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Lavorare la vita: attualità della riproduzione sociale

 

di CRISTINA MORINI

Intervento al seminario UniNomade di Napoli, 23-24 giugno 2012

Non sarei ciò che sono se non fossi  donna, se non lavorassi in una fabbrica cognitiva in una città del nord Italia, se non fossi necessitata a spendermi, ogni giorno, dentro un contesto che fa del linguaggio uno strumento di lavoro, se non avessi una figlia. Non sarei quella che sono se non avessi prestato ascolto a tutto questo e se non mi fossi lasciata interamente attraversare e trasformare da ogni esperienza e da ciò che rappresentava. E se non cercassi continuamente di fare di tutto questo il campo della mia indagine politica e del mio attivismo, in tensione perenne verso gli altri, in divenire.

E’ per queste ragioni che, a partire dall’ultimo seminario di UniNomade a Torino dedicato a impresa e soggettivazione, vorrei riprendere il tema dell’inchiesta sulla vita – la vita che oggi viene “lavorata” – come elemento dirimente della nostra analisi e di conseguenza della nostra azione politica.

Vorrei chiarire in premessa che, come tutti voi, quando uso il termine “vita” non mi riferisco alla forza vitale o a qualcosa che abbia a che vedere con la “natura” (termine che meriterebbe le stesse specifiche) ma piuttosto a quegli elementi che smettono di venir considerati spontanei e cominciano a essere trattati come processi sociali, oggetto di specifiche politiche. Il pensiero delle donne e il pensiero queer hanno molto insistito, nel tempo, su questi elementi – in passato confinati nel privato – con speciale riferimento a ciò che si riferisce alla conservazione e alla riproduzione della vita, compresa la sessualità. Oggi è esattamente questa materia che deve diventare oggetto dell’attenzione generale perché è esattamente lì che si consuma la vera cattura di uomini e donne nel presente, che è cattura delle differenze ai fini della valorizzazione capitalistica.

Nel ricostruire genealogie, vale la pena di sottolineare che in Italia non è esistito solo il “pensiero della differenza” della Libreria di Milano. Il pensiero della differenza ha goduto di una posizione dominante in una certa fase storica (quella fordista, della divisione sessuale del lavoro, della espansione della classe media, dell’allargamento progressivo del lavoro professionale delle donne). Oggi il biocapitalismo, nello scombinamento di ogni categoria del passato che trascina con sé, lo spinge a riposizionarsi, esso stesso si sta rimettendo in discussione.

Ma c’è stato ovviamente molto altro. Non solo prima ma durante e dopo. Ci sono stati gruppi, realtà territoriali, lotte. Nel 2003 con Judith Revel, Antonella Corsani, il gruppo Sconvegno e She’s squot di Milano, le A/matrix di Roma, il Sexyshock di Bologna, le spagnole Precarias à la deriva, Serena Fredda e Serena Orazi di Esc, abbiamo costruito un numero della rivista Posse dedicato al “divenire donna della politica”. Un numero che mi piace ricordare perché rappresenta un’importante premessa al discorso che stiamo facendo qui oggi, dieci anni dopo. Ha segnato un percorso d’inchiesta, di riflessioni, relazioni, esperienze e pratiche che ci ha consentito di diventare quelle che siamo adesso, di essere qui.

In quel contesto, oltre ad articoli di Cristina Vega, Rosi Braidotti, Anne Querrien e altre, c’era un saggio di Sara Ongaro dedicato alla “riproduzione produttiva”. Vorrei riprendere alcuni passaggi di Ongaro, presentati in quel testo a partire da un suo libro pubblicato nel 2001, Le donne e la globalizzazione, Domande di genere all’economia globale della riproduzione (Rubbettino, Soveria Mannelli), che con grande acume e grande anticipo proponeva temi che abbiamo visto dipanarsi con sempre maggior chiarezza nel tempo.

