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L’ottobre romano visto da Milano

 

di ANDREA FUMAGALLI  e CRISTINA MORINI

Una nebbia viola vola tutt’attorno. Non so se vado su o giù. Sono su di giri o in depressione? Purple haze di Jimi Hendrix nelle orecchie, proviamo a descrivere, in modo parziale, a tratti incerto, le sensazioni  della rete di San Precario di Milano dopo il 15 O.

Da un lato euforia. Quando mai – con l’eccezione della MayDay, ma qui giochiamo in casa – si erano viste, all’interno di una manifestazione nazionale, tra le 20.000 e le 30.000 persone dietro al carro di San Precario? Dall’altro lato, sbandamento. L’eccedenza della moltitudine, vista da vicino, fa impressione.

 

Prendi il controllo o prendi gli ordini? Vai indietro o vai avanti? Si domandavano i Clash nel 1977 in White Riot. Ci domandiamo le stesse cose anche noi, oggi.

La MayDay, nata nel 2001, fu il primo esempio efficace di autorappresentazione della condizione precaria adeguato al nuovo millennio. Nel 2011, la condizione precaria, oramai generalizzata, esistenziale, strutturale, patologica, esige ulteriori reazioni. Il movimento nato il 15 M in Spagna ha fornito la possibilità di declinazioni alternative della lotta su questo tema. Ha aperto nuove prospettive, come abbiamo potuto verificare nell’incontro di metà settembre a Barcellona nell’Hub-meeting. La dimensione transnazionale che il 15 O ha assunto in Europa, e nel mondo intero, lo conferma.

A Roma, questo processo ha assunto forme di espressione utili a rimettere in discussione alcune categorie fino a qui note. Piazze, strade, nelle quali si è materializzata, come già era accaduto altrove, la presenza di corpi che si contrappongono ai dispositivi della bioeconomia governata dalla finanza. Corpi la cui potenza finisce con l’essere in conflitto con le pratiche innescate dai sistemi di controllo. Desideri, speranze, rabbia, rancori, timori che si oppongono indistintamente all’imperativo della donna e dell’uomo produttivi, alla violenza di una mercificazione che pretende di dominare l’intera esistenza.

Tuttavia, se Londra brucia e chiama e noi non abbiamo capito bene quale sia il modo adeguato per rispondere, allora è certo che abbiamo un problema sul quale bisognerà applicarsi nel prossimo futuro e la cui soluzione non è scontata.

A partire da queste suggestioni, tentiamo di riportare i commenti e le impressioni che hanno animato il dibattito della rete di San Precario di Milano in questi giorni. Un dibattito non facile, sfaccettato, disomogeneo.  Diverse, infatti, sono state le reazioni che il corteo di Roma ha generato. Non intendiamo in ogni caso, scrivendo queste note, parlare a nome di nessuno.

 

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La settimana che ha portato al 15 0 è stata caratterizzata da un countdown che a Milano ha visto due momenti dirimenti. Innanzitutto l’azione di mercoledì 12 ottobre con un presidio che ha preteso e ottenuto di consegnare alla Direzione della filiale milanese della BdI una lettera, non di rifiuto ma di proposte alternative alla missiva di Draghi e Trichet inviata il 5 agosto scorso al governo Berlusconi. Si è avuta, subito dopo, venerdì 14 ottobre, l’azione dei gruppi studenteschi e universitari presso la sede della Goldmann Sachs.

Milano arriva all’appuntamento del 15 ottobre dopo il lungo anno degli Stati Generali, cominciato nell’ottobre scorso e che si è svolto attraverso gli incontri nazionali di Milano, Roma, Genova e Bologna. Un periodo densissimo, vissuto d’un fiato, che riesce a sedimentare parole d’ordine come “il punto di vista precario”, “il diritto all’insolvenza”, “la richiesta di un  nuovo welfare del comune”, il lancio dello “sciopero precario”. Un lessico e una grammatica che fuoriescono dal territorio metropolitano milanese e innervano altri contesti. La Milano cognitaria e comunicativa della MayDay, quella dei lavoratori della conoscenza proletarizzati, quella dei migranti, delle fabbriche dismesse si incontra, nel corso dei mesi, con le diverse realtà di Roma, di Palermo, di Perugia, di Bologna, di Firenze, di Bari, di Napoli. Nascono discussioni, ibridazioni, innesti, esperimenti. Nascono collegamenti non banali tra differenze che hanno il loro fulcro ricompositivo nella condizione precaria. Si spinge sull’idea dell’allargamento verso i nuovi gruppi nati dalla rete e dalla critica sociale. Si stringono contatti con quella parte del popolo viola, o con la rete dei disoccupati over 40, che individua nelle problematiche socio-economiche più che nel solo antiberlusconismo la propria cifra significativa. Si spinge sulla comunicazione in rete, sull’utilizzo dei blog e dei social network.

 

È a partire da questo tessuto e da questo lavoro pregresso che si costruisce la partecipazione da Milano alla manifestazione del 15 O. Ed è a partire da questa forza trasversale, orizzontale, che si intercetta un desiderio superiore alle aspettative. Forse, in certo modo, un desiderio pre-politico ma che va valorizzato nel suo essere forma di riflessione collettiva ovvero di tensione verso il futuro, alla ricerca di strade differenti da percorrere, mettendosi in ascolto rispetto ai nuovi linguaggi e bisogni. In poco tempo (tre giorni), vengono riempiti 10 pullman per un totale di circa 700 persone. Sui pullman trova perfetta rappresentazione quella composizione sociale della precarietà di cui andiamo parlando da tempo: una fascia di età compresa tra i 20 e i 35 anni con prevalenza di occupazioni atipiche nel contesto del lavoro cognitivo di nuova generazione (i precari di II generazione, come li ha chiamati Gigi Roggero nel suo pezzo sul 15 ottobre). Per lo più, persone senza grande esperienza politica, ma che esprimono una confusa e sempre più diffusa “indignazione” che potrebbe far supporre che il tempo della rassegnazione, dell’impotenza e della paura indotte dalla precarietà di lavoro e di vita si sta esaurendo.

