto come circolazione produttiva e la città diventa un’azienda: non più una città globale per attirare gli investimenti multinazionali, ma una città-azienda le cui fabbriche sono le università, i musei, gli stadi, le spiagge e… i quartieri e le favelas. Prima della polizia e dell’esercito, sono gli investimenti del governo federale che sono arrivati, i primi elementi di una nuova politica di sicurezza (con le Unità della Polizia Pacificatrice – UPP) e il capitalismo cognitivo, a bordo della legittimità fornita da campagne pubblicitarie interpretate da leader dei movimenti culturali e grandi ONG. Non è solo una coincidenza quella del 30 novembre 2010, quando, subito dopo l’occupazione del Complexo do Alemão, l’agenzia Moody’s attribuisce un nuovo e più elevato Investiment Grade alla città di Rio de Janeiro[17].  Sei mesi prima dell’invasione militare dell’insieme dell’Alemão, il Banco Santander vi ha aperto la prima agenzia bancaria: sono 10.000 usuari al mese e 2.000 nuovi correntisti in appena 6 mesi! Una vera e propria frontiera! Ricardo Henriques, “ministro” locale dell’Assistenza Sociale, dichiara due mesi prima dell’occupazione: “(le nostre analisi) hanno mostrato che esistono –nell’Alemão -  circa 7.000 ditte commerciali, 90% delle quali informali”[18]. Dopo l’invasione, la frontiera si allarga: la Sky TV, in soli tre giorni, ha venduto 300 abbonamenti al prezzo di R$ 49,90 al mese (prima l’allaccio illegale costava R$ 30). Una venditrice dichiarava ad un quotidiano: “Il narcotraffico ci ha aiutato con la TV a cavo clandestina, adesso gli abitanti non vogliono più solo la TV aperta”[19]. È una vera e propria corsa all’accumulazione della frontiera creata dalla mobilitazione dei poveri da parte del governo Lula, con le sue politiche di distribuzioni di reddito. Ricardo Henriques, spiegando li progetto sociale dello Stato di Rio, diceva: “formalizzare è fondamentale, ma abbiamo bisogno di regole di transizione”. La transizione è proprio quella del passaggio da un’accumulazione primitiva all’altra, dove la difficoltà sta non solo nella resistenza del narcotraffico ma soprattutto nella resistenza biopolitica dei poveri. Il “Ministro” dell’assistenza sociale dello Stato di Rio è chiaro: da un lato, spiega che si sta “(…) discutendo un’offerta di luce con tariffe sussidiate (cioè con “tariffa popolare”), per mezzo della quale tutti quanti diventino solventi”; dall’altro, egli sottolinea la difficoltà: “siccome c’era il gato (allaccio clandestino) la percezione è che i valori, nonostante siano sussidiati (ridotti), sono troppo alti” (ibid.). La vera battaglia, come dicevamo, è quella che ha luogo sulla frontiera dell’accumulazione primitiva aperta dalle politiche di distribuzione di reddito. Da un lato, esse sono il terreno del riconoscimento (embrionario) della dimensione biopolitica delle lotte metropolitane della moltitudine dei poveri. Dall’altra, esse sono lo strumento di un’espansione capitalista che vuole “ridurre” i poveri a classe media di consumatori ai quali non si riconoscerà le qualità produttive se non quando esse appaiono nelle forme, precarie e flessibili, del lavoro salariato. Scambiando i punti di vista e quindi le prospettive dal Nord al Sud e dal Sud al Nord, possiamo vedere che la battaglia del Complexo do Alemão è solo un episodio de una guerra globale, nella quale incontriamo anche il grande tumulto del 14 dicembre in Piazza del Popolo a Roma. Da un lato, le nuove e vecchie forme dell’accumulazione primitiva dominate dalla crisi e dall’espansione del capitalismo cognitivo. Dall’altro la moltitudine che lotta e produce. Al Nord, le classi “medie” si scoprono proletarie: non smettono di essere attraversate dalla lunga crisi che ne segna la scomparsa come zona intermediaria della gerarchia sociale e l’affermazione come nuovo proletariato del lavoro immateriale, nelle università e “in Fiat”. Al Sud, le “classi medie” emergenti sembrano disegnare una nuova frontiera per il capitalismo cognitivo e allo stesso tempo indicano il piano di una possibile ricomposizione della nuova composizione di classe: la moltitudine dei poveri.

Rio de Janeiro, gennaio 2011


[1] Quels rapports établissez-vous entre capitalisme cognitif e capitalisme mafieux?

[2] Per avere un’idea del peso relativo di questi numeri, si pensi che, nel 2007, la polizia di Rio ha ammazzato 1.330 persone, quella di Los Angeles (USA) solo 5!

