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Il numero della bestia collettiva. Sulla sostanza del valore nell’era della crisi del debito

 

di MATTEO PASQUINELLI

Non si legge Marx per avere una grammatica con cui descrivere a posteriori e dogmaticamente le lotte sociali, ma lo si studia per vedere come i rapporti di produzione e il conflitto abbiano dato forma ai suoi concetti dall’interno.

 

Il campo del valore e la bestia collettiva

1. La concezione bicefala del valore in Marx. In molti oggi sostengono che in Marx (1867) si trovi una concezione bicefala del valore. Nel suo interessante libro More Heat than Light Mirowski (1989), ad esempio, mostra come Marx abbia attinto a due modelli in voga nella scienza del suo tempo per descrivere l’arcano della genesi del valore. In Marx comparirebbero per così dire una misura termodinamica e una gravitazionale del valore, una inspirata a Carnot e una a Newton, una metrica e una topologica, una basata sui cavalli vapore e una sul campo di forze, una basata sul tempo di lavoro e una sul lavoro socialmente necessario. Chiaro che nessuno dei due modelli si cuce perfettamente addosso al lavoro vivo: sulla questione ancora oggi ci si dibatte come in una camicia di forza. Proprio in questo quadro la rottura rappresentata dalla biopolitica foucaltiana è per Deleuze (1986) proprio l’introduzione del diagramma del potere come campo di forze, come macchina sociale astratta che va a sostituire il modello delle vecchie macchine termodinamiche. Anche se questa ambivalenza del testo marxiano è vera, e ogni lettura del palinsesto scientifico sempre affascinante, non è dalla prospettiva delle scienze dure che si dovrebbe cominciare a leggere Marx. Uno degli errori di Mirowski (e del suo sodale Georgescu-Roegen) sembra essere quello di credere che sia sempre un modello scientifico a influenzare nascostamente la teoria economica. In generale, dal punto di vista del metodo politico, non si legge Marx per avere una grammatica con cui descrivere a posteriori e dogmaticamente le lotte sociali (come fa la corrente detta ‘Hysterical Materialism’), ma lo si studia per vedere come i rapporti di produzione e il conflitto abbiano dato forma ai suoi concetti dall’interno e come nuove forme di lotta possano essere anticipate.

2. La tradizione occidentale della misurabilità dell’essere. Il problema della sostanza del valore è anche, filosoficamente e politicamente, il problema della sua misura. Si potrebbe dire che matematica ed economia politica esistano proprio perché c’è sempre qualcosa che sfugge alla misurabilità. L’economia politica non è che il tentativo di addomesticare l’eccedenza, di scendere a patti con il surplus e catturarlo. Il capitale cerca di controllare la sostanza del lavoro vivo applicando in epoche diverse dispositivi diversi di misurazione. Sono queste le macchine della seconda sintesi di Deleuze e Guattari (1972), le cosiddette macchine di registrazione che tagliano i flussi delle macchine di produzione, e che in ogni civiltà codificano e iscrivono sul corpo cifre diverse per estrarre plusvalore. Anche Marx stesso si dice appartenga alla tradizione molto occidentale e aristotelica della misurabilità dell’essere nel tentativo di calcolare scientificamente il plusvalore. Tuttavia le formule di Marx non sono formule dell’equilibrio economico, ma sono formule che al contrario, in un rovesciamento della logica hegeliana, mostrano l’asimmetria intrinseca del capitale e cercano di individuarne la crisi interna, la dismisura, come emerge nella famosa formula della caduta tendenziale del saggio di profitto (Marx 1894). Rispetto alla marxiana crisi tutta oggettiva del capitale, l’operaismo interviene per avanzare una crisi soggettiva del capitale. L’operaismo, non serve ricordarlo qui, rovescia la formula non tanto dal punto di vista matematico, ma dal punto di vista materialista delle nuove soggettività del lavoro. È l’eccedenza dei corpi, la dismisura del lavoro vivo a mandare la rivoluzione industriale out of joint, a soqquadro, a produrre un ‘trauma’ storico di portata globale, a spingere l’evoluzione del capitale verso il postfordismo e il capitalismo finanziario. Quello che il capitale tenta di misurare, controllare e catturare è appunto questa potenza collettiva.

