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Quando e come ho letto Foucault

 

di TONI NEGRI

Nell’ultimo numero del 1978 di AutAut (la rivista che per prima si occupò di Foucault in Italia) pubblicavo un saggio (già redatto da un anno) dal titolo: “Sul metodo della critica della politica”(1). Era un saggio nel quale facevo il punto su che cosa, fino a quel momento (l’ultima lettura foucaultiana registrata nell’articolo era Surveiller et Punir), l’opera di Foucault avesse influito sul pensiero di quella sinistra rivoluzionaria nella quale allora militavo in Italia. In quel periodo avevo ripreso a lavorare su Marx ed in particolare sui Grundrisse: tra il 1977 e il 1978 avevo infatti tenuto all’ENS di Ulm il corso su “Marx oltre Marx”(2).

Propongo al lettore questi dati per far notare una coincidenza: la lettura di Foucault avviene nel momento stesso in cui riassumo in un corso universitario una lunga esperienza “revisionista” di letture marxiane. Si noti tuttavia che questo “revisionismo” si svolge, in quegli anni, nell’adesione ai concetti fondamentali della critica dell’economia politica ed all’interno della militanza rivoluzionaria, e non – come sovente accadeva in quegli anni – nel rifiuto di Marx.

Perché comincio ad interessarmi a Foucault? Perché in quegli anni il Partito Comunista Italiano e i sindacati, con i quali i movimenti vivevano in serrata polemica, stavano programmando sul terreno sociale e parlamentare un’alleanza con le forze della destra – il famoso “compromesso storico” – insistendo sull’ipotesi che, da parte dei proletari, il potere sovrano era ormai possibile conquistarlo e che le forze di sinistra non potevano essere schizzinose quando si impegnavano in quest’operazione di difficili ma necessari compromessi – e che comunque il politico era autonomo ed indifferente ai valori: solo la forza contava. Culto della sovranità ed esercizio della “ragion di Stato” – come presto verificammo – per il PCI dormivano sotto la stessa coperta. Come demistificare questa bizzarra – per dei comunisti – idea che il potere, la sovranità, fossero luoghi autonomi e/o strumenti indifferenti? Un vero e proprio “trascendentale”! E che la lotta potesse darsi, ed il passaggio politico costruirsi, solo tenendo conto di questi trascendentali? Al contrario – noi replicavamo – la materialità del potere e della costituzione politica è ben determinata, ben caratterizzata dal punto di vista delle politiche liberali e questa condizione è tutt’altro che indifferente. Conseguentemente, quando io nego, resisto, denuncio quella supposta indifferenza del potere, lo faccio a buon titolo. Affermo cioè un punto di vista critico e determinato. Nego l’indifferenza perché io sono la differenza, essa stessa determinata, reale, politicamente definita ed incapace di mostrarsi in maniera diversa. Con Foucault potevamo affermare: “l’essere umano non è caratterizzato da un certo rapporto con la verità, ma detiene, in quanto gli appartiene in proprio, di volta in volta offerta o nascosta, una verità”(3).

Ciò non bastava tuttavia a trasformare il rifiuto di un disastro politico annunciato – il disastro delle politiche della sinistra – in determinazione di un nuovo orizzonte di lotta. Bisognava riorganizzare l’analisi e rifondare l’organizzazione. Bisognava dare a quel momento di coscienza una capacità espansiva e la durezza della costruzione di un nuovo fondamento teorico. Perciò era utile ragionare con Foucault.

Fin da principio risultava infatti chiaro che Foucault operava all’interno di una tradizione “ontologica” del pensiero francese che non cedeva alle lusinghe della filosofia della vita e dell’azione. Risalendo, nella mia lettura, dal saggio foucaultiano su Biswanger a quelli sull’Antropologia di Kant e su Weizsaecker(4), fino alla Storia della follia e alla Nascita della clinica(5), nell’articolo che ho ricordato più sopra, sottolineavo da un lato la potenza del rapporto che si poneva tra antropologia e ontologia; dall’altro, il fatto che in questo lavoro la costruzione dell’oggetto storico era estremamente realistica: l’oggetto, non lo si chiedeva mai a ciò che era fuori dall’immediatezza dell’esperienza. Ne venivano, come notava Althusser, in questo Foucault “temporalità assolutamente inattese” e “nuove logiche”(6). Liberandosi dal kantiano “schematismo della ragione” o dalla husserliana “intenzionalità fungente”, Foucault costruiva dentro un orizzonte concreto – dentro un orizzonte di lotte e di strategie.

