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Oltre l’emergenza. Pratiche, condotte ed esperienze di “comune” nel Sud Italia

 

di FRANCESCO FESTA

“Io ho capito perché a noi ci hanno sempre chiamato Mezzogiorno d’Italia, per essere sicuri che a qualunque ora scendessero al Sud, si trovassero sempre in orario per mangiarci sopra” (trad. M. Troisi).

L’intento di questo scritto è quello di ripercorrere le origini della formazione discorsiva dell’emergenza nel sud Italia, e di come tale dispositivo sia divenuto “stato d’eccezione permanente, il miglior paradigma interpretativo delle forme più avanzate della governance contemporanea nel sud Italia” (Amendola 2008, p. 26). Inizialmente, ricorreremo al termine di razza per descrivere determinati processi di razzializzazione nel periodo di formazione e consolidamento dell’unità d’Italia. Seguiremo, poi, le tracce di alcuni movimenti che, nel loro esercizio di sottrazione e di “reversibilità” della categoria di emergenza, hanno prodotto situazioni e contesti che definiamo “comune” – come ha fatto notare Michael Hardt in una recente intervista sul sito di UniNomade – per l’autorganizzazione e per l’accesso a tutte/i dei beni materiali e/o immateriali. In alcuni casi, ci troveremo dinanzi a condotte o “contro-condotte” nelle prassi di movimenti (Foucault 2004); mentre, in altri casi, assisteremo a esperienze di tentata realizzazione di auto-valorizzazione del lavoro vivo e della cooperazione sociale. In quest’ultima parte, attraverso una rivisitazione dei paradigmi gramsciani, in particolar modo della categoria analitica della “subalternità”, tenteremo di leggere non solo i lineamenti postcoloniali del Mezzogiorno d’Italia ma anche e soprattutto le forme di espressione e “gli aspetti elementari delle rivolte” (Guha 2008), delle lotte e delle mobilitazioni dei gruppi subalterni nella “società politica” (Chatterjee 2004) meridionale.

1. Parlare di emergenza significa avvicinarsi a un luogo discorsivo, molteplice e variegato, e di conseguenza abbastanza sfuggente e contraddittorio, qual è il campo semantico della razza e del razzismo, del discorso coloniale e post-coloniale, della formazione dell’identità nazionale e della costruzione degli stereotipi, dei pregiudizi e degli immaginari antimeridionali. In altre parole: significa decifrare quel complesso e compenetrante rapporto fra la costituzione di pratiche di potere (le “leggi speciali” o i dispositivi di emergenza) e la formazione di campi di enunciazione (i discorsi inferiorizzanti o l’immaginario del razzismo).

Avanziamo alcune ipotesi nell’intento di prendere parola e di problematizzare il processo – nient’affatto lineare e tantomeno romanticamente glorioso – del Risorgimento italiano e il consolidamento economico, politico, giuridico e culturale del Regno d’Italia. Dinanzi alle formazioni nazionalistiche è buona regola rileggerne in maniera contrappuntistica le identità, per portarne alla luce narrazioni alternative o nuove, per spazzolare “contropelo” la storia dell’identità italiana (Mezzadra 2008) e per indagare quanto sia plausibile che lo sguardo dei soldati piemontesi e delle truppe garibaldine rivolto ai “caffoni” del Mezzogiorno fosse uno sguardo coloniale. Di come lo stesso sguardo, ponendo l’Altro in condizione d’inferiorità, abbia funzionato come violenza epistemica, su cui sono andate ordinandosi le diverse fasi della dominazione coloniale in Africa. E ancora: come lo stesso sguardo, abbia offerto, a cavallo tra l’Otto e il Novecento, materiale agli esponenti della scuola di antropologia criminale, di derivazione darwiniana, per imboccare la “scorciatoia” dell’interpretazione razziale delle “due italie” e dell’inferiorità del Mezzogiorno, per disegnare stereotipi e forgiare pregiudizi antimeridionali.

E’ proprio da quel periodo che termini come “barbaro”, “degenerato”, “inferiore”, “degradato” entrano nel linguaggio comune per indicare le popolazioni del sud Italia. Un passaggio importante nella produzione di questi termini è il discorso complessivo del Risorgimento. E’ possibile avvertirlo nei topoi circolanti all’interno dei carteggi e dei dibattiti parlamentari e, in genere, nella pubblicistica del tempo, dove si va facendo esplicito richiamo alle vecchie e nuove pratiche coloniali per sensibilizzare l’opinione pubblica europea sulle efferatezze perpetrate dall’esercito italiano contro i contadini meridionali. Ad esempio, nel 1861, Pietro Calà d’Ulloa, alto magistrato della Corte suprema di Napoli, si chiedeva: “non facevano le stesse cose gli inglesi in India, i francesi in Algeria, non avevano agito con la medesima accortezza gli spagnoli nel Messico e nel Perù contro i barbari?” D’altro canto, “il modello inglese di relazioni coloniali” non serve soltanto per stigmatizzare “l’arbitraria estensione alle province meridionali d’Italia.”, esso è noto a intellettuali e politici sabaudi anche come un efficace e feroce modello di governo coloniale. Proprio a Torino, nel 1862, un anonimo avrebbe suggerito per i “riottosi” e “barbari” meridionali l’esempio offerto dallo sterminio delle truppe coloniali britanniche (i sepoys indigeni fucilati a migliaia) perpetrato dopo la grande insurrezione indiana del 1856 (Martucci 1999, p. 294). “Barbari”, “primitivi”, “inferiori” divengono il campo semantico da cui attingere per creare consensi rispetto alla “guerra al brigante”.

Anche quando è incoraggiato e sostenuto da forze fedeli ai Borboni, il brigantaggio ha profonde radici storiche, economiche, sociali e culturali, tanto da assumere i contorni di una “guerra di popolo”. Non è un fenomeno criminale, come segnalano molti studiosi e uomini politici del tempo. E, infatti, la sua repressione violenta va accentuando considerevolmente quel sentimento di ostilità e rancore delle popolazioni meridionali verso un potere centrale, lontano, distante e “straniero”. Nondimeno è un fatto storico archiviabile dentro la cornice del folklore o da annoverare all’interno dell’“invenzione della tradizione”. La “guerra al brigante” è stata una vera guerra. Una guerra combattuta dall’esercito piemontese e contrabbandata come “liberazione”. Essa invece ha rappresentato un passaggio dolorosamente necessario per affermare, in molte province del Mezzogiorno, la rivoluzione borghese che era in atto in scenari territorialmente più ampi e internazioni; per conquistare e consolidare nuovi equilibri di potere e sopravvivenza; che si è protratta, in modalità meno emergenziali, fino agli inizi del Novecento; i cui effetti sono stati laceranti e profondi per numerose comunità che hanno visto la distruzione di attività economiche, di interi paesi e culture locali.