3. Statuto dell’economia politica secondo cinque scuole contemporanee. L’eccedenza del lavoro vivo non ha alcuna verginità metafisica, ma al contrario la si rintraccia sempre invischiata nel reale e alle prese con il ‘lavoro sporco’ della storia. Riguardo alla questione della misura e della dismisura, con fare canzonatorio, potremmo suddividere le interpretazioni odierne dello statuto dell’economia politica in cinque gruppi: puristi, cronometristi, autonomisti, scambisti, accelerazionisti. I puristi sono coloro che non riconoscono il bisogno alcuno di studiare l’economia e i concetti marxiani per paura di peccare di economicismo (Badiou) o che riconducono le discipline economiche ad una matrice teologica dalla quale non sembra esserci scampo (Agamben). In una ipotetica ‘destra’ potremmo annoverare i cronometristi, compagni fedeli ad una supposta intrinseca razionalità dell’economia, che calcolano il plusvalore orologio alla mano e solo dentro il recinto della fabbrica, e così pure i diritti e il salario degli operai (per lo più marxisti e sindacalisti ‘ortodossi’). Gli autonomisti riconoscono invece l’eccedenza del lavoro vivo al di là di ogni misura e razionalità economicista, l’intera metropoli come spazio produttivo e quindi l’auto-determinazione delle soggettività prima di ogni diritto codificato (ovvero l’operaismo in genere). Gli scambisti sono coloro che sostengono ora più che mai una svolta monetarista nel marxismo, l’egemonia della circolazione di moneta sulla produzione e la riduzione del valore a prezzo (in parte Harvey, Bellofiore, cartalisti e circuitisti, ecc.). In una ipotetica ‘sinistra’, infine, troviamo gli accelerazionisti di scuola postmoderna, che come nelle sette millenariste d’un tempo attendono la fine del capitalismo per ipertrofica esplosione (tra questi gli stessi Deleuze e Guattari in alcuni passaggi, il catastrofismo di Baudrillard, Virilio e la sua dromologia, alcuni autori della recente rivista Collapse, ecc.). In questo quadretto di famiglia, che semplifica un dibattito di mezzo secolo, l’operaismo sembra porsi in una posizione interlocutoria, di buon senso (quasi democristiana!).

4. La legge del valore attraverso l’operaismo. L’operaismo non è mai partito dalla filologia marxiana, benché utilissima, ma dal potere normativo dell’antagonismo, capace di plasmare dall’interno le leggi del valore e trasformare quindi gradualmente anche le formule dell’economia politica. In altre parole, se si studia il concetto di valore, non è per lasciarlo librare in aria come un a priori, come astrazione a-storica, ma per agganciarlo e concatenarlo sempre alla sostanza, alla carne, al lavoro. Anche qui è importante fare un piccolo excursus. Vercellone (2012) nel suo saggio “La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo” ripercorre la storia della critica della legge del valore-lavoro a partire da Marx oltre Marx di Negri (1979) fino al dibattito degli anni novanta sulle riviste Futur Antérieur e Multitudes (Negri 1992 e 1997). Nei suoi lavori Vercellone ha esteso questa genealogia contestualizzando la crisi del legge del valore-lavoro all’interno della crisi del capitalismo cognitivo. In Marazzi (1977) invece ritroviamo la storia parallela tra la crisi della legge del valore-lavoro, la fine della convertibilità del dollaro con l’oro e l’ascesa del capitalismo finanziario, ovvero come l’idea che la moneta sia usata dal capitale per riappropriarsi del terreno di lotta dell’antagonismo. Più recentemente Fumagalli e Morini (2009) hanno tentato una teoria del valore-vita all’interno del paradigma del biocapitalismo. Mentre Lazzarato (2011) nel suo ultimo libro ha cercato invece un Marx antecedente allo teoria del valore-lavoro per porre il debito come forma primordiale del valore, ma rischiando di espellere in questo modo il cuore stesso del sistema marxiano, ovvero la teoria del plusvalore e dello sfruttamento. Per semplificare questa lunga ed articolata gestazione, si farà riferimento a Commonwealth di Hardt e Negri (2009) dove si spiega in modo chiaro la concezione bicefala del valore in Marx — ma soprattuto dove si spiega come sia necessario tornare all’idea del capitale come relazione sociale e accumulazione di relazioni sociali (e non già come semplice misura del tempo di lavoro) per capire le forme di produzione e valorizzazione del biocapitalismo odierno.

