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Oltre il determinismo: una storicità sovversiva

 

di ANTONIO NEGRI

Recensione di P. Dardot e C. Laval, Marx. Prenom: Karl, Edizioni Gallimard, Parigi, 2012.

Quali sono i nodi più rilevanti di questo poderoso libro? È necessario chiederselo perché (essendo appunto troppo voluminoso – 800 pagine – da poter esser letto di un solo colpo) solo apprestando dei dispositivi di lettura, esso può essere scorso utilmente e permettere approssimazioni per una lettura centrata sui temi fondamentali e che venga, per così dire, sempre più precisandosi.

Il primo grande nodo consiste nell’espressione della necessità di rompere con la tradizione sempre parziale e settaria (quando non fosse introvabile) degli studi francesi su Marx. Qui invece Marx viene preso per intero, il filosofo l’economista il politico, ed è solo questa lettura, storicamente e filologicamente impiantata, senza “cesure” storiche né teoriche, che può permetterci di riprendere solidamente in mano l’interezza del discorso marxiano e di avanzare ipotesi nuove che si confrontino con quelle marxiane, attorno ad un progetto di emancipazione per l’attualità. Questa distanza critica dalla continuità della tradizione francese (ed in particolare dall’althusserismo), questo sentirsi in un’altra epoca dal XIX e XX secolo, non impedisce che gli autori si impegnino attorno a talune difficoltà ereditate dal passato. Solo per fare un paio di esempi, Dardot-Laval puntano criticamente molto in alto quando, ad esempio, in una polemica che sembra solo terminologica ma non lo è, traducono il concetto marxiano di Mehrwert, con plus-de-value. Non si tratta semplicemente di un’elegante reminiscenza lacaniana ma di una forte polemica, non solo contro un uso consolidato ma (ci sembra) anche contro le concezioni quasi metafisiche del plusvalore che tanto hanno afflitto i comunismi religiosi (cosa che non può lasciare indifferente un “operaista” e rende senz’altro felice chi nell’oggi, nell’epoca del capitalismo cognitivo, considera il Mehrwert senz’altro come una “eccedenza”). Non meno decisiva sembra la presa di distanza, solo per fare un altro esempio, dalla discussione di un tema, indubbiamente centrale per i marxisti, qui preso nel rinnovamento della discussione fra Séve e Fischbach, sulla maggiore o minore rilevanza delle determinazioni oggettive o di quelle soggettive nella costruzione del progetto marxiano di comunismo. È evidente che su questa critica si dovrà ritornare più tardi al termine nella nostra riflessione.

Il secondo nodo sta nell’esporre positivamente la novità del compito di una lettura di Marx oggi. Deve essere una lettura che si confronta con problemi contemporanei e ne propone soluzioni adeguate. Il percorso marxiano va confrontato al fallimento del “socialismo reale”, la dialettica del materialismo storico va messa in tensione con le metodologie genealogiche contemporanee, ed infine la critica economica e le prospettive politiche del marxismo vanno fatte reagire non con modelli astratti ma con le nuove pratiche politiche del proletariato. La definizione del campo di ricerca, attorno alle nuove condizioni dell’emancipazione, esibisce qui una forza critica esuberante, talora distruttiva di vecchi miti, ma costruttiva d’ipotesi feconde. La tensione che qui si apre è molto forte poiché lo stacco metodologico è radicale. Dardot e Laval dichiarano che bisogna leggere Marx per rendere conto di “quello che nel suo pensiero si è rifiutato d’essere pensato” – intendendo con ciò il rifiuto, l’esclusione dal materialismo storico di ogni tendenza evoluzionista, di ogni dialettica chiusa, di ogni teleologia determinista. Perciò si riparte qui da “La Sacra Famiglia”: “La storia non fa nulla, essa non ha dei fini perché essa non è null’altro che l’attività degli uomini che perseguono i loro fini.” Dunque “Il Capitale” va sottoposto ad una critica serrata laddove esso espone una legge che conduce il capitale alla sua propria distruzione. L’affermazione che il capitale è l’ostacolo definitivo allo sviluppo capitalistico e che ciò automaticamente apre al comunismo, negazione della negazione, le determinazioni dall’accumulazione che conducono alla soppressione del capitale – bene, queste sono tutte posizioni che il pensiero marxiano ha subìto piuttosto che elaborato. L’evoluzionismo radicale dell’epoca, una sorta di darwinismo che investe e naturalizza la dialettica hegeliana, le metafore continuamente riprese dall’ostetricia, laddove il capitale genera, concepisce, partorisce il comunismo, si rivelano dannosi per comprendere lo sviluppo reale del capitalismo. Per Dardot e Laval “Il Capitale” non è un trattato di economia politica: è un trattato politico che costruisce una prospettiva di emancipazione; come tale esso va considerato. Il suo metodo non è “trascendentale”, neppure è “induttivo” (non procede cioè per generalizzazioni successive), non è neppure “ipotetico deduttivo” (non trae conseguenze da astrazioni empiriche) e neppure si tratta infine della variante di una pragmatica di “approssimazioni successive”.  “Il Capitale” è piuttosto lo studio di un tessuto storico e va analizzato a partire da un punto di vista genealogico che assume la rivoluzione proletaria (e cioè, contemporaneamente, la storia, il mercato, la critica) dal basso dei movimenti di massa, proletari ed operai. La potenza del metodo foucaultiano va qui assolutamente rivendicata.