[3] La violenza civile e poliziesca in Brasile non è un fenomeno limitato a Rio de Janeiro. Anzi, ci sono città statisticamente più violente. Ma, la violenza a Rio è emblematica, così come sono paradigmatiche le trasformazioni che l’attraversano.

[4] Secondo le dichiarazioni ufficiali, si è trattato di una risposta  a un’onda di attentati (macchine e autobus bruciati) orchestrati dai capi di una delle fazioni del narcotraffico.

[5] Alba Zaluar, “Festejar sim, depois”, O Globo – Caderno Especial A Guerra do Rio, 29 novembre 2010, p. 16.

[6] “A Senhora Liberdade abriu as Asas”, O Globo – Caderno Especial A Guerra do Rio, cit., p.1.

[7] Folha de São Paulo, 30 novembre 2010, p. C5.

[8] Plínio, Fraga, “Tudo isto é Complexo”, Folha de São Paulo, 1 dicembre 2010, p. C4.

[9] A Rio de Janeiro si produce una trasparenza incredibile della nuova condizione “imperiale”. Nel principale giornale locale (il secondo a livello nazionale) si può leggere: “I poteri pubblici hanno mostrato una strategia militare che consiste nella progressione graduale e sicura sul territorio, simile a quella usata dalle truppe alleate quando occuparono la Normandia durante la Seconda Guerra”, O Globo, Caderno Especial A Guerra do Rio, cit.. Wikileaks ha mostrato che, più sobriamente, il Console Generale degli Stati Uniti, Hearne, a Rio de Janeiro sviluppava già il 30 aprile 2009, un anno prima della battaglia del Alemão, analisi dello stesso tipo: “Alcune delle caratteristiche del programma di pacificazione delle Favelas – scrive Hearne – si avvicinano a dottrina e strategia di controguerriglia condotta in Afganistan e in Iraq dagli US.  Il successo dipenderà (…) dalla percezione da parte degli abitanti delle favelas della legittimità dello Stato.”  “Quando a guerra do Rio se compara à do Afeganistão”, O Globo, 7 dicembre 2010.

[10] « Le courant souterrain du matérialisme » (1982), in Louis Althusser, Écrits philosophiques et politiques, Tome I, volume organizado e apresentado por Françõis Matheron, Stock/IMEC, Paris, 1994, p. 574.

[11] Per meglio rendersi conto di quel che vogliamo dire, due brevi riferimenti, uno storico e uno attualissimo. Sul piano storico, la polizia di Rio, sin dalla sua fondazione, aveva come obiettivo principale il controllo e la repressione della popolazione schiava (40% del totale). Il “diritto” di uccidere e punire (torturare) e espropriare la popolazione povera e di colore fa parte della sua “tradizione” (cf. Thomas Holloway, “A violência como uma missão histórica:, O Globo, 13 luglio 1997, p. 24). Sul piano dell’attualità, il capo della sicurezza di Rio ha appena lanciato un programma di premi salariali per i poliziotti che funziona come un “cottimo” a rovescio. Il premio dipende dalla diminuzione del tasso di uccisioni da parte dei poliziotti (cf. “Um prêmio pela vida: Secretaria exigirà redução de mortes em confrontos com a polícia para pagar gratificações”, O Globo, 28 dicembre 2010, p. 14).

[12] I “comandos” del narcotraffico a Rio sono 3: Comando Vermelho (CV), Terceiro Comando (TC) e Amigos dos Amigos (ADA).

[13] Arthur Guimarães, “Prefeito informal calcula aumento do custo da vida o Alemão do poder público”, www.noticias.uol.com.br/cotidiano/2010/12/01/prefeito-informa…, 1 dicembre 2010, consultato alle 7:00.

[14] “PF prende 12 por vender TV a Cabo”, O Globo, 6 agosto 2010, Rio de Janeiro.

[15] “Policia fecha ‘gatonet’ que tinha 30 mil clientes”, O Globo, 15 de junho de 2010, Rio de Janeiro.

[16] O Globo, 30 novembre 2010, p. 18. Il comandante generale della Polizia Militar estima a 100 milioni di Reais le perdite Del narcotraffico in seguito all’occupazione del Complexo do Alemão. Folha de São Paulo, 1 dicembre 2010.

[17] Da notare che Moody’s condiziona l’ottenimento de un miglior “voto” alle capacità che la città avrà di flessibilizzare le “pressioni per servizi sociali e investimenti in infrastruttura”. “Cidade do Rio recebe grau de investimento”, O Globo, 30 novembre de 2010, p. 30.

[18] “Esses lugares estão sem República”, entrevista com Ricardo Henriques, O Globo, 17 ottobre 2010, p. 19.

[19] “Serviços de volta ao Alemão e à Penha”, Extra, 30 novembre 2010, p. 6.

 

 

 

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