5. Gattungswesen: riemerge la bestia collettiva di Marx. Abbiamo fin qui tentato di riassumere: il problema del valore, il problema della misura, il problema dell’eccedenza, che compongono insieme il problema della potenza collettiva, detta altrimenti: il comune. Così come presentato in Commonwealth il concetto di comune prende forma all’interno della crisi della misura del valore in Marx e del problema dell’unità di tale misura: la produzione della fabbrica-metropoli si dice essere fuor di misura e sicuramente non è più il tempo l’unità di misura di tale produzione. Hardt e Negri tornano quindi all’idea marxiana del capitale come insieme di relazioni sociali e chiamano ‘comune’ appunto questa capacità di produrre relazioni sociali che vengono catturate dal capitale. Nei manoscritti del 1844 il giovane Marx introduce una nozione simile, ma controversa: Gattungswesen, l’uomo come essere-specie, è in Marx ciò che contraddistingue la natura umana nella sua dimensione sempre sociale, o se si vuole di animale politico. Come ricorda Nick Dyer‐Witheford (2004), il concetto di Gattungswesen emerge in Marx da quello di alienazione ed è stato spesso criticato per essere troppo umanista e naturalista: anche se è proprio qui che Marx afferma “La natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano” (Marx 1932). Oggi potremmo rielaborare e adottare questo concetto come concetto del postumanesimo, omologo al campo di forze di Foucault, al corpo senza organi di Deleuze e Guattari (che a questo passaggio si sono ispirati), al divenire-macchina della moltitudine. Per quanto ci riguarda è il concetto di un mostro, ma un mostro sociale rivolto al futuro, non ad un ipotetico inconscio principio di natura. L’operaismo ha tentato in modo simile di mostrare la bestia collettiva al centro del capitalismo contemporaneo nella forma di un essere-sociale, di un essere-specie. Trattandosi di un essere-sociale, il modo per addomesticare e sfruttare questa bestia fa uso di dispositivi di misura, controllo e cattura che si definiscono biopolitici. Evocato il mostro sociale, serve capire come il capitale riesca a catturare questa rete di relazioni, questo campo di forze, come riesca ad imporre ancora oggi un numero alla bestia collettiva. Si tenta in altre parole di inseguire le nuove incarnazioni della legge del plusvalore, di studiarne le nuove macchine di registrazione e i nuovi modelli empirici.

 

Intermezzo sul metodo della conricerca.

6. Sull’antagonismo dei concetti. Se si introducono nuovi modelli, non è perché siano i modelli teorici a formare l’antagonismo, quanto il contrario. Non si tratta semplicemente di ‘studiare economia’, di svelare i meccanismi economici di produzione e accumulazione del valore, ma di partire dalla rottura politica di tale accumulazione (la freccia del capitale va sempre in una direzione ben precisa: questo va riconosciuto ‘scientificamente’). Come si suol dire, è importante non confondere la composizione tecnica di classe e scambiarla per composizione politica: non si tratta di fare solo una tassonomia della sfiga (il precario, il debitore, ecc.), ma di descrivere anche la topologia della resistenza e della potenza normativa, ovvero ipotesi di ricomposizione politica e di soggettività del tutto nuove. Se si cercano nuovi modelli empirici della misura e della cartografia del valore più aggiornati rispetto a quelli marxiani, è per mostrare, come faceva Marx stesso, il loro punto di crisi: ovvero laddove l’accumulazione raggiunge un limite, implode, apre nuovi piani, rende manifesta la resistenza del lavoro vivo e l’antagonismo delle relazioni sociali. Nella conricerca si intende che questi concetti si tengano insieme e si contengano l’uno nell’altro, ovvero si descrive un medesimo campo in cui: modelli di valore = modelli di accumulazione = modelli di crisi = modelli di antagonismo = modelli di soggettività.

7. Antagonismo tra produzione e capitale. Il capitale è un gigantesco Proteo, continuamente capace di cambiar forma, evolvere e adattarsi. L’antagonismo tra produzione e capitale è dinamico, sempre in movimento, ma asimmetrico. Da Operai e capitale di Tronti (1966) si ripete che è l’antagonismo sociale a spingere il capitale verso nuove forme di divisione del lavoro e innovazione tecnologica, verso nuove sistemi di comunicazione e apparati di misurazione e quindi, perché no, anche verso l’invenzione di nuovi concetti economico-politici. Dall’altro lato le lotte, le forme di resistenza, l’alienazione stessa, le patologie del lavoro e mille altre voci dell’anomalia sono la prova del nove che indica direttamente le relazioni di potere e produzione lì dove si fanno critiche. La legge del plusvalore è un Proteo continuamente spinto a mutare dispositivi: semplificando, ieri il salario di fabbrica, oggi il debito e la rendita nella metropoli. Se la legge del plusvalore indica una relazione asimmetrica tra lavoro e capitale, se è il primo a dar forza e forma al secondo, questo rapporto biomorfico influenza anche la produzione teorica, la forma dei concetti stessi.

