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Oltre il 15 ottobre: il nodo dell’autonomia dei movimenti

 

di BENEDETTO VECCHI

Uno scontro di piazza, un’aggressione a un corteo che esprimeva un movimento dalle grandi possibilità; un’occasione persa. La prima è un’espressione che non aggiunge nulla a quanto già noto. La seconda interpretazione, invece, attinge al bagaglio retorico del perbenismo che domina la retorica della sinistra politica da oltre venti anni, cioè da quando la controrivoluzione liberale ha incontrato sulla sua strada movimenti sociali non sempre compatibili con il verbo del libero mercato. La terza spiegazione scivola via dalle labbra di qualche navigato frequentatore dei cortei. Eppure, ancora adesso, quando i fuochi che hanno caratterizzato la manifestazione del 15 ottobre sono da tempo spenti, sono queste le spiegazioni che ancora dominano la scena pubblica.

Ci sono stati, ovviamente, tanti interventi e riflessioni che hanno caratterizzato la discussione in Rete,  restituendo letture meno pavloviane di quella giornata. Ciò che però ancora fa fatica a farsi strada è un punto di vista che operi quel salutare movimento del pensiero che mette in relazione il fondale – la crisi economica globale, la crisi irreversibile della democrazia rappresentativa e di molte interpretazione della forma movimento – e il palcoscenico (la dimensione transnazionale della crisi, i movimenti sociali che si sono manifestati e si manifestano). L’assenza di una ricombinazione tra questi aspetti conduce a una percezione distorta della temporalità politica in cui la manifestazione del 15 ottobre si è collocata. Una temporalità che continua ancora a scandire l’agenda politica nel vecchio continente e in Italia.  Il problema non è quindi il recente passato, ma il presente e l’immediato futuro, visto che l’accelerazione della crisi italiana e il consolidarsi di un governo europeo dai forti connotati conservatori, se non reazionari conduce a definire i nessi, le concatenazioni tra il fondale e il palcoscenico. L’assenza di queste concatenazioni conduce infatti l’agire politico radicale e di movimento a una triste riproduzione del già noto. O a un mesto  ripiegamento su un rapporto di internità con il sistema politico con la speranza di condizionarlo. Nel primo caso, c’è l’irrilevanza politica; nel secondo l’approdo a una pratica che ricorda quella delle lobby. Soltanto che in questo caso, non si è rappresentanti di uno specifico interesse economico o sociale, bensì di una istanza etica di trasformazione della realtà. Va da sé che sarebbe comunque  una debaclè politica e concettuale.

Sarebbe quindi a questo punto interessante condurre un esperimento mentale su quale possa essere la risposta a un governo che applichi la lettera della Bce inviata a un pericolante Berlusconi. Mai come in questi giorni la sovranità nazionale è diventato, ad esempio, un feticcio sbandierato dalla Lega Nord per contrastare le tentazioni neoliberiste del cavaliere nero. Ma mai come in questi settimane, la sovranità nazionale è stata sistematicamente cancellata dalla Banca centrale europea. E quando Giuliano Ferrara ha annunciato che Silvio Berlusconi stava per dimettersi, gli scambi di Borsa Affari a Milano sono saliti precipitosamente e altrettanto repentinamente sono scesi quando l’ospite di Palazzo Chigi ha smentito le voci delle sue dimissioni.

I mercati non sono ovviamente antiberlusconiani, ma rimproverano al governo italiano di essere troppo poco radicale nell’applicare i diktat della Banca centrale europea. La possibile uscita di scena di Silvio Berlusconi non coincide con la sconfitta dell’uscita neoliberista dalla crisi del neoliberismo. Semmai assistiamo alle convulsioni di un sistema politico istituzionale alla ricerca di soluzioni che mettano in pratica quello che vogliono proprio i tecnocrati di Bruxelles.