Una guerra al brigantaggio contadino insorto tanto in reazione allo straniero invasore, anche in difesa dello status quo ante, quanto, soprattutto, come lotta al potere in quanto tale, quale esso sia. Questa guerra ha salvaguardato la classe dei “galantuomini”, la borghesia agricola. Non è andata intaccando gli interessi del grande latifondo. Al contrario, gli ha permesso di crescere ulteriormente e giovarsene sia per togliere di mezzo le rivolte contadine e le organizzazioni mutualistiche, sia per trasformare in termini intensivi la produzione agricola del latifondo stesso. Per altri versi, l’individuazione delle diversità economiche, etniche, culturali delle genti d’Italia, è stata considerata dalla maggioranza parlamentare, espressione della borghesia industriale settentrionale, elemento di differenziazione dell’economia italiana o di valorizzazione della sua dualità. Vale a dire: “incremento economico-industriale” al Nord e mantenimento del latifondo al Sud. Il che ha significato “l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionali”, come Gramsci ha notato nel 1935:

“La “miseria” del Mezzogiorno era “inspiegabile” storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale tra città e campagna, cioè che il Nord era concretamente una “piovra” che si arricchiva alle spese del Sud e che il [suo] incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto più che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno non rimaneva che una spiegazione:l’incapacità organizzativa degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni furono consolidate da sociologi del positivismo […] assumendo la forza di “verità scientifica” in un tempo di superstizione della scienza […]. Intanto rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una “palla di piombo” per l’Italia, la persuasione che più grandi progressi avrebbe fatto senza questa “palla di piombo” ecc.” (Gramsci 1947, pp. 2021-2022).

2. Alla fine dell’800, un vero arsenale di teorie scientifiche (biologiche, mediche, psicologiche, antropologiche, criminologiche, sociali) va configurandosi come un corpus organizzato in nome della difesa della razza e della nazione dai pericoli della degenerazione fisica e morale. Arsenale che, poi, va strutturandosi organicamente e in termini reazionari durante il fascismo: effettivamente, il Manifesto della razza del 1938 è la cifra complessiva del costituirsi di questo arsenale di teorie scientifiche. Esso va prendendo corpo nel corso del processo di formazione dello stato italiano, svolgendo la duplice funzione di: a. fondare “scientificamente” le gerarchie antropologiche in base alle quali verrà poi organizzandosi un nuovo assetto politico e sociale; b. legittimare le pratiche discriminatorie.

Negli anni ’60 del Novecento, le stesse pratiche saranno utilizzate nei riguardi della forza-lavoro meridionale emigrata al Nord e, oggi, sono in azione sulla forza-lavoro migrante. E’ una “proprietà transitiva dell’odio” (Teti 1993) o neorazzismo che, in tempo di “crisi”, diviene pratica quotidiana anche in territori che hanno conosciuto e subito l’emigrazione e le discriminazioni razziali e il pregiudizio antimeridionale, le mescolanze e la solidarietà. Un fenomeno segnalato da Miguel Mellino come “inconscio coloniale delle strutture del sentire nazionale”, nel senso che “proprio la codificazione culturale e la stratificazione del razzismo antimeridionale e di quello coloniale, nella formazione identitaria nazionale, permette il riemergere di stereotipi o meccanismi inferiorizzanti in ogni momento, come possibile risposta economica e politica alle esigenze del capitale o alle crisi di accumulazione capitalistica” (Mellino 2011, pp. 57-59).

Se osserviamo più attentamente le modalità di attivazione del razzismo, si può notare come il suo funzionamento interno è ben più complesso e contraddittorio di quanto si pensi. Si passa da una posizione genericamente discriminatoria a una posizione specificamente razzista nella trascrizione in chiave naturalistica di caratteristiche reali o presunte, fisiche, sociali, religiose, culturali, politiche o economiche, in base alle quali determinati soggetti sono distinti dal resto della popolazione e discriminati. Detto altrimenti: ciò che tiene su il discorso razziale è la riduzione a natura, l’essenzializzazione di culture e sistemi di relazione, di forme di vita, funzioni sociali e comportamenti. L’idea che una presunta base naturale racchiuda in sé le ragioni dell’inferiorità di alcuni gruppi umani (e la giustificazione della loro discriminazione) si riflette nella perentoria affermazione della immutabilità del loro modo di essere e di agire (Burgio 2000, Nani 2006).

Una volta attivato, il discorso razziale può schiudersi verso molteplici direzioni. Uno stesso stereotipo può essere adoperato nei confronti di tutti quei gruppi umani ai quali vengono via via attribuite caratteristiche naturali negative. Nel caso dell’antimeridionalismo, una volta segnalata e “presentata” la “razza”, le teorie dei positivisti fecero il resto. E’ stata prodotta molta letteratura, soprattutto di fantasia, sviluppando a quello che il meridionalista di posizioni innovative e decisamente antirazziali, Napoleone Colajanni, ha definito il “romanzo antropologico”, ovverosia la percezione e la costruzione di una realtà meridionale, unitaria, non più composta di notevoli differenze interne e con tipizzazioni locali, ma come luogo estremo di “alterità”, di “primitività”, di “arcaicità” (Colajanni 1898). Il meridione diventa oggetto del dispositivo dell’“orientalismo”, viene inventato come luogo omogeneo e compatto dell’alterità. E, in un’Italia unificata, l’omogeneità del Sud, di riflesso, va contrapponendosi al Nord oppure, in altri termini, il Nord viene specchiandosi sul Sud.

Queste sono le basi ideologiche su cui va speculando la scuola antropologico-criminale di Cesare Lombroso, degli psichiatri Enrico Ferri e Raffaele Garofalo e dell’antropologo siciliano Alfredo Niceforo che elabora la teoria di razze superiori e razze inferiori, zone inferiori e zone superiori, gli italici e gli arii, i mediterranei e i celti (Sergi 1898). Secondo questa divisione, i popoli dell’Italia Meridionale sarebbero passionali, individualisti, con scarso senso morale e spirito organizzativo; mentre, i Settentrionali avrebbero una psicologia fredda, un “io” scarsamente eccitabile, tendente alla socialità, all’organizzazione, a interessi politici. Queste sono le distinzioni a cui, con altre implicazioni razziste e politiche, giungono gli antropologi positivisti, seguiti poi da criminologi, sociologi, biologi, psichiatri, ecc. Si coniano teorie, elaborando tipizzazioni rispetto a una presunta “meridionalità”, di modo che emergano paralleli fra gruppi di popolazioni che, secondo distinzioni razziali, sarebbero “inferiorizzabili” e “subordinati”, per natura (Niceforo 1898). Alcuni esempi: “vecchio”, secondo gli psichiatri Ernesto Tanzi e Eugenio Lugaro è un aggettivo adoperabile per il popolo ebraico (“razza inquinata” da troppi frequenti matrimoni tra consanguinei), ma, analogo, sembra a Paolo Orano, il popolo sardo, reso dall’isolamento moralmente e biologicamente “anemico” e “sonnolente” di razza, quindi preda di “inveteramento e restio alle conquiste della civiltà sempre nuove”. La razza, poi, viene ricacciata al livello della natura animale o alle fasi “primordiali”, “primitive” dello sviluppo umano. Questo vale ancora per gli studi sui sardi di Orano e in generale per i nativi del Mezzogiorno d’Italia che, in un gioco di specchi, vengono apparentati agli “affricani”, paradigma vivente della “primitività”, ridotti a loro volta a immagine esplicativa della natura dei meridionali (Teti 1993). Ne deriva anche l’idea elaborata dall’antropologo siciliano Alfredo Niceforo che le masse meridionali siano incapaci di “organamento sociale” e, per natura, inadatte al “self government”. Da qui, la strada è tutta in discesa, con un passo breve si approda al terreno storico e sociale, vanno inventandosi teorie riguardo popoli “senza storia”, “fuori della civiltà”, di cui fanno parte gli slavi di Attilio Tamaro, gli ebrei di Orano (“concezione passiva della vita”, antitetica a quella del “costruttivo occidente”) e i meridionali di Giuseppe Sergi e di Niceforo, la cui “arretratezza” assume, così, i tratti di un “destino”. “Senza storia” sono in sostanza “belve assetate di sangue”, simili alla “plebe”, di per sé più vicini “all’animalità che all’umanità” (Camillo De Meis); e simili agli ebrei, “cani” che “latrano per tutte le vie”; simili ai “negri”, esseri di “tipo scimmiesco” (Niccolò Marselli); alla donna, “indomita fiera” o “funzione riproduttrice”, per Lombroso; e infine ai “piccoli borghesi” di Giovanni Boine, “piccoli animali voraci, con piccoli bisogni”. E poi, l’ebreo è simile alla donna, dunque affine alla “plebe”, che, se da una parte, somiglia alla “massa dei diseredati” del Sud d’Italia e del mondo, dall’altra, lascia intravvedere alle sue spalle la “proteiforme” galleria degli anormali e dei degenerati. I briganti sono come i “negri”, falsi e femminei, diabolici e bestiali, dunque non dissimili dagli slavi e dagli ebrei, e simili agli africani (Nani 2006).