8. Antagonismo tra vita e conoscenza. A livello metodologico è importante ripetere come non sono le lotte ad adeguarsi ai concetti ma il contrario: i concetti sono il guscio esterno dell’antagonismo, si plasmano nella lotta del lavoro vivo contro il proprio ambiente, che è la tensione della vita stessa contro quello che è il proprio Umwelt. Non c’è contraddizione tra lotte e teoria. Come in ogni tradizione spinoziana e come ben mostrato decenni fa anche da Canguilhem (1952), maestro di Foucault, non c’è contraddizione tra vita e conoscenza, desiderio e tecnologia. Il capitale è ovviamente capace di trasformare il lavoro vivo in lavoro morto, il sapere vivo in sapere morto, ma conoscenza e teoria non sono sempre mera estensione del potere, ovvero dispositivi biopolitici, bensì in primis espressione della vita stessa. Anche per eliminare queste opposizioni binarie, tenterò di spiegare come il capitalismo cognitivo non sia in contraddizione con il capitalismo del debito, anzi ne prefiguri l’infrastruttura macchinica a cui quest’ultimo deve appoggiarsi.

 

Per una topologia del campo del valore: i modelli di ranking e rating.

9. Modelli topologici del campo del valore. Nuovi modelli empirici di valorizzazione devono essere studiati per capire le metamorfosi del capitale sotto le spinte della produzione sociale e come questi modelli di valorizzazione influenzino a loro volta la composizione tecnica delle soggettività odierne. Anche seguendo le intuizioni di Foucault, Deleuze e Guattari qui si vogliono introdurre modelli che descrivano il campo delle forze sociali in modo topologico e non quantitativo, come ancora l’economia politica dell’orologio continua a fare. I sistemi di ranking e rating sono i dispositivi usati oggi empiricamente per la misura del campo del valore, ma ovviamente anche per il controllo e la cattura del campo delle relazioni sociali che producono questo stesso valore. Si propongono qui quattro esempi: l’economia di citazioni dell’università, l’economia di attenzione della rete, l’economia di prestigio del mondo dell’arte, l’economia di fiducia delle agenzie di rating. Per motivi espositivi, si distingue tra ranking ‘macchinico’ e rating ‘politico’, tra reti sociali informali e apparati istituzionali, ma in realtà si possono considerare questi modelli come diversi incarnazioni di uno stesso diagramma macchinico del campo sociale.

10. Distinzione tra ranking ‘macchinico’ e rating ‘politico’. Per ranking si intende la posizione in un determinata scala secondo una procedura oggettiva, un metodo, un algoritmo (come accade nella valutazione delle riviste universitarie, nei risultati del motore di ricerca Google o nel calcolo del numero di follower su Facebook e Twitter). Per rating si intende invece la posizione in una scala secondo un sistema di valutazioni soggettive, basate su riconoscimento, fiducia e appoggio da parte di soggetti con i quali si è costruita una complessa rete di relazioni (vedi il mondo dell’arte ma soprattutto le agenzie internazionali di rating, che offrono la loro valutazione agli investitori in una trama squisitamente politica basata su mostruosi conflitti di interesse). Definiamo il primo come diagramma macchinico perché sottintende l’uso di procedure codificate, e il secondo come diagramma politico perché sottintende l’antica arte tutta politica di costruzione di consenso, fiducia e alleanze sociali sulla base di rapporti informali. In realtà si tratta in entrambi i casi di sistemi macchinici, perché secondo la definizione di Deleuze e Guattari, mescolano automatismi con relazioni sociali: si vuole sottolineare anche, come nel caso dei macchinari descritti da Marx (1867) nel primo libro del Capitale, alcuni algoritmi e procedure di ranking si installano formalmente su precedenti strutture informali di rating.

11. Distinzione tra reti sociali e apparati istituzionali. Quello che si vuole qui mettere a fuoco il più possibile è l’intero campo sociale della bestia collettiva, ovvero lo spazio fluido e molteplice della metropoli. Ovviamente la rete globale e i suoi social network sono l’esempio migliore per esemplificare oggi la gigantesca rete di produzione di relazioni sociali. In scala minore, ma con importanti ricadute economiche, si introduce il caso del mondo dell’arte poiché anch’esso si basa su reti informali e fluide, non gerarchiche e non troppo istituzionali. Ma la maglia delle relazioni sociali costituisce la sostanza anche di istituzioni apparentemente granitiche: se le università e le agenzie di rating mostrano tutta la rigidità delle gerarchie istituzionali e del potere economico-politico, la loro costituzione non è poi così diversa da quella della metropoli.