Non bisogna credere che questo programma sia facile da sviluppare. Si tratta, di impostare una lettura di Marx che comprenda un progetto di una rivoluzione contro “das Kapital” (come ebbe – felicemente – a scrivere Gramsci nel 1917). Che cosa significa questo? Significa partire da una premessa fondamentale – ma estranea ad una troppo lunga tradizione – e cioè dalla demistificazione dell’ipotesi che la fine del capitalismo costituisca una necessità iscritta nel suo stesso sviluppo. In questo quadro il comunismo è un’idea che si è affermata fra l’ordine necessario dello sviluppo (e della crisi) del capitalismo e, d’altra parte, l’evento di una rivoluzione altrettanto necessaria, quasi naturalisticamente predeterminata. Una volta invece rotto questo nesso e accettata l’ipotesi dell’insolubilità del rapporto fra sviluppo teorico ed effettività storica del comunismo, bisognerà lavorare a definire un nuovo terreno “antropologico” che dia base e spazio all’ipotesi comunista. Questa impostazione non è nuova in Dardot-Laval. Già in “Sauver Marx?” (scritto con El Mouhoub Mouhoud, dal sottotitolo “Epire, multitude, travail immateriel” La Dècouverte, Paris, 2007) si erano posti questo interrogativo andando oltre la demistificazione dell’ipotesi che la fine del capitalismo fosse iscritta nel suo stesso sviluppo. Ma rivendicando il fatto che la rivoluzione non è necessaria, che la dialettica del processo storico si presenta irrisolta, per non cadere in una deriva nihilista è necessario reintrodurre una intuizione strategica che eviti la retorica o l’utopia. Il fondamento antropologico è probabilmente quello che permette questo passaggio, poiché esso scava processi di soggettivazione della lotta di classe. Già nel passato: Edward P. Thompson e Jacques Rancière sono stati, da questo punto di vista, dei maestri. Ma di nuovo, non più nel passato ma nel presente, è soprattutto riferendosi a Foucault che il “farsi” della classe operaia attraverso processi di soggettivazione può essere seguito con efficacia. Inutile sottolineare quanto nella tradizione socialista (e soprattutto in quella francese) questa dinamica antropologica (meglio, il “farsi”  e la trasformazione antropologica della classe operaia attraverso le lotte) sia stata dimenticata. Di contro, sottolineano Dardot-Laval, è solo un’interpretazione “espressiva” della storia dei conflitti di classe che può aprire ad una proiezione “strategica” del comunismo. La Comune di Parigi è un enigma se la si vuole assumere dal punto di vista storico; nulla di quanto ne sappiamo può darci la garanzia teorica di una ideale forma di governo; essa è piuttosto una matrice di soggettività, una potenza dell’immaginazione collettiva che investe l’a-venire.