Con cognizione di causa, il meridionalista Ettore Ciccotti parla, appunto, di una “specie di antisemitismo” a proposito del pregiudizio antimeridionale che dilagava in Italia a cavallo del secolo (Ciccotti 1904).

L’arsenale dell’antimeridionalismo, lavorando per mezzo di rimandi interni in un continuo gioco di allusioni, si va componendo di ossessivi richiami a categorie e termini quali “civiltà”, “barbari”, “animalità”, “inferiori”, che fungono e da collante per l’edificazione di un’identità e da specchio nel quale riflettersi al fine di verificare le differenze da cui discostarsi, ma anche su cui riflettersi. Ciò perché il dispositivo dell’“identità” è fondamentalmente una relazione, che rimanda alla “proprietà”, alla “violenza” e alle “gerarchie”, l’identità italiana, come si è cercato di mostrare fin qui, è manifestamente il prodotto di una relazione coloniale fondata sulla violenza e sulla “subordinazione”. Per liberarsene è opportuno anzitutto svelarne l’intreccio e, poi, “riappropriarsi simmetricamente dell’identità”. Antonio Negri e Michael Hardt non lasciano dubbi in merito: “come altri generi di proprietà, l’identità sostiene la gerarchia, in primo luogo, con un sistema di strutture e di istituzioni sociali. La prima mossa di una politica dell’identità è dunque quella di combattere il buio e le tenebre svelando la brutalità troppo a lungo occultata dei regimi e dei meccanismi della subordinazione, della segmentazione e dell’esclusione sociale e istituzionale che lavorano lungo le linee dell’identità. Rendere visibile la subordinazione imposta dall’identità in quanto proprietà implica, in un certo senso, una simmetrica riappropriazione dell’identità” (Hardt, Negri 2009, p. 327).

Allo stesso tempo, l’identità e l’alterità sono i significanti su cui si muovono lo storicismo europeo e la logica del colonialismo. L’insieme di opposizioni binarie e i tempi progressivi cadenzano i ritmi della narrazione del mito risorgimentale e fanno da sfondo al “romanzo antropologico”. Civilizzazione/barbarie, storia/preistoria, omogeneità/eterogeneità, centro/periferia, sviluppo/sottosviluppo hanno funzionato alla perfezione nel modellare i pregiudizi antimeridionali e sull’incapacità di governarsi. Ecco il terreno su cui ha messo radici l’idea delle misure speciali e dei dispositivi eccezionali finalizzati a “…guarire in un colpo i mali economici e morali” delle popolazioni meridionali, come esemplarmente esortava, nel 1871, l’economista Luigi Luzzatti.

3. La mentalità della scuola positivista e l’invenzione del “romanzo antropologico” hanno influenzato, sia pure per ragioni di difesa, sia per reazione, anche gli stessi studiosi meridionali e i meridionalisti. Non è un caso che nel primo decennio del secolo scorso, vada diffondendosi l’urgenza di conoscere il Sud. Nel 1902, Giuseppe Zanardelli è stato il primo Presidente del consiglio a superare la soglia di Napoli, visitando la Basilicata, una delle regioni allora più povere d’Italia, per constatare personalmente i problemi legati al Sud della penisola. In generale, la conoscenza in quel tempo passa per mezzo dello strumento delle inchieste. La più famosa è quella di Francesco Saverio Nitti ed Eugenio Faina, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, avviata nel 1906, i cui risultati sono stati pubblicati tra il 1909 e il 1911. Non è l’unica, diverse sono le inchieste volte ad indagare proprio l’alterità del Sud. Questa Inchiesta è significativa poiché in essa si parla chiaramente dell’inferiorità del contadino meridionale. Pur considerata un prodotto storico e ambientale, l’inferiorità viene segnalata con termini come “frode”, “violenza”, “basso livello intellettuale e morale”. Vengono poi riproposte alcune tipizzazioni ed essenzializzazioni regionali, sostanzialmente negative, così come si sono configurate nel corso dei secoli, ma nell’invenzione di un’identità meridionale, si avverte aleggiare l’influenza e il peso del “romanzo antropologico”.

Proprio nel punto in cui si situano posizioni, chiaramente o velatamente razziste, nella costruzione di un’Italia “superiore” e di un’Italia “inferiore”, allignano le premesse, sotterranee e profonde, del razzismo su cui è andato formandosi il dispositivo dell’emergenza e, poi, la governamentalizzazione del meridione. La retorica funziona così: inadatto nell’arte di governo, il Sud può essere condotto verso la civiltà e la modernità soltanto tramite misure eccezionali, criteri straordinari. In altre parole: soltanto leggi speciali, pratiche straordinarie di governo potranno addomesticare la riottosità delle comunità locali, le insorgenze e le rivolte per la terra; potranno organizzare la forza-lavoro, favorendo la “grande trasformazione” dell’economia italiana, la sostituzione dell’agricoltura con la grande industria, come forma principale di produzione. Lo “stato d’eccezione” garantisce proprio la transizione dalla rendita al profitto. Un paradigma di governo che, fin da subito, diviene carattere ordinario dell’azione politica: legislazione speciale passa dall’essere misura straordinaria, dei primi anni dell’Italia unita, a funzione ordinaria dell’azione governamentale, nel ventennio successivo, spaziando in più campi nei quali s’interviene con sempre più frequenti dispositivi amministrativi di tipo dirigista e autoritario.

Dagli anni ‘70 dell’Ottocento, una serie ininterrotta di “leggi speciali”, in campo economico, politico, militare, scolastico, vanno ridisegnando la mappa del potere amministrativo nazionale e locale attraverso una gestione tipicamente coloniale, connotata da elementi di securitarismo e razzismo, in cui i governi locali sono sottoposti al rigido controllo del governo centrale.

Nel Sud, sono stati introdotti, per dirla con Michel Foucault, “un’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche” che hanno permesso di esercitare una forma specifica e complessa di potere che ha avuto nella popolazione meridionale “il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale” (Foucault 2004, p. 88).

L’inchiesta sulla povertà di Nitti e Faina e le altre che si sono susseguite, sono appunto quelle tecniche e quei saperi che hanno predisposto l’emergenza “nei termini di sicurezza e di benessere indirizzate a specifici gruppi di popolazione”, ossia ai contadini e ai gruppi subalterni meridionali. Il sapere dedotto dalle inchieste pone al centro la questione delle condizioni oggettive di vita di questi gruppi, determinando uno scarto tra la sovranità, dove il soggetto del potere è il cittadino dotato di diritti e la cui partecipazione rappresenta la fonte di legittimazione del regime stesso, e la governamentalità, dove il potere di enumerare, quantificare “gruppi di popolazione” è proteso verso la conservazione del regime, il “benessere della popolazione”.