Modello 1). L’economia di citazioni dell’università: mediazione istituzionale e macchinica. È l’università tedesca di fine ‘800 il luogo dove si introduce per la prima volta un sistema di ranking delle pubblicazioni (e quindi degli autori) tracciando e calcolando il numero e l’intreccio delle citazioni bibliografiche. Più citazioni, maggiore l’importanza ‘accademica’ di un dato testo. Com’è ben noto, ogni ricercatore universitario è ancora oggi catturato in questo dispositivo di misura che decide della sua carriera e del suo gradiente di competizione. Questo sistema di ranking attraversa oggi l’intera economia universitaria: insieme ad altri indici, viene usato anche per misurare il ‘valore’ complessivo delle università e il loro prestigio nelle graduatorie globali. Come si legge soprattutto nelle recenti cronache anglo-americane, una simile rete di valorizzazione va ad incidere pesantemente sullo status sociale di una data università, sulle tasse di iscrizione e quindi direttamente sul debito studentesco. Si potrebbe quasi affermare che il debito studentesco è il rovesciamento delle piramidi cognitive dei sistemi di ranking, riproducendo segmentazioni e gerarchizzazioni economiche in modo a questi speculare.

Modello 2). L’economia di attenzione della rete: mediazione sociale e macchinica. Il motore di ricerca Google nacque applicando il diagramma usato per ‘misurare’ le pubblicazioni accademiche ad ogni documento dell’ipertesto web. Di base l’algoritmo PageRank di Google calcola automaticamente il ‘valore’ di ogni link web e decide dell’importanza e visibilità di un dato documento in base al numero e alla qualità dei link che puntano ad esso. L’algoritmo PageRank di Google può essere assunto come diagramma empirico dell’accumulazione di valore nel capitalismo cognitivo (vedi Pasquinelli 2009 e 2011), come accumulatore di quelle informazioni valorizzanti che già Alquati (1963) tracciava al lavoro nelle fabbriche cibernetiche degli anni ’50. Più in generale oggi internet mostra finalmente tutta la sua dimensione di ‘produzione sociale’ nell’economia di attenzione dei social network come Facebook e Twitter, dove in modo simile all’algoritmo PageRank il prestigio personale si calcola appunto in base al numero di like e follower.

Modello 3). L’economia di prestigio del mondo dell’arte: mediazione sociale e politica. A ben guardare, l’economia di attenzione che internet ha reso visibile è sempre stata al cuore dell’economia spettacolare dei mass media e in modo particolare del mondo dell’arte. L’opera d’arte funziona oggi come significante unico irriproducibile il cui valore si accumula e si misura all’interno di una complessa matrice sociale. In questa rete di valorizzazione al cui centro troviamo l’opera d’arte si connettono l’un l’altro in ruoli molto codificati: autori, curatori, critici, galleristi, collezionisti, spazi espositivi, magazine internazionali, istituzioni museali e pubblico. E’ sufficiente sfogliare le principali riviste per notare come l’arte contemporanea sia una attenta ingegneria sociale più preoccupata delle delicate gerarchie del name dropping che di questioni estetiche. Un tale circo mediatico ha il suo climax nelle case d’asta internazionali, dove notoriamente si battono opere a cifre astronomiche per mere operazioni di speculazione e riciclaggio di denaro. Rispetto agli impassibili algoritmi della rete e ai rigidi indici universitari, il mondo dell’arte, come tutto il mondo spettacolare delle merci, si organizza intorno a vortici di valorizzazione che appaiono molto più fluidi e informali.

Modello 4). L’economia di fiducia delle agenzie di rating: mediazione istituzionale e politica. Le agenzie di rating mostrano a livello geopolitico meccanismi simili a quelli che abbiamo tentato di spiegare ad altre scale. Dalle recenti cronache della crisi sappiamo bene come il destino del debito pubblico sia nelle mani di agenzie di rating private, braccio armato di giganteschi interessi finanziari che così influenzano il destino di intere nazioni. Si potrebbe dire che gli apparati istituzionali e politici messi in piedi da queste organizzazioni rappresento nel modo più chiaro il sostrato macchinico dell’economia del debito, poiché il gradiente di speculazione sul debito dipende dalla cifra di fiducia che viene affibbiata more numerico ad una data impresa o nazione. Ma sopratutto è l’amplificazione mediatica degli annunci di declassamento e conseguente isteria collettiva a fare di queste agenzie vere e proprie macchine di governance politica e biopolitica. Lo statuto di queste agenzie è istituzionale ma gli effetti sono completamente nella sfera del linguaggio e degli atti performativi, se è vero che quando vengono denunciate negli Stati Uniti proteggono le proprie decisioni di rating come libera opinione, appellandosi al Primo Emendamento. Curiosa machiavellica coincidenza tra atto linguistico, atto economico e atto politico.