Ongaro recuperava la definizione di riproduzione sociale di una femminista marxista, Mary O’ Brien nel testo The politics of reproduction (London, Routledge & Kegan Paul, 1981), che tra le prime ha cercato di ribaltare teoricamente la gerarchia tra le due categorie di produzione e riproduzione, rivendicando quest’ultima come base reale della società, atto originario della produzione: “Atto primo al quale bisogna tornare per spiegare la vita produttiva, al quale anche gli uomini sono costretti a rivolgersi per costruire un senso per il loro agire pubblico”.

La riproduzione sociale, cioè, come “principio di tutte le cose”, come scrive Ferruccio Rossi.Landi, ovvero anche “la riproduzione sociale è qualcosa dalla quale non si esce” (“Il corpo del testo tra riproduzione ed eccedenza”, Lectures n.15, 1984, a cura di Augusto Ponzio). Recentemente in un’intervista che Anna Curcio ed io abbiamo fatto a Silvia Federici (pubblicata sul sito di UniNomade) si è evidenziato come la riproduzione vada considerata “pietra su cui si fonda il comune”. Per O’Brien, il pensiero maschile ha reinventato e “disincarnato” la riproduzione, contemporaneamente “incarnando” la produzione, ovvero ha dato valore in termini capitalistici alla riproduzione della società, spostandola del terreno biologico su cui poggiava a quello teorico, facendone un processo pubblico, ordinato secondo le logiche del diritto e della produzione capitalistici. Allo stesso modo, nell’analisi di Federici (“Wages against housework”, in Malos E. (a cura di) The politics of Housework, London, Allison & Busby, 1996) noi abbiamo la rimessa in campo della categoria della riproduzione ma anche un’analisi della crisi della riproduzione sociale nel momento in cui essa si trasforma in produzione tout court, come lei, a questo punto, la chiama. In realtà, come ha già chiarito Carole Pateman (Il contratto sessuale, Bologna, Il Cerchio, 1997), il lavoratore che vende la sua forza lavoro vende sempre, ogni volta, tutto sé stesso, non qualcosa di separabile da sé. E tuttavia nel dispiegarsi dei meccanismi della riproduzione-produttiva che oggi sempre più vistosamente osserviamo, le risorse umane, i corpi, sono sempre più esplicitamente la merce stessa che viene venduta: è il precario che vive, che si atteggia, che mette in campo le sue abilità relazionali e sensuali che ha bisogno di abiti adeguati per trovarsi un lavoro, che si indebita per comprare una nuova automobile per lavorare e lavora per pagare i debiti, la figura “ontologica” che oggi emerge nelle descrizioni straordinarie fatte da Fant Precario e Lesto Fante (da notare il fatto che siano uomini) negli articoli pubblicati sui Quaderni di San Precario (“Io non ho paura del default”, “Precario-impresa e cartolarizzazione – ovvero l’operaio merda e la finanziarizzazione dal basso”, Quaderni di San Precario, n.3, maggio 2012, Milano).

Tornando al libretto di Ongaro che ho ripreso in mano, ecco un passaggio fondamentale: “Ricordando come il capitale si garantiva la riproduzione sociale a costo zero grazie al lavoro gratuito delle donne possiamo considerare la coppia marito/lavoratore salariato-moglie/casalinga come la figura fenomenologica del sistema fordista e constatiamo che essa è venuta meno inaspettatamente a causa della crisi della parte “produttiva” (secondo il punto di vista del mercato) della suddetta coppia: il lavoratore salariato è diventato un esubero”, scrive Ongaro. Ecco il punto dirimente del presente: la fine dell’operaio e la rivincita della casalinga, ci dice Ongaro.

Se è vero che oggi i grandi profitti vengono creati attraverso i capitali finanziari nell’economia smaterializzata e grazie allo sfruttamento di masse di lavoratori e lavoratrici del Sud del mondo costretti spesso a condizioni di lavoro coatto, è innegabile che le trasformazioni a cui assistiamo ci parlino di una produzione modellata sulla riproduzione e che la vita, che diviene immediatamente produttiva di denaro, costituisce il campo dei profitti più alti relativamente agli investimenti fatti: “la merce umana gode di una straordinaria differenza rispetto a tutte le altre e cioè che mentre queste ultime sono vendibili una volta sola essa lo è infinite volte, spesso fino a morirne”.

