Su alcuni nodi problematici dell’inchiesta nei call center in Calabria: una nota per la Summer School
di FRANCESCO MARIA PEZZULLI e CARLO CUCCOMARINO
Fare inchiesta politica in Calabria, a partire dai call center, ha significato finora muoversi in tre direzioni, ognuna delle quali ha presentato difficoltà di differente grado e natura:
- Costituire il gruppo d’inchiesta (in modo che non avesse caratteristiche di “volatilità”);
- Organizzare “incontri” con gli operatori, incontri liberi, nei quali abbiamo cercato insieme di capire determinate tendenze e di attivare processi di soggettivazione bidirezionali;
- Ricostruire le tendenze soggettive all’interno del rapporto di lavoro e dello specifico settoriale
Il lavoro lungo le tre direzioni è stato finalizzato all’obiettivo principale dell’inchiesta che per noi è stato, ed ancora rimane, quello di attivare processi di soggettivazione, che possiamo considerare come premesse indispensabili per un’azione politica che ponga al centro la questione del “comune”.
Sui contenuti del lavoro abbiamo pubblicato dei resoconti sul sito Uninomade 2.0, nei quali abbiamo cercato di descrivere i meccanismi di sfruttamento e di produzione delle soggettività, da un lato, e le dimensioni dell’organizzazione aziendale e del controllo dall’altro.
E su questi temi, per i quali rimando alla lettura dei resoconti, ci sarebbero diverse cose da dire, a partire dal fatto che quanto siamo riusciti a rilevare e capire è leggibile attraverso le categorie a noi care del post-operaismo (leggibile nel senso che conferma le capacità analitiche ed interpretative delle categorie post-operaiste): abbiamo visto da vicino lo sfruttamento del lavoro immateriale (“come si sfrutta un sorriso”); l’impossibilità di produrre l’operatore perfettamente integrato; come si costruisce una postazione di lavoro “galera”, contraddistinta da un continuo ed estenuante controllo informatico e personale, e cosi via.
Ma ciò sul quale ci sembra importante soffermarci in questa sede, ai fini del nostro workshop, riguarda i nodi problematici incontrati durante il nostro percorso, problemi emersi con il procedere del lavoro.
In primis sui problemi che potremmo definire “interni”, nel senso di problemi legati alla costituzione del gruppo d’inchiesta: siamo dovuti partire da zero, nonostante siano presenti a Cosenza diversi gruppi che si richiamano in modo più o meno diretto all’antagonismo sociale. Abbiamo dovuto constatare, con grande dispiacere, che dell’inchiesta non gliene frega nulla, soprattutto perché i soggetti dei gruppi anzidetti, nella maggior parte dei casi, non ne comprendono, ne intuiscono, le valenze politico conoscitive. Ma, per dirla tutta, nelle ripetute discussioni avute circa l’importanza dell’inchiesta non c’è mai stata dai soggetti locali di movimento (?) una presa di posizione nel merito della questione, politica per intenderci, quanto piuttosto è stato evidente una sorta di ripiegamento leaderistico, protagonistico, personale, un atteggiamento quanto mai gravido di passioni tristi, come se l’inchiesta potesse minare (in questo hanno ragione questi compagni dell’immobilismo) posizioni radicalchic legate al piccolo prestigio individuale di chi si è autoproclamato leader rivoluzionario. Posizioni che, sia detto per inciso, non influiscono minimamente da un punto di vista politico, in una città normalizzata come Cosenza. Toni Negri, in un suo ultimo importante contributo sui movimenti italiani ha detto che questi pagano lo scotto di non essere usciti dal ‘900: «che non hanno ancora superato l’orizzonte socialista novecentesco». Nel nostro caso locale non hanno superato il ‘900 nel senso che sono imbevuti della stessa cultura formale, autoreferenziale, che nella seconda metà del ‘900 si è imposta nelle regioni meridionali per tramite dei partiti – democristiano e socialista in primis – dei quali si sono impossessati, a loro tempo, le reti locali di potere.
Abbiamo dunque abbandonato – non senza aver lungamente provato – ogni alleanza tattica, dal momento che invece di alleati abbiamo sempre trovato detrattori, felici del fatto che l’inchiesta potesse fallire, impauriti del venir meno di posizioni personali di prestigio acquisite in lunghi anni di permanenza in quel magma paludoso che è la sinistra più o meno extraparlamentare cosentina.
La scelta, al momento, pare essere propizia: sulla base di un gruppo di una quindicina di persone, oltre la metà lavora assiduamente all’inchiesta.
Con una buona dose di realismo, conoscendo un po’ la storia dell’azione collettiva in Calabria e nel Mezzogiorno, possiamo dire che continueremo a costruire sulle macerie con convinzione ed orgoglio…. e del doman non v’è certezza.