Ora, “l’orizzonte della strategia, del complesso delle strategie è l’interscambio fra volontà di conoscere e datità concreta, fra rottura e limite della rottura. Ogni strategia è lotta, ogni sintesi è limite. Qui v’è più dialettica che nella Dialettica, v’è più astuzia che nella Ragione, v’è più concretezza che nell’Idea. Il Potere viene finalmente riportato alla rete degli atti che lo costituisce.”(7)

“Certo, quegli atti vengono ricoperti dall’ambiguità che il Potere per sé rappresenta: ma questo non toglie che sempre, in ogni momento la totalità è scissa, l’eteronomia dei fini può darsi, ed il quadro perdere ogni unidimensionalità. Perché ciò che muta è il punto di vista, ciò che modifica e dà tanta freschezza alla ricerca è quello stare dentro alla realtà, ripetervi dentro quell’atto di esistenza e di separazione che è nostro e di tutti i soggetti che si agitano nella storia. Le lotte sono l’involucro di bisogni e di punto di vista, di proiezioni e di volontà, di desideri e di aspettative. A nessuno e a niente è delegata la sintesi. La scienza si libera dal suo padrone per offrirsi all’azione, alla determinatezza concreta ed alla determinazione pratica”(8)

***

Che cosa succede attorno a questa decisione? Succede una cosa tanto elementare quanto difficile – bisogna spingere questa esperienza dalla storia alla vita, dalla descrizione della historia rerum gestarum alle res gestae: riconquistare la totalità per negarla (das Ganz ist un-wahr) ma negarla perché la totalità, il potere, non potevano comprendere la vita, il punto di vista della singolarità, il dispositivo che il desiderio organizza.

Avevo attraversato lo storicismo tedesco, l’Historismus: era stato infatti questo il tema della mia ricerca dottorale(9). Su Dilthey, soprattutto, si era fermata la mia attenzione – su quella singolarissima “Kulturpolitik” che costituiva il terreno delle sue analisi. Burckhardt e Nietzsche vi stavano dentro, molto di più di quel che sembrasse. “Epoche” nelle quali il sapere si organizzava unitariamente ma che sempre venivano spezzate – “epoche” nella discontinuità. Questo processo non poteva essere anche chiamato “archeologia”, sequenza di “episteme”? Eppure l’“epoca” delle analisi dell’Historismus così come l’episteme di Foucault, talora sembravano più solide della decisione di costituzione che pur le attraversava e della capacità di recuperarla. Così, in questo eventuale blocco del processo, la Kultur si trasformava in Zivilisation, presso gli storicisti; parallelamente, la vita, l’episteme vivente, la biopolitica erano, in Foucault, assorbite nel biopotere.

L’episteme: com’era difficile comprenderla in maniera non strutturalista, in un’epoca attraversata dalla vivacità di, fin lì invitte, culture e metodologie strutturaliste nelle scienze umane! Così fu infatti interpretato Les mots et les choses (10). Lo stesso destino doveva incombere a Surveiller et Punir. Qui era l’idea del “panottico” ad irrigidire il sapere ed il movimento. La produzione sembrava essere dominata da una sorta di circolazione improduttiva. Il “panottico” investiva la produzione per sussumerla e l’analisi foucaultiana sembrava così perdersi fra il formalismo di una tradizionale filosofia dell’azione (“senza oggetto”) ed il concretismo della filosofia della struttura (“senza soggetto”). Fra historia rerum gestarum e res gestae si stabiliva talora un circuito senza via di fuga. Per molti versi, dunque, le aperture di cui sopra avevamo parlato, sembravano bloccate.

E tuttavia in Surveiller et Punir, proprio laddove il blocco sembra più forte, lì si riapre il discorso. I termini impiegati da Foucault per dar nome a questa nuova economia del potere (“panottica”) che si fonda ormai sullo sfruttamento della vita e sul mettere al lavoro la forza fisica degli individui, sulla gestione dei loro corpi ed il controllo dei loro bisogni, insomma sulla normalizzazione di quello che essi fanno, sono in realtà due: biopoteri e biopolitica. Noi abbiamo utilizzato finora questi termini in maniera indistinta, quasi fossero equivalenti. In realtà non lo sono.