Sia chiaro. Questo è solo una parte del fondale in cui collocare il contesto in cui il movimento italiano agisce. L’altra parte a che fare con la materialità della crisi economica, che sta voracemente divorando consuetudini, forme di vita, assetti di potere – sia istituzionale che sociale – e la geografia del capitalismo mondiale. Una crisi anomale, tuttavia. Viene ritenuta giustamente globale, ma presenta  caratteristiche molto diverse a seconda delle latitudini. L’America latina, per esempio, ha tassi di crescita molto simili ormai a quelli di paesi come la Cina, l’India, la Russia. Nella vecchia Europa, divenuta il centro delle turbolenze finanziarie, la tensione tra differenze e ripetizioni nella manifestazione della crisi produce proposte politiche sul governo che tendono a stabilire gerarchie di potere non molte diverse da quelle che vediamo in azione su scala globale. Jurgen Habermas ha recentemente scritto su “Le Monde” che la crisi economica pone con forza, e nuovamente, la forma costituzionale che dovrà accompagnare  l’Europa che uscirà dallo tsunami del debito sovrano. E per non smentire il suo patriottismo europeista, Hebermas tiene a precisare, in questo scritto, che l’Europa politica che uscirà dalla crisi non potrà che fare proprie le politiche dell’austerità dettate dalla Banca centrale. Il 15 ottobre va quindi pensato come un atto della messa in scena della crisi del capitalismo contemporaneo, all’interno del quale si sono manifestati le potenzialità, ma anche i limiti dei movimenti sociali. In primo luogo, la presenza di una generazione condannata alla precarietà, ma anche l’assenza di pratiche politiche adeguate alla sua irriducibilità a dispositivi di rappresentanza politica. L’unica cosa certa che si è manifestata è, anche qui, un ripiegamento su consolidate performance che oscillano tra il teatro di strada e la simulazione della guerriglia di strada.  La scommessa da fare è semmai  la  rappresentazione di ben altra rappresentazione e regia da quella che vorrebbe che dalla crisi si esca con la riproposizione della stessa stesse forme di sfruttamento e di finanziarizzazione della vita activa, magari più mitigate di quelle finora operanti.

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Sono anni che le esperienze più innovative del pensiero critico radicale invitano a guardare senza timore ciò che è accaduto nel modo di produzione capitalistico, dove le dimensioni finanziaria, produttiva e riproduttiva costituiscono una totalità che rende spesso difficile distinguere il ruolo della finanza da quello propriamente produttivo o riproduttivo, intendendo con quest’ultimo non la riproduzione della specie, ma tutto ciò che ha avuto a che fare con i diritti sociali di cittadinanza. In tempi non sospetti, studiosi radicali e dunque non sprovveduti (Christian Marazzi, Carlo Vercellone, Andrea Fumagalli) hanno ampiamente argomentato che la finanza ha assunto una centralità inimmaginabile nel regime di accumulazione capitalistico. Non siamo, tuttavia, all’interno di quei cicli economici che tanto hanno appassionato teorici che pure hanno registrato la centralità della finanza. Tanto Immanuel Wallerstein che David Harvey – solo per citare gli studiosi che all’interno della tradizione socialista hanno provato ad innovarla – assegnano infatti alla finanza un ruolo certo rilevante, ma solo quando si è di fronte al declino di un modo di produzione e di un assetto geopolitico mondiale. La finanza, e su questo il volume di David Harvey L’enigma del capitale (Feltrinelli) è illuminante – è considerata una fase di passaggio tra un regime di accumulazione all’altro, da un modo di produzione all’altro. Insomma, una parentesi che presto o tardi lascierà il posto a un nuovo scenario economico, sociale e politico. Una lettura che rinvia a un prossimo futuro la possibilità di modificare i rapporti di forza nella società. Ma la finanza è ormai molto più che una parentesi, oppure lo strumento attraverso il quale viene governata una transizione. Le transazioni finanziarie, la borsa, i venture capital sono immanenti al capitalismo contemporaneo. Ne definiscono le caratteristiche, fino a diventare un dispositivo che ne garantisce la governamentalità. Per questo, plasma l’accesso ai servizi sociali, rendendo l’indebitamento un fattore costituivo del vivere in società. Dunque qualcosa che esonda il credito al consumo su cui tanti, a sinistra e nei movimenti, hanno visto il fattore scatenante della crisi. Una lettura autoconsolatoria, moralista, come moralista è il discorso di chi invoca la decrescita come strumento atto a contenere il consumo.

E’ però difficile applicare l’invito alla parsimonia quando cresce l’indebitamento per accedere alle cure mediche, alla formazione, alla comunicazione, alla mobilità. Ben prima che un modesto ministro del tesoro, tale Giulio Tremonti, parlasse di finanza creativa, milioni di uomini e donne hanno usato con maestria un indebitamento oculato per vivere in un era di salari bloccati. Oppure che hanno scelto, non tanto in Italia, i fondi pensione per controbilanciare il contenimento salariale su cui è prosperato il cosiddetto neoliberismo. La crisi economica ha reso evidente che l’indebitamento è l’immagine riflessa di una società dove i poveri non sono solo coloro che non trovano collocazione nel mercato del lavoro, perché povertà è divenuta la parola che viene usata, ipocritamente,  per indicare il lavoro vivo nelle diverse forme che regolano la società salariale e, in misura minore, l’accesso al reddito.