A Roma, lo spezzone precario, organizzato dalla rete degli Stati Generali della Precarietà, si mostra imponente, sicuramene è il più partecipato tra quelli dell’area “non rappresentabile” dalle istituzioni contemporanee (siano esse organizzazioni sindacali o politiche). Proprio per questo, ad alcuni il 15 O è sembrato un’occasione persa. Come nella tradizione della rete di San Precario – a seguito dell’esperienza della MayDay – Milano si attiva per dare vita a una forma comunicativa creativa ed efficace. Oltre ad alcune azioni simboliche – in particolare l’occupazione di un hotel e di uno spazio all’interno dei Fori Imperiali – con l’esposizione di uno striscione che recita “Di chi è la storia? è nostra!” – l’intenzione è quella di distribuire una serie di cartoline inneggianti lo sciopero precario del prossimo dicembre. Nel frattempo, i compagni e le compagne di Bologna inventano e portano con loro, in corteo, Sant’Insolvenza, quasi a sancire una sorta di alleanza con San Precario.

Lo spezzone precario è stato però attraversato, come noto, da tutt’altre altre dinamiche, meno comunicative e più dirette. L’eccedenza del primo tratto del corteo,  (ovviamente diversa è la dinamica di San Giovanni, dove di fronte agli attacchi della polizia, dopo le cariche in Via Labicana, si è registrata una giusta e doverosa resistenza) ha travolto ogni programma. Il dibattito che si sta affrontando a Milano e che non ha ancora trovato una ricomposizione finale, adeguata al livello della discussione, ha a che fare con il tema dell’irrappresentabilità dell’eccedenza nei movimenti, un’eccedenza che si presenta anche come elemento problematico e che può prestarsi a favorire passi indietro nel percorso politico in atto. Incrinando, per esempio, la continuità del percorso degli Stati Generali della Precarietà.

 

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La generalizzazione dell’insofferenza precaria ci pone il tema dirimente dell’organizzazione, in piena inter-indipendenza con esso. Essa deve essere in grado di esprimere la potenza della cooperazione sociale, la comunicazione tra i soggetti alle prese con la globalità onnivora del capitalismo e l’atomizzazione politica dei precari. Ma in una situazione in cui la generalizzazione della condizione precaria ed esistenziale è appunto il carattere decisivo del sistema, va obbligatoriamente generalizzata anche la necessità di superare la singolarità del gesto immediato, che rende parziale il discorso e frammenta le lotte. Dobbiamo, viceversa, raggiungere quella generalità del discorso che rende globale la lotta. Se la realtà del precariato oggi si dà anche nella forma della atomizzazione politica del suo agire e questo genera contraddizioni anche alle forme di espressione della lotta, allora noi dobbiamo analizzare le radici di questo problema e trovare modo di risolverlo, da qui in poi. Il rischio è che forme di lotta e di azioni diretta, quando non inserite in un contesto più ampio di comunicazione e di partecipazione, per quanto comprensibili, non riescano a coagulare quella massa critica e di insorgenza, in grado di uscire dalla singolarizzazione e dall’autoreferenzialità del puro gesto. Come scriveva Romano Alquati nel 1978, “superare il cieco empirismo è il grande compito collettivo che abbiamo davanti”.

 

L’altro elemento critico che ci si propone, con più forza, è la necessità di cogliere sempre meglio il soggetto che agisce nella precarietà e, di conseguenza, in queste lotte di piazza. Il problema della politica si pone, come sempre, a partire dalla questione della soggettività che agisce nel relativo contesto dello spazio sociale e politico. Esso è speculare al primo. Esso ci pone, da capo, di fronte al tema della singolarizzazione della lotta nella biopolitica, a dire della frammentazione dolorosa delle singole condizioni generate dalla situazione, benché essa sia generalizzata.

 

Detto questo, se è doveroso e necessario mettere in discussione fino in fondo i limiti dei movimenti e di certe pratiche nonché di certe carenze organizzative facendo autocritica, è altrettanto importante rivendicare l’autonomia e la ricchezza dei percorsi, soprattutto se confrontati con scorciatoie, tutte politiche, che non aggiungono alcunché alla nostra elaborazione e che nella giornata del 15 O si sono trovate in grande imbarazzo. Pensiamo che il 15 O segni uno spartiacque: tutto è stato rimesso in discussione, nel bene e nel male.

 

Alla fine, noi diciamo che il 15 O è stato un atto di rottura, un atto di testimonianza difficile, rischioso, carico di contraddizioni ma anche pieno di domande e di intelligenza, di possibilità. In fondo, se non mettiamo in gioco la nostra facoltà quotidiana di contestare i problemi fino a spingere le nostre pretese lungo il solco delle nostre “ordinarie follie”, allora vuole dire che non ci resta che la normalizzazione.

 

 

 

Chiudiamo rigettando qualsivoglia forma di distinguo tra “buoni” e “cattivi”. La logica penosa della separazione tra una parte responsabile e una parte di disgraziati “black block” che avrebbe contraddistinto il corteo del 15 O  è ipocrita e mai ci apparterrà. Nessuna separazione può essere fatta.

 

Milano, 28 ottobre 2011

 

 

 

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