Nasce allora questo problema: finché si mantiene l’indistinzione fra biopotere e biopolitica, non sembra allora più possibile la resistenza alla captazione della vita ed alla sua gestione normativa, non c’è più esteriorità che tenga e neppure si potrà più immaginare un contropotere, a meno di riprodurre – inversamente – quello da cui ci si vuole liberare. È qui che le letture “liberali” di Foucault si son sentite permesse. A partire cioè dalle analisi foucaultiane della gestione normativa di un vivente organizzato in popolazioni – donde l’immagine politica di una gestione “attuariale” (assicurativa) della vita, di una classificazione degli individui entro macrosistemi normativi, de-soggettivanti ed omogenei.

Altrimenti, al contrario, si dissociano i biopoteri dalla biopolitica e si fa, di quest’ultima, l’affermazione di una potenza della vita contro il potere sulla vita. Meglio, si localizza nella vita stessa – nella produzione di affetti e di linguaggi, nella cooperazione sociale, nei corpi e nei desideri, nell’invenzione di nuovi modi di vita – il luogo di creazione di una nuova soggettività che si mostrerebbe anche come momento di distruzione da ogni assoggettamento.

A questo proposito, si potrà obbiettare che l’opposizione fra potere e potenza deve più a Spinoza che a Foucault. È fuori dubbio, per quanto mi riguarda, che a questa derivazione molto deve il mio pensiero. In quegli stessi anni infatti cominciavo quel lavoro su Spinoza che portò alla redazione dell’Anomalia selvaggia(11). E tuttavia resto convinto che Foucault si trovi benissimo dentro questa divisione fra potere e potenza. Quando, infatti, terminando Surveiller et Punir, Foucault scriveva: “Dans cette humanité centrale et centralisée, effet et instrument de relations de pouvoir complexes, corps et forces assujettis par des dispositifs d’incarcération multiples, objets pour des discours qui sont eux-memes des éléments de cette stratégie, il faut entendre le grondement de la bataille”(12); quando dunque Foucault proponeva quel “grondement de la bataille” come suono dell’opera in corso, ne negava ogni possibilità di ridurlo a rumore del panottico – di appiattire dunque la potenza sul potere.

“Pour ce qui est de la reduction simple de mes analyses à la métaphore simple du panoptique, je crois qu’ici ausii on peut répondre à deux niveaux. On peut dire: comparons ce qu’ils m’attribuent à ce que j’ai dit; et ici, il est facile de montrer que les analyses du pouvoir que j’ai conduites ne se réduisent nullement à cette figure, pas meme dans le livre où ils sont allés la chercher, c’est-à-dire Surveiller et Punir. En fait, si je montre que le panoptique a été une utopie, une espèce de forme pure élaborée à la fin du XVIIIe siècle pour fournir la formule la plus commode d’un exercice constant du pouvoir, immédiat et total, si donc j’ai fait voir la naissance, la formulation de cette utopie, sa raison d’etre, il est vrai aussi que j’ai immédiatement montré qu’il s’agissait précisément d’une utopie qui n’avait jamais fonctionné telle qu’elle était décrite, et que toute l’histoire de la prison – sa réalité – consiste précisément à etre toujours passée à coté de ce modèle”(13).

Già in Surveiller et Punir questo era dunque del tutto evidente. Quest’evidenza era presente anche a me, nella provincia italiana, ed infatti nel mio articolo del ’77 riportavo questa lunga citazione:

lo studio di questa microfisica suppone che il potere che vi si esercita non sia concepito come una proprietà ma come una strategia”. Dunque, “questo potere non si applica puramente e semplicemente come un obbligo o un’interdizione a quelli che non l’hanno; esso li investe, si impone per mezzo di loro e attraverso di loro…Ciò vuol dire che queste relazioni scendono profondamente nello spessore della società, che non si localizzano nelle relazioni fra lo Stato e i cittadini o alla frontiera delle classi e che non si accontentano di riprodurre a livello degli individui, dei corpi, dei gesti e dei comportamenti, la forma generale della legge o del governo; che se esiste continuità (esse, in effetti, si articolano facilmente in questa forma secondo tutta una serie di complessi ingranaggi), non c’è analogia né omologia, ma specificità di meccanismi e di modalità. Infine esse non sono univoche ma definiscono innumerevoli punti di scontro, focolai di instabilità di cui ciascuno comporta rischi di conflitto, di lotta e di inversioni, almeno transitorie, dei rapporti di forza. Il rovesciamento di questi micro poteri non obbedisce dunque alla legge del tutto o niente, né è conseguito una volta per tutte da un nuovo controllo degli apparati o da un nuovo funzionamento o da una distruzione delle istituzioni; in cambio, nessuno dei suoi episodi localizzati può iscriversi nella storia, se non attraverso gli effetti che induce su tutta la rete in cui è preso” (14)

È in questo periodo che nasce, all’unisono con la ricerca foucaultiana, ma all’interno delle dure lotte che si svolgono in Italia, un testo come il mio Dominio e sabotaggio(15), dove la concezione “agonista” ed “antagonista” del potere era fortemente insistita; ma soprattutto è in questo periodo e su queste basi teoriche che l’antagonismo delle lotte di classe poteva cominciare ad essere interpretato attraverso quella microconflittualità sociale che la socializzazione (tanto del capitale quanto della forza-lavoro) ormai comportava: è così infatti che nasce il concetto di “operaio sociale”.

Oltre le promesse della dialettica occorre dunque andare, assumere cioè il potere non come una proprietà bensì come una strategia.

In quell’articolo del ’77 facevo a questo punto una lunga digressione su quello che allora mi sembrava lo stato della critica dell’economia politica, nelle sue scuole più attive, quelle ricardiane che già andavano oltre il keynesismo. Ed era su Piero Sraffa che mi soffermavo – sulle potenze che, nel suo Produzione di merci attraverso merci(16), egli mostrava di determinare nuovo valore, di produrre innovazione dall’interno della circolazione delle merci, aggiornando così la lettura della circolazione delle merci e del problema della trasformazione chez Marx. Nel ricordare l’importanza teorica di questa lettura sraffiana della circolazione ricardiana, ricordavo l’aneddoto dell’incontro-scontro con Wittgenstein, dopo che l’esperienza del Tractatus si era conclusa. Piero Sraffa faceva notare al collega di Cambridge come il problema, a livello logico e nella critica dell’economia politica, fosse il medesimo, e cioè come si potesse identificare un punto di trasformazione (di produzione innovativa) per l’economista dentro la circolazione delle merci, per il filosofo dentro la circolazione linguistica. Ora, mentre per Wittgenstein, “ogni possibilità di trasformazione è in crisi e le soluzioni proposte non lo soddisfano, perché un enorme peso di esperienza e di sofferenza le nega, Sraffa si produce in uno scherzo napoletano, un segno manuale di allusione, di disprezzo “fa le fiche”: ne chiede ironicamente la traduzione simbolica. Per Wittgenstein, si racconta (e poco interessa la verità del racconto se l’apologo funziona), questa suggestione sta alla base della scoperta di un nuovo campo d’indagine, sulla produzione di segni a mezzo di segni oltre la sfera della circolazione pura dei segni, oltre l’unità statica di un universo di movimenti segnici. Produzione di segni a mezzo di segni, produzione di merci a mezzo di merci? Non è la vittoria di una nuova economia politica che comprende la produzione nella circolazione, quello che l’apologo registra, non è l’irrazionale proposto da Sraffa l’elemento vincente?”(17).

Infine, quest’aneddoto non risponde al compito che Foucault già da tempo si era esplicitamente proposto: “rimettere in questione la nostra volontà di verità; restituire al discorso il suo carattere di evento; togliere infine la sovranità del significante”? (18).