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La finanza non è solo questo, ovviamente. E’ però rilevante sottolineare che la finanziarizzazione della vita definisce un panorama in cui il confine tra povertà relativa e povertà assoluta diventa evanescente, perché regolato proprio dalla gestione dell’indebitamento. Di fronte a tante analisi sul declassamento del ceto medio o della società low cost, il consumo è una componente del regime di accumulazione capitalistico che aiuta a definire anch’esso i rapporti di sfruttamento. Da questo punto di vita, l’indebitamento è stato per molto tempo la via spericolata affinché il salario non potesse essere considerato una variabile dipendente dei rapporti sociali di produzione, come invece postulava il mantra dispensato banche centrali o dalla Federal Reserve Bank.

La decrescita, così come certa retorica anticonsumista, prospetta un mondo, e dei rapporti sociali, incentrati sulla penuria. In fondo, i maggiori sponsor del consumo consapevole sono coloro che l’indebitamento generalizzato lo provoca. La crisi economica ha quindi messo in evidenza che la finanza non attiene più alla produzione di denaro a mezzo denaro, ma coinvolge e travolge la «vita activa». E allo stesso tempo ha rivelato la miseria di quella figura dell’individuo proprietario che ha tenuto banco per oltre un quindicennio.

La crisi dei mutui subprime, così quella del debito sovrano ha però mandato in frantumi proprio l’idealtipo dell’individuo proprietario. La sua fine non può che rallegrare. E suonano patetici gli inviti a ricostruirlo, magari mitigato da qualche intervento regolatore dello stato, ricondotto così alla sua funzione pastorale perché esercita un controllo e un potere di interdizione rispetto ai comportamenti che mettono a rischio un nuovo quadro di compatibilità. Nell’Europa del debito sovrano è questo il refrein che viene declamato con convinzione dalle diplomazie e dai governi nazionali, mai così esautorati dall’esercizio della propria sovranità. E questo svuotamento della sovranità nazionale e il commissariamento dei governi nazionali avviene perché la posta in gioco nel vecchio continente è alta e riguarda proprio la gestione della crisi. Le politiche di austerità cercano di ripristinare quel dispositivo che vede la finanza come strumento di governo del processo di accumulazione, di processi produttivi fortemente flessibili e piegati a strategie di innovazione di prodotto e di processo che hanno nella cooperazione sociale produttiva la loro linfa vitale. In altri termini, la via d’uscita dal neoliberismo è un neoliberismo più radicale (la finanziarizzazione della «vita activa»). E’ in questo contesto che molte anime belle del riformismo continentale lanciano grida d’allarme sul fatto che il neolibrismo è nemico giurato della democrazia, dimenticando tuttavia che le basi sono state gettate in quella conferenza di Lisbona dove la «società della conoscenza» veniva indicata come il passo successivo alle politiche tatcheriane che aveva imperversato a Ovest dell’Elba sin dagli anni Ottanta del Novecento.

Condizione necessaria per la società della conoscenza è quella precarietà nei rapporti di lavoro che ha preso il posto del lavoro a tempo indeterminato come norma dominante. Una precarietà che plasma i rapporti sociali, creando non pochi equivoci all’interno del pensiero critico e delle cosiddette pratiche di movimento. Condizione prevalentemente giovanile, sostengono alcuni. Condizione che attiene solo ad alcune figure del lavoro vivo (knowledge worker, freelance, la sequenza può essere molto lunga). Più semplicemente norma dominante. Dunque il precariato non come classe in divenire, ma come figura dominante di tutto il lavoro vivo, anche quando è a tempo indeterminato.

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Ma se questo è il fondale, d’altronde ampiamente noto, in cui collocare l’azione dei movimenti sociali, ben diverso è il palcoscenico vero e proprio. Qui vediamo articolare diversamente l’impoverimento, la finanziarizzazione del welfare state, perché tutto accade in presenza di cooperazione sociale produttiva, sapere, conoscenza messi al lavoro. E’ infatti difficile affermare apoditticamente che nelle economie capitaliste è in atto un processo di impoverimento assoluto, né che i fenomeni sociali possono essere ricondotti a un semplice declassamento delle condizioni di status che colpisce il novantanove per cento della popolazione, operando così, tramite una semplice  constatazione della riduzione del reddito, una ricomposizione sociale del lavoro vivo che si pone invece come il nodo teorico, e dunque politico, ogni volta che un movimento sociale si trova nella condizione di dover fare i conti con la bestia nera del capitalismo cognitivo, cioè quella permanente destrutturazione e ricombinazione delle forze produttive, anche quando si tratta di affrontare il riscaldamento globale o il saccheggio delle terre da parte delle multinazionali agro-alimentari. Sia ben chiaro, non c’è nessuna possibilità di ripristinare nessuna ortodossia, né basta stringere le spalle, perché la crisi comporta una semplificazione della realtà. Più semplicemente, è proprio la crisi che pone al centro della scena il comune,  che costituisce l’apriori e il prodotto della cooperazione sociale. Dunque i movimenti sociali occupano un palcoscenico dove grandi sono le possibilità di libertà, di democrazia radicale, ma anche dove è massimo il rischio di intraprendere strada già note che si sono rivelate vicoli ciechi.