Vi sono delle pagine bellissime su questa ipotesi, nel libro di Dardot e Laval,  nelle quali si tenta di recuperare, meglio, di riproporre, il tema dell’emancipazione, rompendo con ogni ipotesi riduttiva (naturalistica, comunitaria, organica, ecc.) e agganciando invece un concetto di “produzione del comune” – di cui Rousseau ha (Dardot – Laval ritengono) forse approssimato meglio di ogni altro la figura – e che va ora sviluppato attraverso nuove esperienze di lotta, tanto riformiste quanto sovversive. Qualche riflessione in proposito. È chiaro che si può perfettamente assumere Rousseau e fargli sostenere questa figura del “comune”: è un Rousseau che denaturalizza la natura, che impone al contratto una dimensione di solidarietà irriducibile all’alienazione individuale (che pur del contratto è all’origine!), che mostra l’emancipazione non come una “riduzione” all’uno ma come “produzione” plurima, etica. Ma questo resta pur sempre un aspetto del rousseauismo, legittimo eppure parziale, ed accompagnato ben più massicciamente da un altro Rousseau – giacobino, hobbesiano, piuttosto che spinozista. Il socialismo (soprattutto quello francese) si è sempre mosso mantenendo questa ambiguità. Quale dei due Rousseau Marx ha assunto? Come Dardot e Laval, sono convinto che si trattasse del Rousseau solidale – riservandosi tuttavia, Marx, di far assumere anche a Rousseau quel fondamento oggettivo del comunismo che gli era proprio. Ragioniamoci su un momento. Sul terreno marxiano, risultava più semplice chiamare “comune” quel centro di imputazione che in Rousseau la realizzazione del contratto sociale definisce come “repubblica” o “sovranità popolare”. Ma questo ci rinvia di nuovo alla concezione moderna dello Stato piuttosto che dentro la vicenda utopica del comunismo, nell’attualità “postmoderna”. E allora, mantenere il riferimento all’ambiguo Rousseau ed attribuirne la faccia “buona” a Marx, non ci aiuta a semplificare il problema. Non è meglio assumere che esistano condizioni “comuni” (nel caso: i movimenti e le trasformazioni della forza-lavoro che divengono sempre più comuni, in quanto linguistiche, cognitive, affettive, ecc.) a determinare così il campo oggettivo della solidarietà, dell’emancipazione e del comune? Certo, non è detto che questi movimenti e trasformazioni determinino necessariamente un’evoluzione verso il comunismo – la distanza fra il sociale e il politico è in ogni caso massima – ma le probabilità aumentano, nuove condizioni si presentano, l’evento è possibile. Insomma, se il comune non è una mediazione oggettiva (che resterebbe comunque astratta), lo sviluppo storico della forza-lavoro e le trasformazioni tecniche, politiche ed antropologiche della sua composizione (sospinte dalle lotte contro lo sfruttamento) gliene propone maggiori potenzialità. La mediazione fra storia e decisione si approssima. Senza di nuovo ricorrere, come troppo spesso hanno fatto inutilmente gli interpreti francesi, al buon Rousseau.