Secondo i Centri americani per il controllo e la prevenzione delle malattie 49 milioni di americani nel 2010 erano privi di copertura assicurativa sanitaria. Molti di loro sono affetti da disturbi o malattie croniche, oppure semplicemente vecchi, quindi obbligati a maggiori cure, quindi strangolati da crescenti difficoltà a trovare una polizza assicurativa a tassi accessibili. Dal 2000 gli americani senza assicurazione sanitaria sono in costante aumento. Circa 68 cittadini americani adulti perdono la vita ogni giorno a causa della mancanza di assicurazione sanitaria e dunque a causa della mancanza di cure. La riforma sanitaria di Obama del 2010, si proponeva di estenderla, almeno parzialmente, ai cittadini che attualmente non ne hanno. Sarà necessario capire i suoi reali effetti nel tempo, una volta entrata a pieno regime, ammesso che non venga affossata dalla Corte Suprema che a giorni dovrà decidere se reputarla in toto o in parte anticostituzionale. Esistono attualmente sul mercato Usa svariati pacchetti assicurativi (dal consumer-driven health care al flexible spendig account al health savings account): la salute dei corpi è la merce appetitosa che trattano e sulla quale speculano insieme all’industria farmaceutica.

E’ così che succede che gli Usa abbiano oggi un tasso di mortalità infantile più alto rispetto alla maggior parte delle nazioni industrializzate del mondo. Nella classifica sulle aspettative di vita sono al 42° posto, dopo le altre nazioni industrializzate del Nord del pianeta, dopo il Cile (35) e Cuba (37). La speranza di vita alla nascita negli Stati Uniti, 78,4 anni, li pone al 50° posto nelle classifiche globali, peggio delle nazioni più sviluppate e di alcune nazioni in via di sviluppo (il Principato di Monaco è il primo con 89,7, l’Angola ultima con 31,9).

Ma anche da noi, in Italia, recentemente il Censis ha rivelato che 9 milioni di italiani non sono nelle condizioni economiche di potersi curare, mentre qualche mese fa Christine Lagarde invitava gli stati a monitorare con preoccupazione l’incidenza che l’allungamento delle aspettative di vita genera sui conti economici degli stessi.

Diventa allora sempre più evidente – anche da questi troppo rapidi esempi a cui si potrebbero aggiungerne molti altri relativi all’istruzione o alle pensioni – come il nostro corpo sia una macchina estremamente interessante per i mercati finanziari perché può produrre denaro, come tante volte ci ha fatto notare Christian Marazzi. Ed è questo, in questa fase, ciò che davvero e solamente interessa. Non interessa che cosa si produce ma chi produce e soprattutto come si riproduce: l’essere umano e la vita in generale sono la materia prima, l’energia su di essi usata è al più quella necessaria a operazioni come l’identificazione, estrazione, la conservazione che richiama più i processi di commercializzazione di un prodotto che quelli di produzione. La “comunicazione” è la sostanza che viene scambiata all’interno di questi processi, attraverso una commercializzazione di se stessi che avviene volontariamente.

Aggiungo, anche qui troppo sommariamente, il fatto che non a caso registriamo proprio adesso una sorta di sconfitta dell’epoca hacker. Le ipotesi di difesa dell’anonimato e della privacy proposte alcuni anni fa dal collettivo A/I Autistici/Inventàti (+Kaos. 10 anni di hacking e mediattivismo, a cura di Laura Beritelli, Agenzia X, Milano, 2012) vengono, nell’epoca presente, in buona misura contraddette dalla vetrinizzazione volontaria di facebook e dei social network contemporanei, nei quali noi stessi mettiamo a disposizione la materia prima e i suoi dati, cioè la nostra stessa vita. Evidentemente sono consapevole che non è alla marginalità che oggi si possa puntare, quindi non è nell’immaginare una sottrazione da questi meccanismi che noi possiamo individuare la soluzione. Noi siamo “dentro” e dentro questa contraddizione dobbiamo stare interamente e dobbiamo giocare, tuttavia è necessario essere consapevoli di ogni passaggio e di ogni spartiacque.