I nodi problematici rilevati durante gli incontri con gli operatori sono numerosi, accenniamo in questi appunti solo a tre di essi, quelli nei quali ci siamo imbattuti più di frequente, e rimandiamo ad elenco esaustivo in un prossimo resoconto d’indagine, già in corso di lavorazione, che dovrà affrontare da vicino le questioni politiche e teoriche che i nodi problematici stessi suscitano.
a. Negli incontri abbiamo constatato che c’è molta difficoltà da parte degli operatori a riconoscere le “qualità” della loro prestazione lavorativa e, soprattutto, riconoscere che in ultima istanza sono proprio quelle “qualità” che permettono lo svolgimento del processo lavorativo e la valorizzazione capitalistica insita nello stesso. Il fatto che le “attività” quotidiane siano legate quasi esclusivamente alla dimensione relazionale: “saper parlare”, sorridere, stabilire empatia con i potenziali clienti, eccetera; e che queste competenze siano state acquisite prevalentemente nel corso di esperienze singolari di vita (piuttosto che in percorsi formativi) fa si che si ritenga normale (se non addirittura giusto) che queste non siano contabilizzate nei magri compensi ricevuti dagli operatori, ma vengano portate da questi ultimi in dote all’azienda, come un dono che non necessita di contropartita. In altri termini gli operatori non si percepiscono come lavoratori immateriali e tendono, di converso, a giustificare lo sfruttamento sulla base del valore lavoro al quale sono sottoposti.
b. La produzione di soggettività che avviene nel call center, efficacemente programmata per mezzo di dispositivi organizzativi e informatici, presenta numerose lacune. É ambigua, è contraddittoria, eppure riesce, in parte, a “modellare” diversi operatori, arrivando ad orientarne i comportamenti. Questi ultimi, infatti, pur riconoscendo le mille assurdità nelle quali si trovano immersi, pur criticando aspramente le tecniche di controllo e l’organizzazione del lavoro in generale, pur non immedesimandosi nell’ideologia ufficiale dell’azienda, ne sono in qualche modo condizionati. In particolare tendono ad assumere acriticamente alcune posizioni aziendali gravide di conseguenze sul loro stesso operare: ciò pare dovuto principalmente al fatto di essere costantemente sotto controllo e di subire il ricatto: se l’azienda va male tu finisci per strada. La paura di perdere il lavoro, in un contesto iper-regolamentato come il call center, sembra favorire la plasticità del soggetti nei confronti degli altri strumenti adottati dall’azienda ai fini di assoggettamento (dalla formazione, alle riunioni, al controllo in sede, al controllo elettronico via monitor, eccetera).
c. Gli operatori di call center hanno enorme difficoltà a rappresentarsi come soggetto collettivo. Da questo ne deriva che gli episodi di conflitto più frequenti si risolvono con “liti” personali tra il singolo operatore e il team leader o con qualche altro rappresentante aziendale. Liti alle quali raramente l’operatore coinvolto trova solidarietà attiva da parte dei suoi colleghi, fatta salva qualche pacca sulle spalle. Anche di fronte a casi nei quali si arriva a delle vere e proprie escandescenze – a causa delle forte pressione vissuta – gli operatori tendono a interpretare l’accaduto attraverso categorie tipiche del darwinismo sociale inculcate dall’azienda: è esploso perché non è in grado di fare questo lavoro, non c’è l’ha fatta perché è debole. L’individualizzazione del rapporto di lavoro è fortemente influenzato, inoltre, dal fatto che molti degli operatori sono stati assunti attraverso il classico metodo politico clientelare, fatto questo che – a monte – tende ad inibire, nonostante la dimensione di estremo sfruttamento, qualsiasi critica o rivendicazione “sopra le righe”. Anche in occasione dell’occupazione di uno stabilimento, alla quale abbiamo partecipato, dopo i primi momenti in cui le motivazioni degli operatori sembravano alte (a non mollare, a reclamare diritti e salari, a partecipare attivamente all’organizzazione del lavoro, eccetera), alla prima controffensiva padronale non ha corrisposto (nonostante riunioni preventive) una visione condivisa sui modi di proseguire la lotta. Il sindacato ha avuto a quel punto buon gioco ad accordarsi con la nuova proprietà alle richieste di quest’ultima. La risposta degli operatori a tutto ciò è stata nulla, una sorta di malcontento e frustrazione ha accompagnato la ristrutturazione, acuiti dai sospetti e dalle liti avvenute tra gli operatori stessi.
Dal lavoro finora svolto riteniamo siamo arrivati al momento in cui è importante che l’inchiesta assuma un carattere più generale rispetto agli incontri con gli operatori, pur restando questi ultimi i tasselli chiave, primari ed imprescindibili, del nostro operare. In tal senso organizzeremo, nei mesi autunnali, una serie di appuntamenti. Nello specifico:
- diffusione della documentazione del gruppo d’inchiesta all’ingresso di alcuni call center calabresi;
- diffusione della documentazione del gruppo d’inchiesta presso mailing list e indirizzi email di operatori di call center;
- discussioni pubbliche sull’inchiesta presso l’Università della Calabria;
- estensione dell’inchiesta politica agli studenti e ricercatori precari dell’Università della Calabria;
- discussioni pubbliche sull’inchiesta politica in città;
- trasmissione radiofonica (1 ora a settimana) presso Radio Ciroma inerente l’inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria ed eventuale apertura di un sito/blog tramite il quale comunicare costantemente.