E’ indubbio che gli indignati, e con caratteristiche diverse Occupy Wall Street, costituiscono una felice combinazione di critica alla dittatura della finanza e sperimentazione di una democrazia radicale che assume fino in fondo i mutamenti della forma stato prodotti dalla controrivoluzione liberale. Il diritto all’insolvenza, il rifiuto di pagare la crisi economica sono certo temi che incontrano consenso, mettendo in difficoltà governi nazionali e istituzioni sovranazionali. Ma il rischio è che anche queste esperienze cadano nella trappola di agire come un’opinione pubblica, cioè una variabile dipendente del sistema di potere.

Rischio molto alto, che pone la discussione su un altro piano. Anche in questo caso, va compiuto quel movimento del pensiero che afferma l’autonomia dei movimenti sociali, senza rifiutare di fare i conti con l’eterogeneità, la frammentazione dei movimenti sociali, che ormai hanno un andamento degli sciami che si formano, mostrano la loro potenza per poi disperdersi senza riuscire mai a cogliere i processi di costituzione e di dissoluzione dello sciame. E dunque lasciano da parte le lamentazioni  delle letture sociologiche dei movimenti,  un riflesso autoconsolatorio rispetto alle difficoltà di misurarsi con questa matassa di sfide teoriche e politiche , da parte delle pratiche di movimento. La posta in gioco è assumere la potenza dello sciame con la necessaria  continuità politica, organizzativa dei movimenti sociali.

In tempi neanche tanto lontani, il tema di cosa differenzi un movimento sociale dalle forme novecentesche dell’azione politica è stato, per chi scrive, felicemente risolto attraverso una formulazione che recitava così: il movimento è lo spazio dove vengono politicizzati i rapporti sociali. Una formula, obietterebbe il solito informato. Più concretamente un programma di lavoro, una sfida teorica, che inanella tutti i nodi che i movimenti sociali si trovano a dover sciogliere. Cosa significa, ad esempio, bloccare i flussi di merci, informazioni,vdi lavoro vivo in una metropoli?  Senza superare i confini nazionali, basterebbe ricordare l’esperienza dell’Onda o la proposta dello sciopero precario per segnalare che il problema è molto più cogente di quanto possa apparire.  Oppure, la constatazione che i movimenti sociali riescono sì a rompere il monopolio della decisione politica, ma che spesso corrono ripristinano, in forme spurie, la democrazia rappresentativa o quella strana dimensione del politico che è la costruzione di un universale, che riassuma tutti i particolarismi, come sostiene la critica della ragione populista  quando assegna a un potere esecutivo il momento della sintesi di alleanze sociali nate nella contingenza e dalla sommatoria delle singole debolezze.

Non si tratta di puntare l’indice verso questa o quella esperienza, ma di riconoscere le potenzialità dei movimenti, di riprendere il cammino quando è stato interrotto. Di fare cioè quell’esercizio che si base sull’ottimismo della ragione e della volontà, lasciando agli orfani del quarto stato e dell’altro movimento operaio la triste pratica della realpolitik e alle facili dicotomie che stabiliscono il confine tra sterili mimesi dell’insurrezione e una robusta e predefinita proposta politica che deve solo disfarsi degli ultimi residui passivi di un passato consegnato agli archivi. Più semplicemente, i movimenti sono sempre sul confine della rivolta e del ripiegamento negli angusto spazio concesso all’opinione pubblica. In fondo, non era stato detto, non molto tempo fa, che i tumulti erano proprio la forma prevalente dell’insubordinazione che allude tanto all’insurrezione che al rinnovamento della democrazia radicale nella Repubblica?

Il 15 Ottobre non è stata dunque una occasione persa, né una aggressione a un corteo, ma il condensato politico, e dunque teorico, di ciò che attiene al presente e al futuro dei movimenti. Un presente e un futuro il cui esito è ovviamente incerto.

 

 

 

 

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