Il tempo è ciò che si pretende di sussumere, attraverso tutti questi processi, insieme alla potenza immaginativa delle esistenze sessuate dei corpi: l’ingresso nelle relazioni di mercato della riproduzione, intesa come insieme di attività che ricreano la vita, come elementi legati alla soggettività, alla sessualità, alla espressività della persona modificano la produzione, divenendone il modello e modificando anche la sostanza stessa del lavoro. L’organizzazione del lavoro si modella oggi sul lavoro riproduttivo da cui l’assenza di barriere di tempo, di limiti all’impegno che, quanto meno, insieme alla perenne reperibilità, genera il pensiero perenne del lavoro, delle scadenze, dei progetti, dei contatti, degli obiettivi, delle possibilità. Esattamente come avviene nella riproduzione, nell’amore, nella cura.

All’ambito della vita lavorata dobbiamo perciò, a mio avviso, guardare sempre più e sempre meglio come all’unico possibile vero ambito collettivo, giacché non esiste più una categoria complessiva per definire il lavoro, né il fatto di lavorare in sé garantisce di per sé diritti nel tempo. E qui allora ripropongo alcune domande che allora si faceva Ongaro insieme ad altre che io stessa ho messo in fila in un articolo scritto per UniNomade qualche tempo fa.

Quando il corpo e la vita divengono la materia prima, chi è materia prima può essere riconosciuto come lavoratore? La sua attività di crescita organica può essere definita lavoro? Nel momento in cui l’attenzione del capitale si trasferisce sulla riproduzione, come elemento centrale della valorizzazione capitalistica che si esplica trasversalmente e al di fuori delle pareti della fabbrica, nel sociale, dentro la dimensione precaria del bios, evidentemente la nozione di classe (intesa come classe dei produttori) ha necessità di essere aggiornata. Paradossalmente, ora che tutto è produttivo ovvero tutte e tutti siamo infinitamente produttori, siamo tutte e tutti classe? E che percezione ha la presunta classe del proprio essere tale, nella frammentarietà della precarietà? Possiamo parlare di una nascente, frastagliata classe, ancora inconsapevole, dei riproduttori? Può darsi un comune nelle rivendicazioni di questa classe che si dà facendo? Esiste la necessità di un processo di autocoscienza che renda esplicitamente visibile ai riproduttori il valore negato di ciò che svolgono? Può essere, tale processo, propedeutico a un meccanismo di riappropriazione?

Pensando alle strategie per il futuro, sono queste le domande che dobbiamo porci, camminando, nella nostra idea futura di inchiestare la vita più che il lavoro o meglio questa vita che è diventata il nostro lavoro. Essa viene dopo e perciò va oltre, deve andare oltre le inchieste che abbiamo fatto sulla precarietà del lavoro. La precarietà del lavoro è stata analizzata, sviscerata, rivoltata bene o male in ogni suo recesso. Ma oggi mi azzardo a dire (ho il dubbio che, la paura che) che la precarietà del lavoro produttivo non riesca a essere il campo e probabilmente il tema che può costituire davvero efficaci trasversalità, alleanze, rispecchiamenti e lotte sufficienti a rompere l’individualismo intrinseco a essa. Intendo dire lotte che non si riducano a essere puramente resistenziali e continuamente singolari, quando non corporative o addirittura di casta. Sulla precarietà abbiamo scommesso a lungo, l’abbiamo riconosciuta come possibile terreno ricompositivo, eppure sarà necessario domandarci, una volta per tutte, se nel momento in cui la narrazione della precarietà diventa vulgata generale, questa ipotesi non mostri, con la crisi, il suo lato critico. Il lavoro viene sempre più facilmente assunto come fosse un fine assoluto in sé. E la precarietà e i bassi salari aiutano quanto mai a sostenere questa “vocazione”. Nel pieno del biocapitalismo cognitivo e dell’economia della conoscenza, proprio mentre il lavoro tende a configurarsi attorno al concetto di autonomia, ecco che il capitale riesce, attraverso la crisi, a ricondurlo alla dipendenza. La crisi dunque come forma di riproposizione degli assiomi machisti del mercato e delle sue convenzioni gerarchiche. Solo la contrizione, la preghiera al mercato e l’introiezione della norma ti consentiranno di salvarti dallo spettro della povertà.