Dagli studi di Partha Chatterjee sul nazionalismo indiano, proviamo a rintracciare i fili dell’azione dello Stato nel Mezzogiorno, nel tentativo di spiazzare letture assolutorie e/o apologetiche. Per mezzo di “leggi speciali” prodotte tanto dai politici liberali quanto da quelli dichiaratamente meridionalisti, intervento governativo è stato finalizzato allo “sviluppo” e all’“allineamento” con gli indici virtuosi di altre province d’Italia. Per Chatterjee, nella dimensione postcoloniale, la società civile si pone in relazione con lo stato-nazione attraverso le articolazioni tradizionali della democrazia, attraverso la sovranità popolare, l’uguaglianza dei diritti di tutte/i le/i cittadine/i, le forme tradizionali e giudiricamente strutturate della partecipazione e della rappresentanza democratica. Insomma, l’insieme di relazioni concettuali che si pongono all’interno della definizione di “società civile”. Eppure c’è uno spazio “altro” che resta fuori o ai margini della società civile, anche se è ragione della sua esistenza, quello spazio dell’eccezione in cui agiscono i processi di razzializzazione verso un “gruppo” determinato, i subalterni meridionali, che giustificano l’attività dei gruppi dominanti: “la subordinazione non può essere compresa se non come uno dei termini costitutivi, assieme al dominio, di una relazione binaria secondo la quale ‘i gruppi subalterni sono sempre soggetti all’attività dei gruppi dominanti, anche se essi si ribellano e insorgono’” (Guha 2002, p. 30). Sovranità e governamentalità, subalternità e autonomia/resistenza sono quindi i due poli dialettici di riferimento sui quali si muove l’azione politica delle classi dominanti. Però, l’affermazione del dominio parla in termini eloquenti anche del suo Altro, della resistenza. La subordinazione come ideale e come norma deve giocoforza riconoscere il fatto e la possibilità dell’insubordinazione. Ma quest’ultima deve essere ricondotta all’interno di uno spazio, quello dell’eccezione, dove la sospensione della norma permette l’ingresso di forme multiple di controllo e sicurezza volto a specifici gruppi di popolazione. Questo spazio per Chatterjee è la “società politica”: “spazio di connessione, negoziazione e contestazione creato dalle attività governamentali che effettuano azioni politiche di sicurezza e di benessere indirizzate a specifici gruppi di popolazione” (Chatterjee 2006, p. 54).

Le ipotesi di fondo da cui prendono le mosse i Subaltern Studies interrogano anche i casi delle rivolte contadine contro il latifondo all’indomani dell’unificazione italiana, così come i diversi movimenti meridionali, sorti a partire dal dopoguerra. Ranajit Guha e la prima stagione dei Subaltern Studies si sono proposti appunto di rovesciare lo sguardo storiografico dominante, rintracciando una dimensione politica delle lotte dei subalterni. Il loro intento è stato quello di inquadrare i movimenti e le rivolte contadine non come fiammate episodiche e disgregate di ribellismo pre-politico (Hobsbawm 2002) ma piuttosto come unica arma e forma di espressione politica a disposizione delle masse contadine per cercare di contrastare la loro condizione di subalternità e di miseria che perdurava anche all’indomani dell’indipendenza nazionale. Riecheggiano in tali lavori le storie frammentarie e disomogenee, ma assai spesse di fattori accomunanti e pienamente politici, delle rivolte contadine o del brigantaggio della seconda metà dell’Ottocento, oppure delle occupazioni delle terre degli anni cinquanta del Novecento, oppure dei movimenti dei disoccupati napoletani degli anni settanta e degli occupanti casa degli anni ottanta. Il terreno che accomuna tali storie è, prima di tutto, la resistenza ai dispositivi d’eccezione, alle leggi speciali e alle politiche d’emergenza delle classi dominanti, al cui sfondo lavorano carsicamente i processi di razzializzazione; e, poi, la capacità di “reversibilità”: i movimenti, cioè, sono stati in grado di invertire il senso di questi dispositivi, convertendoli in armi e strumenti di organizzazione. Ma il discorso razziale e le azioni di governance hanno sempre risposto col recupero sul terreno della negoziazione e della frantumazione delle istanze al fine di depotenziare la forza dei movimenti e delle rivolte.

Il discorso razziale, chiamando in causa direttamente lo sviluppo capitalistico, ha avuto come scopo la riconversione della manodopera agricola in manodopera industriale, e l’adeguamento della società tutta ai tempi, agli spazi, alle caratteristiche della produzione industriale. Le forme di vita “saranno costrette ad assumere le caratteristiche della produzione industriale. L’agricoltura e la società stessa dovranno adottare i suoi regimi di meccanizzazione, la sua disciplina lavorativa, i suoi tempi e i suoi ritmi, la sua giornata lavorativa e così via” (Hardt 2011, p. 152). Il discorso razziale/civilizzatore è servito proprio a recuperare le istanze sociale e a modellare quella legislazione speciale d’indirizzo industrialista, ideata da Nitti, e che si svilupperà, poi, sotto i governi giolittiani del primo decennio del Novecento.

4. Le inchieste e la legislazione speciale promosse dal liberale Nitti hanno fatto scuola e hanno avuto un notevole ascendente sulle cattedre italiane di economia. Le sue teorie sulla meccanizzazione dell’agricoltura, sull’organizzazione della forza-lavoro, sulla funzione emancipativa dell’emigrazione e sull’integrazione dei mercati internazionali hanno formato nell’immediato dopoguerra una schiera di studiosi meridionalisti. Negli anni ’50 del Novecento, Francesco Spaventa, Pasquale Saraceno, Donato Menichella e altri ancora, in continuità con il nittismo, promuovono quella legislazione speciale per lo sviluppo del Mezzogiorno, secondo cui l’industria sarebbe il grande motore della crescita e del successo, della modernità e del mercato libero, in antitesi all’industria dell’Unione Sovietica, destinata alla politica di potenza militare e alla crescita forzata e incapace di soddisfare i bisogni dei consumatori. L’industria è un traguardo politico perché rappresenta l’economia libera e quindi nel Mezzogiorno bisogna portare l’economia libera, anche se, per ottenere l’obiettivo, è necessaria un’azione collettiva: l’economia libera non nasce da sola, ha bisogno di istituzioni, ha bisogno di infrastrutture, ha bisogno di sicurezza. Questo discorso ha funzionato come driver dell’azione di governo negli anni ’50 e ’60, riproducendo lo stesso dispositivo, in sintonia con la retorica del tempo, da cui è andata generandosi la politica dell’emergenza e delle misure speciali: le popolazioni meridionali, inabili a “crescere” autonomamente, avrebbero dovuto raggiungere darwinisticamente la meta dello “sviluppo”.