12. Le macchine (astratte) sostituiscono sempre macchine sociali. I meccanismi di ranking e rating, come nuova forma di controllo biopolitico e produzione di nuove soggettività e competizione sociale, sostituiscono la tradizionale disciplina del tempo. Non si vuole qui introdurre una contrapposizione tra campo temporale e campo sociale, essendo entrambi rami di una stessa legge del plusvalore, di una stessa evoluzione macchinica, il primo della fabbrica industriale, il secondo della fabbrica metropolitana. Il paradigma del capitalismo cognitivo deve essere sempre confrontato con questi modelli vorticali di accumulazione di relazioni sociali, misura e governance della competizione. Come le macchine in Marx, questi sistemi di misura non inventano nulla di nuovo ma vanno ad occupare e mappare una rete di relazioni sociali e comportamenti preesistente. Le economie della produzione sociale esistono chiaramente ben prima che i sistemi di ranking e rating vengano a codificarle, misurarle, controllarle e catturarle, e si potrebbe dire anche prima che il debito venga ad installarsi e a sovracodificare queste relazioni.

 

La sostanza del valore e il dispositivo del debito.

13. Il debito è un contratto ternario, ovvero sempre sociale e collettivo. Il debito come ricorda bene Lazzarato (2011), è una relazione con il Grande Creditore, non con un singolo creditore, quindi è un contratto che sempre rimanda ad una megamacchina statale o imperiale. Il debito non si dà come semplice contratto tra due persone, ma per così dire sempre tra tre soggetti. Il debito sottintende sempre uno schema di potere, ovvero dispositivi di soggettivazione che servono per incidere nella carne dispositivi di sfruttamento. Il dispositivo del debito segue un modello ternario e molare simile al concetto di capitale in Marx. In in altre parole il debito si installa sempre su una rete collettiva pre-esistente.

14. Il debito è storico e non primordiale. Lazzarato (2011) mostra come la relazione debitore-creditore emerga storicamente prima dello scambio commerciale. Sarebbe interessante capire quanto in Deleuze e Guattari (1972) lo stock venga al contrario prima di ogni relazione di debito, ma non è questa la sede (“Gli stock formano l’oggetto di una accumulazione, i blocchi di debito diventano una relazione infinita sotto forma di tributo”, p. 123, traduzione mia). Si può essere d’accordo che nelle antiche civiltà il debito emerga prima dello scambio, ma non significa che questo sia vero di quest’epoca. Oggi la crisi del debito sovrano viene dopo il capitalismo postfordista e quello finanziario, dopo la pervasiva colonizzazione di ogni aspetto della vita quotidiana da parte di tecnologie digitali. Non si tratta della riemersione di un ‘rimosso’. Vedere il debito come entità primordiale rischia di avallare una definizione mistica del capitalismo e rinforzare l’idea del debito appunto come sorta di ‘peccato originale’.

15. Il debito è oggi cognitivo e macchinico. I modelli di ranking e rating, come abbiamo visto, sono gli stessi che descrivono in modo rovesciato le reti del debito e mantengono vivi i dispositivi di soggettivazione e competizione. Si potrebbe dire che la fiducia misurata e proiettata dalle agenzie di rating corra politicamente speculare a quel senso di colpa che si pone alla base del rapporto economico debitore-creditore (vedi ancora Lazzarato 2011). Ora il dispositivo del debito, da qui si intuisce, non ha sostituito il capitalismo cognitivo, ma è il capitalismo cognitivo e macchinico ben precisamente a fornire le strutture e i dispositivi per la governance del debito e la misura di valore. È un capitalismo cognitivo e macchinico quello che permette al debito di diventare pervasivo e cronico, di inseguirci ovunque andiamo.

 

Berlino, agosto 2012.

Il PDF di questo testo è scaricabile qui: bit.ly/TYM59v

 

 

Bibliografia

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