Ma non tutto è perduto, però. Mentre il lavoratore salariato è diventato inaspettatamente un esubero, mentre il precario subisce senza rivolte la sua trasformazione in disoccupato, noi assistiamo alla rivincita della casalinga, intesa come soggettività prototipica della riproduzione. Mentre l’ambito della produzione smette di essere il luogo del conflitto, lo spazio sociale rappresentato dalle piazze, dalla città, dalle strade della metropoli, laddove l’operaio e l’operaia sociale si muovono, tende a diventare il terreno della lotta con l’occupazione fisica degli spazi. I movimenti, le insorgenze sono là. Il conflitto si sposta – deve spostarsi sempre più – dentro la vita e i suoi collegamenti. Questo elemento ci consente di condividere e combattere davvero per il comune, inteso come luogo della produzione innovatrice delle differenze generato dalle interrelazioni sociali dei nostri corpi.

E’ evidente che la dimensione precaria delle nostre vite innerva interamente il discorso e si ricollega alla precarietà lavorativa, ma va posto ancora più l’accento sul nostro essere corpi sessuati di persone prima che lavoratori, detto che i nostri corpi sono lavoratori. La riproduzione sociale è veramente il comune nelle differenze e grazie alle differenze. Una comunità sociale produttiva che vuole essere riconosciuta. Non più un’associazione di soggetti che viene data nell’unità dello loro funzione (il ruolo sociale, la corporazione, l’identità del lavoro) ma una comunità estremamente articolata che ha tutte le caratteristiche della molteplicità e che si oppone al potere come insieme produttivo.

Torniamo dunque, in conclusione, al tema centrale della disidentificazione, propedeutica a ogni ricerca di intersezionalità tra soggetti. La realtà che noi osserviamo è quella di un soggetto precario che si sforza disperatamente di mantenere la sua identità, con i suoi vari io, con i suoi ruoli, e con le sue responsabilità relative, limitate da tali ruoli e quindi garantite da essi: “tutto ciò è significativo della rappresentazione sociale da cui siamo soggiogati: una persona, un suo gesto, una sua parola, una sua decisione sono significative in quanto rappresentano un certo ruolo, una determinata situazione prevista, una figura comportamentale di rito”, per rifarci ancora a Rossi-Landi che citavo all’inizio.

Da un punto di vista politico va viceversa enfatizzata e studiata la dimensione di disidentificazione che comporta movimenti di riappropriazione della dimensione della riproduzione sociale, con processi di controsoggettivazione a cui allude l’idea dello sciopero di genere che ci viene lucidamente proposto da Renato Busarello e dal Collettivo Smaschieramenti di Bologna. La disidentificazione è tanto più necessaria, importante, dentro una dimensione del lavoro che pretende, contro ogni buon senso, un totale processo di identificazione. Il punto è prima di tutto distanziarci da questa identità e rifiutare che cosa ci viene imposto di essere  (come è stato per le donne, come insegna il femminismo). L’unica strada per contrastare questo violento spossessamento delle nostre vite è immaginare e porre in pratica vie alternative, da sperimentare con i nostri corpi in relazioni multiple con altri.

L’emergenza del vivere come ambito di regolazione, segnalata nelle analisi sulla biopolitica, deve sfociare nella critica alle forme tradizionali di governo, contribuendo a demolire l’idea tradizionale della società borghese e facendo sorgere al suo posto la visione di una comunità umana il cui interesse comune è proteggere la vita da un potere rapace.

I movimenti femministi e queer sono stati tra i primi a sottolineare il fatto che il pensiero e l’attivismo politico contemporanei devono incarnare tutte queste dimensioni e devono interrogare immaginari situati nell’identità “molare” dei soggetti, mettendo finalmente a critica principi naturalizzati di discriminazione. Questi movimenti hanno già da tempo politicizzato le questioni legate alla vita. Per questo, oggi, ogni progetto di trasformazione sociale deve fare, per forza, i conti con essi.

 

 

 

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