Sul fondo si percepisce un brusio in cui si distingue un senso di pregiudizio antimeridionale. Una volta entrato in azione quel complesso sistema discorsivo, durante la nuova fase di accumulazione capitalistica del dopoguerra, il brusio diventa rumore assordante e il razzismo si ripropone come dispositivo gerarchizzante e di sfruttamento. L’esempio ci è offerto, nel 1955, in un contesto storico-sociale e culturale profondamente mutato, quando ormai le scienze sociali e naturali hanno portato al superamento del concetto di razza. In quell’anno viene pubblicato, grazie alla Cassa per il Mezzogiorno, un voluminoso lavoro sulla “questione meridionale” di Friedrich Vöchting. L’autore fa ricorso a spiegazioni razziste per spiegare l’“immutabile passività” della popolazione meridionale e la sfrontatezza delle classi alte richiamando “l’esistenza di una differenza etnica dalle radici profonde, sentita e riconosciuta dai vari partiti a mala pena si può quindi ammettere, riferendosi alla dottrina dell’ambiente, che questa razza sia vittima soltanto delle condizioni di vita, come, ad es., la lunga denutrizione o la malaria, né si potrebbe concludere che una riforma per mutare tale situazione, possa avere un effetto miracoloso. Per quanto è possibile osservare, la funzione storica della razza mediterranea è stata in ogni tempo unicamente quella di chi è dominato e mai di chi domina, di chi riceve e che mai riesce a dare, e, soltanto gli incroci con altre razze, o meglio la forza di questi incroci con gruppi etnici più robusti […] sviluppa in essa la disposizione per le attività civili superiori” (Vöchting 1955, pp. 24-25).

La sfiducia e il pessimismo nelle possibilità di cambiamento e di rinnovamento delle popolazioni meridionali si situano nella tradizione della “razza maledetta”. Anche il riferimento agli “incroci” con altri gruppi etnici visto come possibilità di approdo alle attività civili superiori ricalca, a distanza di oltre mezzo secolo, le soluzioni prospettate da positivisti come Sergi, Niceforo, Troilo, Oriani, Lombroso, ecc.

La tesi razzista di Vöchting non sorprende affatto, piuttosto avvalora ulteriormente lo storico studio di Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del mezzogiorno d’Italia. Termini come “arretratezza” o “sottosviluppo”, secondo Ferrari Bravo, assumono un valore complementare a dispositivi quali “sviluppo” e ”pianificazione”.“Il sottosviluppo non è soltanto il ‘non ancora’ sviluppo, così come voleva già l’‘ottimismo’ dei classici dell’economia politica che si prolunga, enorme concrescenza mistificata, ben addentro ai nostri giorni; ma non è neppure solo il ‘prodotto’ dello sviluppo, secondo un modo statistico, ‘strutturalista’, di leggerne la fisionomia, a torto ritenuto l’ultimo parola del marxismo teorico su questo tema. Esso è una funzione dello sviluppo capitalistico: una sua funzione materiale e politica. Ciò che, determinandosi, significa: funzione del processo di socializzazione capitalistica, della progressiva costituzione del ‘socialismo’ del capitale. Sviluppo è infatti quello del potere capitalistico sulla società nel suo insieme, del suo ‘governo’ della società – del suo stato […] una funzione di piano dietro la quale vi è […] la sintesi statuale esercitata per mezzo degli istituti di programmazione” (Ferrari Bravo 1972, p. 29).

Il 10 agosto 1950, con la legge n. 646, si apre un nuovo capitolo della legislazione speciale per il Mezzogiorno. Vengono istituti l’Ente per la Riforma agraria e gli organismi della Cassa per il Mezzogiorno. Dopo quasi un secolo dall’unificazione, viene abolito il latifondo. In realtà, questi strumenti servono a “battere la carica eversiva che le lotte esplose nelle campagna” hanno manifestato e garantire “la possibilità di usare ‘il fenomeno migrante’ a fini di profitto”. Dagli anni ’50, la novità nell’intervento straordinario al sud, rispetto alla governance dell’emergenza inaugurata da Nitti all’inizio del secolo scorso, è stata “la progressiva concentrazione dell’esercizio della funzione di mediazione politica negli organi statali, governativi, rappresentati dalla Cassa per il Mezzogiorno e dagli altri istituti che ad essa fanno capo”. In altri termini: la società meridionale “viene sottoposta ad un controllo, sia pure indiretto, dello stato”. Un controllo, avverte Adelino Zanini, che “si esercita effettivamente e in maniera efficace sulla forza-lavoro ridotta a funzione sul ‘mercato del lavoro’”. Quindi, se nel passato le leggi speciali vengono qualificate tali perché non pensate come parti di un “sistema”, la svolta del ’50 è proprio la riconosciuta necessità di un’organizzazione sistemica dei provvedimenti, capace di tenere insieme i rapporti “tra piano generale […] degli interventi e programmi annuali della Cassa per il Mezzogiorno”. Si assiste, così, alla formazione di un complesso rapporto tra “straordinarietà” e “ordinarietà” dei provvedimenti, all’interno del quadro tradizionale delle attività amministrative dello stato, il quale viene preceduto dalla premessa ineludibile di discorsi inferiorizzanti sulle popolazioni meridionali tali da sostenere l’urgenza di interventi  straordinari. Insistendo non sulla “sussidiarietà” ma sulla “straordinarietà”, si definisce la natura pianificatoria delle politiche meridionalistiche, perché non alimenta semplicemente la vecchia struttura politica clientelare, in quanto fa parte di un progetto strategico di carattere nazionale (Zanini 2007, pp. 7-17).

5. Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ’70, le lotte nell’industria napoletana risvegliano la città dal lungo sonno della ricostruzione post-bellica, così come accade a livello nazionale ed europeo negli anni 1968-73. Le sue lotte favoriscono e stimolano l’organizzazione di movimenti di lavoratori precari dei quartieri popolari della città, rendendo baricentrale il tema del lavoro per la classe politica e imprenditoriale, che, invece, vorrebbe imporre una ristrutturazione economica del piano urbanistico, in sincronia con quanto avveniva in città come Parigi, Torino, Colonia. L’occasione per aprire questa stagione viene offerta nell’estate del ‘73, quando nella città si diffonde un’epidemia colerica. Il colera è una ghiotta occasione per le istituzioni politiche locali e nazionali, un validissimo pretesto per un’azione di attacco contro quelle attività improvvisate, ma anche le uniche fonti di sostentamento per migliaia di precari, di cui è previsto lo smantellamento per l’area metropolitana di Napoli, deciso nel 1972. La legittimazione per un intervento repentino e in profondità è nell’emergenza oggettiva della situazione. Il prefetto diviene commissario speciale delle azioni e, così, si va scrivendo una nuova pagina dell’emergenza al Sud.

Gli “untori” sono individuati in una pluralità di strati di proletariato e semiproletariato che vedono distrutto fisicamente il loro modesto capitale fisso (pescatori, “cozzicari”, venditori di pane, ambulanti di generi vari, “acquafrescari”, addetti ai piccoli esercizi turistici). Molti produttori di servizi vengono in questo modo trasformati in forza-lavoro libera. Le politiche dell’emergenza agiscono chirurgicamente sull’accumulazione e sulla composizione della forza lavoro.

Tuttavia, l’emergenza diventa un’opportunità per i subalterni della città, che ne invertono il senso, rendendola prassi produttiva e costituente di nuove soggettività organizzate. Ciò che è repressione viene capovolto in resistenza, organizzazione e autonomia. Nei quartieri e nei sobborghi della città, gli “untori”, giovani precari e disoccupati vanno organizzandosi tramite forme di lotta proprie del proletariato precario e di tutti gli strati popolari non-operai: lo sciopero, per chi non ha da bloccare la catena di montaggio, si traduce in blocco del flusso di circolazione delle merci, paralisi delle arterie urbane della città, caos delle attività e della funzionalità delle sedi commerciali e istituzionali. Intanto nelle riunioni e nelle assemblee vanno chiarendosi gli obiettivi della lotta, i punti di un programma rivendicativo: “salario garantito, parificazione normativa con l’operaio di fabbrica, lista di lotta, azione diretta”.