L’affermazione fondamentale di Dardot e Laval sull’irrisolta dialettica del processo storico, comprende un’ampia serie di complementi metodologici. Analizzando il rapporto Hegel/Marx, si mette qui in discussione la dialettica hegeliana (nelle forme in cui Marx la recepisce – e qui la critica  non avrebbe potuto andare più a fondo) ed in particolare la crisi che la dialettica recepita da Marx conosce ogni qual volta essa definisca nessi lineari o addirittura tautologici fra presupposti e risultati del processo storico, destituendone radicalmente ogni possibilità di originalità e/o di innovazione. La relazione fra “esser-la” e “divenire” è sempre ripetitiva, ipostatizza il Dasein, l’effettività, determina analogie sistemiche sempre corrotte, insomma non riesce a darci la realtà profonda, la chiave dello sviluppo, del conflitto, dell’emancipazione. Questo nesso, lasciato da Hegel in eredità a Marx, inficia pesantemente la sua opera. Abbiamo già accennato al fatto che Dardot e Laval studiano il meglio dell’attuale critica hegelo-marxista (il new turn of dialectics di Chr. Arthur e di M. Postone ed in generale quel che avviene a Francoforte e nei suoi paraggi) per attaccare quel nesso dialettico, non solo dunque nella sua “esposizione lineare” ma anche in quella “sistematica”. Essi evidentemente lo fanno per liberare da ogni riduzionismo logico o sistematico quelle categorie hegelo-marxiste che falsificano la figura genealogica di un possibile procedere marxiano. Infatti, se ci teniamo alla logica dialettica, se confondiamo l’astrazione delle sue categorie e le determinazioni dello sviluppo storico reale, noi non usciamo da quel circolo magico nel quale “il presupposto del capitale (per esempio il valore) è nello stesso tempo il risultato del capitalismo” (ed altrettanto vale per il denaro). La dialettica del presupposto destituisce radicalmente ogni proposta speculativa, ogni verità originaria ed ogni azione originale di chi consiste e si muove nella realtà.

Tutto ci dice che Marx abbiamo sofferto questo limite della teoria come uno vero e proprio shock – che forse (aggiungono Dardot-Laval) l’avrebbe costretto a sospendere la scrittura del terzo volume de Il Capitale e a rinunciare alla stesura di quel capitolo sul concetto di “classe” che doveva rintrodurre la soggettività nel processo di emancipazione rivoluzionaria. Forse… È certo che negli anni 1870-80 Marx comincia a studiare (accanto a mille altri argomenti) l’etnologia – e si appassiona (Dardot-Laval giustamente raccomandano di non sopravvalutare l’episodio) allo studio delle forme di comunità estranee allo sviluppo capitalista. Sono state l’esperienza della Comune o quella delle lotte in Russia (che allora entrano nel giro socialista europeo) che gli hanno fatto sentire l’insufficienza delle piste definite nel Capitale e l’urgenza di mettere i piedi per terra, non attraverso la dialettica ma attraverso l’antropologia? Forse… È certo che ogni qual volta ci si scontri con le modificazioni del modo di produzione o con le trasformazioni della composizione di classe, coloro che insieme sono comunisti e marxisti sentono la necessità di rompere quell’“incantesimo del metodo” di cui lo stesso Marx è autore e prigioniero. Mi si permetta qui di ricordare come, nello stesso modo Dardot e Laval sentono quest’urgenza critica, la sentirono gli operaisti italiani fra il ’60 e il ’70 – concludendo, i primi come i secondi, alla costruzione di un nuovo approccio antropologico alla realtà della lotta di classe, ad un nuovo punto di vista dal basso che rinnovando la critica antagonista costruiva materialmente le armi dell’emancipazione. Dire quanto l’insegnamento di Foucault sia stato importante, in vari momenti di questo cammino critico, per considerare la prospettiva, è evidentemente un pleonasmo.