Nella pratica di massa, nell’autorganizzazione, nell’azione contra legem si notano le tendenze di una prassi teorica “altra”, una prassi costituente e produttiva del “comune”, che va oltre alla conduzione del clientelismo politico-istituzionale e all’“affiliazione” del potere criminale. Il senso è evidente in questo stralcio di documento del 1973:“una città come Napoli che prima appariva un mare di popolo indistinto e confuso, oggi ci si presenta come un insieme determinato di strati e categorie operaie, proletarie e semi-proletarie, che possono inserirsi pienamente in un processo rivoluzionario, perché anch’esse, a partire dalla produzione, dai bisogni materiali, sono entrate sulla scena politica” (Centro coordinamento campano 1973, p. 3).

Tuttavia, questa tendenza o conduzione non è aperta a tutte/i, essa riguarda solo gli iscritti alla “lista di lotta”, solo i protagonisti reali della lotta. In altri termini, il “salario garantito” come claims, rivendicazione, evocazione riguarda tutte/i; mentre le dimensioni, la partecipazione diretta, la perseveranza nella lotta definiscono il dentro o il fuori. Infatti, quando il governo, con una tempestività sorprendente, stanzia 15 miliardi per aprire cantieri di pulizia delle fogne nelle zone colpite dal colera, soltanto una parte vi rientra. Questa misura straordinaria rientra proprio nella politica di controllo dei subalterni, così come Chatarjee ci ha insegnato nei suoi studi di “esplorazione” dei bassifondi della società indiana, alla ricerca delle pratiche specifiche di riappropriazione degli spazi di vita da parte degli spossessati e dei subalterni, come terreno autonomo di espressione della “società politica”. Grazie a Chatarjee possiamo intravedere delle assonanze tra i movimenti dei precari/disoccupati organizzati e “la forma della regolazione governamentale di questi gruppi di popolazione, i venditori di strada, gli occupanti abusivi di case e altri”.

Questa è la “società politica [dove] le persone non sono trattate dallo stato come veri e propri cittadini titolari di diritti e appartenenti alla società civile propriamente costituita. Essi sono oggetto di particolari politiche governamentali. Poiché negoziare con molti di questi gruppi implica il riconoscimento tacito di diverse pratiche illegali, le agenzie governamentali trattano spesso questi casi come eccezioni, che giustificano sulla base di circostanze speciali contemplate al fine di non compromettere la struttura delle regole e dei principi generali. Quindi, agli occupanti abusivi di case potranno anche essere concessi l’acqua corrente o il collegamento alla rete elettrica, ma sempre su delle basi eccezionali, cosicché essi non possano essere considerati assieme agli utenti regolari aventi un titolo legale sulla loro proprietà. Oppure ai venditori di strada sarà permesso di commerciare in condizioni peculiari, distinguendoli dai negozi che fanno affari regolari rispettando le leggi e pagando le tasse. Tutto questo rende le pretese della gente della società politica una questione che richiede una costante negoziazione politica, i cui risultati non sono mai né sicuri né permanenti. Le loro prerogative, anche una volta riconosciute, quasi mai diventano diritti sanzionati legalmente” (Chattarjee 2008, pp. 214-215).

La frammentazione e la disgregazione dei subalterni, di cui parla Chatterjee, è una strategia amministrativa portata avanti anche nelle periferie del vecchio continente. Esemplare è quanto avvenuto nel ‘73: nell’assunzione di alcune migliaia di precari napoletani, l’obiettivo è stato quello di dividerli, per diminuirne l’impatto sociale, e separarli nel loro speciale status lavorativo da ogni altra frazione sociale. Il risultato è stato l’opposto. Le istanze e le mobilitazioni dei movimenti non sono andate placandosi. Quella vittoria non è stata sussunta. Al contrario, è diventata modello, “dispositivo produttivo”, per altri precari che ne hanno imitate le forme organizzative e rivendicative. Centinaia di “liste di lotta” sono nate intorno a claims come “lavoro” o “salario garantito”, sottraendosi al ricatto e del clientelismo e della criminalità organizzata. Infatti, negli ultimi quarant’anni, i movimenti di disoccupati e precari si sono succeduti senza soluzione di continuità. L’ingrediente che gli ha consentito la longevità è stato proprio la valorizzazione della loro condizione di subalternità ed eccezionalità, oltre agli steccati delle forme di regolazione giuridico-amministrativa, nell’affermazione della prassi politica dell’autorganizzazione.

Le immagini stereotipate e fuorvianti, ovvero il razzismo sotterraneo non ha risparmiato i movimenti di precari e disoccupati. Esso ha continuato a produrre meccanismi di “infantilizzazione” (“incapacità di governarsi”) e rappresentazioni arcaiche, in cui si sente in lontananza quel brusio proprio del “romanzo antropologico”. Nel 1978, Giorgio Bocca, “novello” Niceforo, parla del di questi movimenti come “miseria composita, psichicamente labile”, e i suoi membri quali “plebe riccioluti, sudati, vociferanti, con passaggi continui, incomprensibili, dalla gioia alla rabbia, dalla protesta all’applauso” (Bocca 1978). Buon per Bocca, i movimenti sono andati oltre a tutto ciò, poiché, da un volantino del tempo, “abbiamo finito di fare i cani randagi”.

6. Il 23 novembre dell’80, un sisma sconvolge la Campania centrale e la Basilicata centro-settentrionale. Oggi sappiamo qual è l’immediato collegamento che induce il termine terremoto: il tragico evento si traduce in opportunità da sfruttare senza perdere tempo. Come col colera, l’intervento straordinario è ipso facto legittimato; il governo ordina il dispositivo dell’emergenza e rapidamente si attiva la governance della legislazione speciale. Per l’occasione viene istituita la figura del Commissario straordinario per le zone terremotate, assegnato a Giuseppe Zamberletti, uomo della DC e fondatore dell’attuale Protezione civile.

La storia della gestione dell’intervento umanitario ha preso subito le sembianze di una farsa, ricalcando quanto già avvenuto per l’emergenza colera: l’istituzione del commissariato e la dichiarazione dello stato di emergenza hanno garantito il fluire di un fiume incontrollato e prolifico di denaro pubblico che terminava la sua corsa nelle casse dei comuni terremotati; un fiume danaroso cui ha attinto un’intera generazione politica e imprenditoriale parassitaria. Questa, tramite il meccanismo della clientela, del “voto di scambio” e delle connivenze criminali, consolida il suo potere facendo fortuna sulle disgrazie altrui.

Forti dell’esperienza del ’73, i movimenti capovolgono il dispositivo dell’emergenza e del commissariato, sottraendosi alla tenaglia di una scelta rassegnata tra la classe politico-imprenditoriale democristiana, da una parte, e le organizzazioni criminali, dall’altra. Il messaggio dei movimenti dei disoccupati punta direttamente al cuore del “sistema”, si legge in un documento post-terremoto: “né con la camorra né con la DC”.

Di fronte alla tragedia, il movimento dei disoccupati diventa riferimento per migliaia di “senza voce”. Al suo interno va costituendosi fin da subito il “movimento di lotta per la casa” che, nel dicembre ‘80, coordina rivolte spontanee in diversi quartieri di Napoli contro la passività delle istituzioni nel fronteggiare la tragedia sociale. In preda alla disperazione, il movimento occupa due alberghi del centro storico, il Palace Hotel e l’Oriente, per procurarsi alloggio e viveri. Laddove la politica dell’emergenza rallenta i propri ritmi, consentendo una gestione partitica dell’edilizia popolare e dei fondi pubblici per la ricostruzione, il neonato movimento apre il fronte di lotta intorno a due obiettivi: 1. informare la cittadinanza sugli interessi del capitale imprenditoriale e delle sue rappresentanze politiche, vale a dire, scrivere un nuovo piano urbanistico della città per aumentare il valore immobiliare del Centro storico e, quindi, allontanare e trasferire le classi popolari verso le periferie; 2. requisire le case sfitte e occupare gli alloggi di edilizia popolare che, a distanza di due mesi dal sisma, ancora restano inutilizzati, in attesa probabilmente di assegnarli in maniera clientelare a famiglie non assegnatarie, in questo modo il dispositivo dell’emergenza resta aperto per lo stanziamento di ulteriori fondi straordinari.

Mentre la giunta “rossa” di Maurizio Valenzi e il Commissario straordinario per le zone terremotate Zamberletti abbandonano al governo le trattative dirette coi movimenti dei “senza voce”, le liste di lotta vanno compattandosi intorno ad una piattaforma unitaria: “casa, lavoro, reddito”. Un’assemblea di oltre 3 mila persone programma una campagna di requisizione di “tutte le case sfitte”, chiedendo anche “lavoro o sussidio ai disoccupati, finalizzato ad una ricostruzione della città a misura proletaria, applicazione della 167 nel centro storico” . Nel febbraio successivo vengono occupate circa ventimila case.

Il sindaco Valenzi non può nulla contro la determinazione, vero “contropotere territoriale”, di 20 mila famiglie. Anni dopo, l’amministrazione comunale di Napoli ha deciso ufficialmente di assegnare a quelle famiglie gli alloggi allora occupati. Tuttavia, le stesse famiglie, qualche anno dopo, hanno dato vita a un altro movimento. Un movimento per l’abbattimento delle case a loro assegnate. Un paradosso? Invece, no, poiché gli edifici popolari sono case invivibili, edifici ispirati ai principi delle “unitès d‘habitation di Le Corbusier”, le mostruose “vele” del quartiere Scampia. Nel ’98, il “coordinamento di lotta per l’abbattimento delle Vele” ha vinto la nuova battaglia, ottenendo l’assegnazione di nuove abitazioni “a misura d’uomo” all’interno dello stesso quartiere e, poi, l’abbattimento di quei mostri architettonici.

I movimenti dei “senza voce” agiscono autonomamente, sono“tracce di iniziativa autonoma dal valore inestimabile”, come li chiama Gramsci per definire la subalternità. Una subalternità dei “senza voce” o dei poveri che non è “più confinata alle origini storiche o ai limiti geografici della produzione capitalista, ma è al suo cuore” (Hardt, Negri 2009, p. 65). Sono tracce o condotte la cui cifra è la sottrazione dai dispositivi dell’emergenza per rendere gli stessi dispositivi produttivi di altro: di autonomia e valorizzazione dell’eccezionalità della subalternità. Questi movimenti non hanno ceduto alla frammentarietà ma, al contrario, hanno organizzato le singolarità in un tessuto d’azione biopolitico che, di certo, ha prodotto il“comune”.

7. All’inizio del ’94, il governo italiano prende atto dell’emergenza ambientale venutasi a creare settimane prima a causa della saturazione di alcune discariche e ricorre nuovamente all’istituto del “commissariato straordinario”, però questa volta è volto all’“emergenza rifiuti in Campania”. Sulla carta sei mesi, un anno per individuare o ampliare alcune discariche, nei fatti sono 18 anni che è ancora in vita. Si assiste, così, all’eccezione che diviene progressivamente regola strutturale. Il commissariamento va rigenerandosi dinanzi alla deficienza dello stesso meccanismo straordinario, all’incapacità della classe dirigente, alla riottosità delle comunità locali nell’accogliere le sue scelte. L’istituto del commissariato funziona, in un primo momento, attraverso un verticale accentramento verso l’alto dei processi decisionali, annullando e dissolvendo le articolazioni amministrative e periferiche dello stato; poi, fagocita e polverizza ogni istituzione altra da sé, a partire dagli organi costituzionalmente primari. Il potere legislativo viene aggirato attraverso la promulgazione reiterata del decreto-legge dettato dal carattere straordinario e urgente del provvedimento. E’ un succedersi di commissari, da quelli politici, come Antonio Bassolino, a quelli dichiaratamente militari, il capo della polizia Gianni De Gennaro, il generale Franco Giannini, il capo della protezione civile Bertolaso. Lo stato d’eccezione diviene stato di guerra. I nemici dello stato vengono contrastati dall’invio dell’esercito; le discariche o i siti individuati come sedi per la costruzione dell’inceneritore o per accogliere la “monnezza” vengono dichiarati “zone di interesse strategico nazionale di competenza militare”.

I nemici dello stato, da trattare come problema criminogeno, sono i comitati spontanei di cittadini sorti per contestare le scelte del commissariato straordinario. I comitati spontanei che sono contro l’“interesse generale”. Infatti, una volta attivato il dispositivo morale, tramite un incessante battage comunicativo, del “senso di responsabilità”, del “senso dello stato”, del “rispetto delle istituzioni”, il passaggio è subito fatto verso la riesumazione di stereotipi e modelli inferiorizzanti. Ai modelli classici di fine ‘800, recuperati per vie sotterranea e rinnovati in nuove forme di razzismo, dell’immagine del meridionale “inferiore”, “delinquente”, inabile al “self government”, i mass-media e la classe politico-istituzionale affiancano la figura del rivoltoso, “individualista” e “contro la legge” per natura. Dinanzi alla drammaticità del disastro ambientale, si scatena un’enorme e impressionante campagna controinformativa sull’azione dei comitati, descrivendoli, “non come forme spontanee e autorganizzate di protesta sociale, ma come gruppi di cittadini eterodiretti dalla criminalità organizzata, ignoranti, egoisti, retrogradi, primitivi” (Caruso 2008, pp. 134-149). La ragione è che questi comitati sono contro l’“interesse generale”: cioè, contro la modernità dell’inceneritore o di una discarica. In realtà, l’“interesse generale” assume la forma di una scelta non solo autoritaria ma diseguale. E, quindi, quando il governo nazionale e il silenzio connivente delle forze politiche istituzionali, scaricano addosso al basso tutte le implicazioni e tutti i costi di una scelta, senza fornirne una motivazione persuasiva, allora la sottrazione a queste scelte, l’esodo dall’emergenza va presentandosi in forme non convenzionali, in atti radicali, con gli unici strumenti a disposizione delle comunità: i propri corpi. Tutto ciò agisce come produzione di comune: nel senso di singolarità che si legano in termini biopolitici e danno vita a nuovi legami organizzativi, fondati sulla prossimità e sul fare comunità.

In ogni paese o quartiere individuato dal commissario, vanno spontaneamente sorgendo comitati di cittadini che si oppongono all’“interesse generale”. Sono trentaquattro alcune delle comunità scese in piazza, in tempi differenti, per protestare contro le scelte del commissariato straordinario per l’emergenza ai rifiuti. In pratica, non c’è una scelta dell’istituto straordinario di “localizzazione” di un qualsivoglia tipo di impianto per lo smaltimento che non abbia incontrato le proteste delle popolazioni locali”.