“Io non sono marxista”: non è dunque una boutade di Marx contro i suoi fedeli e i suoi adulatori ma il riconoscimento che l’opera andava conclusa e che la sua conclusione doveva andare oltre l’opera stessa. Marx vive e soffre l’insolubilità della connessione fra “sviluppo teorico” ed “effettività storica” del comunismo. Che cosa potremo aggiungere noi che abbiamo vissuto e sofferto il fallimento del “socialismo reale” e delle politiche dei partiti comunisti come esperienza centrale nella nostra militanza? Nulla – noi possiamo solo consentire, proseguendo tuttavia nell’approfondimento dello studio e della pratica della lotta di classe. Non curiamoci dunque dei filologi marxisti che accuseranno Dardot e Laval di avere spaccato in due Il Capitale. Il problema semmai, al contrario, è quello di chiedersi se non abbiano ancora abbastanza separato la classe dal capitale, se non abbiano, nell’attualità, sufficientemente “spezzato l’uno in due”: ma questo è un altro discorso e diventa legittimo farlo solo dentro le lotte, una volta che il cammino indicato da Dardot e Laval sia stato percorso e digerito. Quel che è sicuro è che questa introduzione critica e metodica risulta pregiudizialmente necessaria alla questione: possiamo uscire dal capitalismo? Per ora, se siamo riusciti a disarticolare la logica del capitale e la logica delle lotte, la risposta definitiva ce la daranno coloro che vogliono procedere sulla via dell’emancipazione collettiva, nella costruzione dunque del comunismo. Queste riposte saranno allora intese a rafforzare, non a chiudere dentro un nesso riformista (e dialettico), la tensione fra Stato-capitale (strutture ormai indistinguibili) e la forza-lavoro globalmente sfruttata, fra quel capitale-mondo (che i processi di globalizzazione e di sussunzione reale hanno costruito) ed una forza di resistenza che si proponga a quell’altezza. Ma tutto ciò non è ancora sufficiente se non si apprende a mettere in moto quei processi di soggettivazione, descritti da Foucault, “per mezzo dei quali gli ‘attori’ che sono impegnati nei rapporti conflittuali trasformano se stessi a misura dello sviluppo della lotta, nel medesimo tempo in cui essi trasformano la situazione e creano così le condizioni di una loro eventuale vittoria. Il legame fra la natura “strategica” dei rapporti sociali e la formazione delle soggettività di classe è precisamente uno degli aspetti più originali e più interessanti del pensiero di Marx.” Questo riconoscimento onora la profonda originalità dell’opera di Dardot e Laval.

Resta un problema da discutere – lo accennavamo all’inizio – quello cioè del rapporto fra logica politica, storica, dell’immanenza strategica delle lotte e logica di sistema in Marx. Ricomporre queste due logiche è, secondo Dardot e Laval, impossibile. Ma, essi aggiungono, è da questa impossibilità che nasce oggi il nostro compito politico di comunisti, non più costretti al determinismo bensì aperti all’attualizzazione del comunismo. Ma, si può obbiettare, questo dualismo non è eccessivo? Come si può negare che su molti punti (per esempio, la narrativa del passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo, oppure quella della trasformazione della sussunzione da formale a reale, ecc.) le due logiche si incrocino? Dardot-Laval non lo negano ma ritengono questo incrocio privo di risonanze strutturali nello sviluppo del discorso marxiano. Questa conclusione ci sembra tuttavia povera. Se Marx è – come Dardot e Laval sostengono – “una macchina” di pensiero e di azione, anche il rapporto fra quelle due linee della critica dell’economica politica lo deve essere; e quando si incrociano, quelle due linee, non è semplicemente per scavalcarsi ma piuttosto per determinare nuovi punti di partenza, nuove aperture su nuove accumulazioni di eventi storici e di trasformazioni tecnologiche. La storia del tempo presente – in maniera non determinista ma semplicemente perché è essa stessa “storicità” – si nutre del tempo passato: della storia delle lotte come dell’accumularsi delle trasformazioni tecnologiche. La “composizione tecnica” del proletariato, quella della classe operaia, quella della moltitudine, riposano su temporalità diverse, quindi su una storia di lotte dentro diverse composizioni tecniche del comando capitalista – il cui accumularsi, così come avviene per gli eventi storico-politici, determina differenti processi di soggettivazione, diverse condensazioni antropologiche, nuove “composizioni politiche”. Non c’è determinismo nel tracciare queste relazioni ma semplicemente il riconoscimento della potenza della storicità: quod factum infectum fieri nequit. Il proletariato, oggi, scopre la storia nel rapporto con la nuova “composizione organica” del capitale che ha sussunto società e vita: è qui dentro che si ribella e reinventa il comunismo. Siamo d’accordo con Dardot-Laval che qui dentro c’è di nuovo Marx – non ci sono né Proudhon né i marxismi di una vulgata corrotta e traditrice. Ed è qui che il lavoro politico comune può procedere.

 

 

 

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