Le forme di protesta riflettono appunto l’autorganizzazione come “tradizione dello spirito pubblico meridionale” (Piperno 1997). Dall’occupazione del consiglio comunale alle assemblee pubbliche, alla costituzione di presidi permanenti, ai blocchi stradali, all’occupazione dei terreni individuati come discarica, in tutte queste forme si riflettono esperienze passate, divenendo moltiplicatori di nuove proteste. L’immaginario del conflitto si alimenta di lotte precedenti, e la costruzione simbolica diviene ancor più forte se queste esperienze hanno avuto successo. La pratica della paralisi della circolazione di ogni comunicazione assume il piano immediato d’azione: l’ultima disperata forma di protesta. Eppure proprio il blocco selvaggio senza una direzione precisa e un coordinamento si dimostrano non un limite ma un’arma vincente.

In queste esperienze, si ha un esempio classico di “divenire-comunità” che si è compiutamente espresso nel corso della lotta, producendo un senso di appartenenza, di nuova comunità, che non ha nulla a che vedere con il localismo o con l’identità nei termini nazionalistici o razzistici. Mentre le autorità, i mass-media, il commissariato evocano il l’“effetto nimby” (Not in My Back Yard) per licenziare le istanze dei comitati all’interno della cornice dell’egoismo e dell’individualismo individualistici, i comitati si trovano un passo in avanti, giungendo alla critica complessiva della governance della “monnezza”, del commissariato straordinario, e della politica delle discariche. Il punto teorico e programmatico cui giungono i comitati è “Basta discarica. Né qui né altrove”. E’ un esempio di esodo dall’emergenza e di produzione del comune: una proposta politica in difesa di tutte/i, non di un singolo comitato o di una determinata lista di lotta. Così, il senso dell’emergenza viene invertito, il dispositivo stesso diviene fattore di resistenza e, al contempo, capacità produttiva: i comitati, infatti, si fanno promotori di proposte concrete per uscire dall’emergenza e di un piano alternativo della gestione dei rifiuti. Il potere costituente si dispiega sul piano dell’immanenza e le autorità deputate al potere politico, i partiti e i politici, vengono via via esautorate del loro potere e delle loro presunte competenze. Attraverso attività di pressione e di controllo costante, d’inchiesta e autoformazione degli attivisti dei comitati, si vanno socializzando saperi e costituendo altre forme di governo del territorio e dei corpi, le singolarità vanno costituendo comunità biopolitiche, rivendicando e producendo spazi di autonomia, decisionalità e autogoverno.

8. Il 2 marzo 2012 viene occupato l’ex Asilo Filangieri (un ex orfanotrofio disciplinare della città sito nel cuore del centro storico), sede della Fondazione Forum Universale delle Culture, un brand sorto a Barcellona che dovrebbe promuovere per eventi culturali internazionali nel 2013. L’edificio è una creatura rimasta per circa tre anni luogo di pratiche, scambi clientelari e sotto scacco della retorica dell’emergenza, di presidenti e di commissari straordinari. L’occupazione dell’ex Asilo chiama in causa direttamente il concetto di cultura. La cultura a cui guarda la classe politico-istituzionale è la cultura dei grandi eventi, dell’arte pensata e utilizzata come strumento di consenso e non come coscienza critica e creativa del territorio. Infatti, Napoli è sede di uno dei maggiori centri di produzione teatrale nazionale e ospita un mega evento come il Napoli Teatro Festival, con pochissime ricadute per i precari dell’immateriale, dal momento che l’evento è egemonizzato da “deus ex machina di nomine e produzioni” teatrali.

La scelta di occupare l’ex-Asilo sorge in questo contesto, ma ne eccede gli argini. Matura all’interno de La Balena, un collettivo di lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale, ma coinvolge singoli e collettivi di precari della città, proprio perché esprime l’eterogeneità della composizione del lavoro vivo contemporaneo e la molteplicità soggiacente alla produzione culturale: “l’intima commistione tra saperi e pratiche dello spettacolo e quelli dell’ambito della produzione immateriale”. Con l’occupazione va avviandosi un processo di critica e la proposta politica non rivendica “favori” ma piuttosto afferma modalità e pratiche di tipo nuovo basate sulla “prossimità, la cooperazione e il mutualismo del nuovo millennio”. La frammentazione e la disgregazione dei subalterni, caratteristiche tramite le quali, secondo Chatterjee, vengono esercitate forme di controllo e recupero, in questo caso sono contrastate proprio dalla “prossimità”, cioè da quella processualità del “divenire-comunità” autogovernata e aperta a tutte/i e, poi, anche di messa in discussione della governance della cultura: quel “campo […] colonizzato da rapporti di potere stucchevoli alimentati da logiche di cooptazione personali e partitiche”.

Poiché la costruzione simbolica si alimenta di esperienze di lotta pregresse e ancor più se queste hanno avuto successo, l’occupazione dell’ex-asilo è stata l’accumulo della spinta propulsiva dei movimenti in difesa dell’acqua pubblica e delle mobilitazioni dei lavoratori dell’immateriale sorte in Italia. La lotta mira, innanzitutto, all’affermazione della cultura come “bene comune”, anche se il fare insieme, lottare e costruire percorsi critici superano gli steccati fragili del concetto di bene comune, evocano qualcosa che va “oltre il pubblico e il privato”. In un documento del collettivo si legge “la cultura è un Fare Comune […] la cultura è anche il luogo di lavoro e produzione di un insieme di lavoratori atipici, subordinati, ricattati e senza possibilità di organizzazione e sabotaggio e sciopero. La qualità produttiva deve essere staccata dai rapporti di forza salariali, dalle concessioni di spazi, dall’amministrazione discrezionale di privilegi” (La Balena 2012).

Il “fare comune” in un campo innervato dalla cooperazione del lavoro vivo permette di sperimentare nuove modalità di valorizzazione della stessa cooperazione fra i lavoratori dell’immateriale, che, partendo dalla riappropriazione dei mezzi di produzione, miri direttamente a generare reddito. La novità rispetto ai movimenti di rivendicazione sul reddito che conosciamo, sta nel fatto che, qui, non si “reclama reddito”, ma si cerca di produrlo. Detto altrimenti: l’idea che anima gli occupanti è quella di mettere in comune i mezzi di produzione che, attualmente, sono gestiti “proprietariamente” dall’amministrazione comunale o da enti, agenzie, fondazioni, secondo criteri di “partito e personali”; al contrario, la chiusura e la discrezionalità della “politica” vengono curvate nell’apertura a tutte/i e nell’autorganizzazione, in questo modo si favoriscono esperienze di auto-valorizzazione del lavoro vivo.

Il principio che muove l’autogestione dell’ex-Asilo è quello di privilegiare il valore d’uso dello spazio per avviare un processo di “fare comune” e di sperimentazione di produzione di reddito, spiazzando il criterio che ha sempre caratterizzato “i rapporti tra istituzioni e produzione culturale”, ossia, “il valore di scambio”.

All’oggi, l’ex Asilo sta vivendo un processo di “risignificazione”. In maniera autonoma e distante dall’attività amministrativa e istituzionale, la comunità di precari ha individuato nell’“uso civico di uno spazio”, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 43 Cost., lo strumento per forzare “briglie” e “canalizzazione” amministrative: per fondare una prassi costitutiva di “uso civico” del bene comune dell’ex Asilo e – last but not least – per affermare un percorso orientato verso una modalità di produzione indipendente, autogovernata e aperta a tutte/i, ovvero di costituzione del “comune”.

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