***

Ma basta tutto questo? Può darsi verità senza prassi, senza resistenza? Nel ’77 così rispondevo alla questione: “non basta. Non basta, sembra, neppure a Foucault. Nella Préface all’autobiografia di B. Jackson(19), Foucault propone la lettura del mondo come mondo della circolazione del comando, dell’esclusione, della violenza, propone una considerazione critica del capitale come carcere, ma insieme è colpito, attonito ed entusiasta, da questa formidabile realtà di rivolta, di indipendenza, di comunicazione e di auto-valorizzazione interna alle carceri. L’idea e le realtà del potere, della legge, dell’ordine che attraversa le prigioni e avvinghia insieme, nel racconto dei carcerati, le più tremende esperienze, qui comincia a vacillare; gli eventi, nella loro serialità e regolarità, si aprono su nuove condizioni di possibilità. Nessun nesso dialettico in ciò: la dialettica, nel suo falso rigore, imprigiona l’immaginazione della possibilità. Nessun rovesciamento statico. Invece, di contro, un orizzonte aperto. La logica analitica della separazione, nella misura stessa in cui s’è compiuta, apre ad una strategia della separazione. La separazione, il rovesciamento divengono reali solo nella strategia. Un mondo di auto-valorizzazione si oppone al mondo della valorizzazione del capitale. Qui la possibilità si fa potenza. Allarghiamo troppo, introducendo questo concetto spinoziano di possibilità-potenza, la nostra presa interpretativa su Foucault? Forse. In Foucault il sospetto dell’indeterminazione è tuttavia sempre vigile. D’altra parte la sua analisi “cerca” – per così dire – non solo esiti critici ma, probabilmente, una sorta di stabilità nell’effettualità di nuovo raggiunta. Eppure quella “mobilità” metodologica che tanto ci aggrada, che tanto è adeguata alla qualità del lavoro intellettuale determinata dal capitale sociale, che è intrinseca alle modalità ed ai fini del processo rivoluzionario oggi, pone un problema: potrà essa riposare su se stessa o non sarà, non è necessariamente condotta ad incarnarsi nella dura determinazione del processo storico, della potenza contro il potere, del proletario contro il capitale? Qui comunque s’apre un quadro problematico cui solo un movimento reale è capace di dare risposta. Ma se Foucault fosse solo pervenuto a porre questo insieme di domande, il movimento reale dovrebbe essergliene grato” (20).

***

Nel 1983 ritorno in Francia dopo una lunga carcerazione in Italia. Riprendo contatto, proprio nel periodo che sta attorno alla morte di Foucault, con Deleuze. Con lui discuto a lungo di Foucault, superando le reticenze che nei confronti di Foucault erano proprie dei più diretti collaboratori ed amici di Deleuze. Respiro quindi da vicino l’aria di quel capolavoro (non di storia della filosofia – avete visto mai qualcuno che da quell’orrida disciplina fosse più lontano di Foucault e di Deleuze? – ma) di letteratura e di condivisione spirituale che fu il suo libro Foucault(21).  Esso rappresentò il definitivo superamento di quella impasse fra “soggettività senza oggetto” e “struttura senza soggetto” della quale abbiamo già descritto la topografia in Foucault  (e che andrebbe ripercorsa come risultato di una “perdita d’identità” della filosofia francese a partire dagli anni ’50)(22) – quel superamento che non è Aufhebung, che non ha nulla di dialettico (“il tema dell’universale mediazione è ancora una maniera di elidere la realtà del discorso”)(23) ma che è un oltrepassamento definitivo della tradizione dello spiritualismo francese che sull’individuo-soggetto stringe la verità, sull’amore rattrappisce l’azione e nella psicologia annulla la positività dell’esistenza. In effetti, ben prima di raccontare la storia dell’incontro fra l’episteme e la sua innovazione, Deleuze ne aveva offerto il dispositivo a Foucault. Per questo, ora, poteva parlarne con tanta pertinenza. Quanto a noi, per ottenere l’insieme del quadro di questo formidabile oltrepassamento della tradizione filosofica francese – compiuto dal suo interno e per prendere coscienza di quell’ “inveramento” egemonico sul terreno non solo europeo della filosofia che Foucault e Deleuze le permisero – dovevamo ancora attendere la pubblicazione dei corsi foucaultiani al Collège de France. Avevamo comunque compreso che, se il secolo ventesimo era divenuto deleuziano, il ventunesimo sarà foucaultiano.

***

Eppure quanti sforzi sono stati fatti per togliere di mezzo la definitiva conversione del discorso foucaultiano – oltre il biopotere, attraverso il biopolitico – alla produzione di soggettività! Ricordo, al principio degli anni ’90, un mio seminario al Collège International de Philosophie nel quale si scontrarono Francois Ewald e Pierre Macherey. Si scontravano sull’individualismo, sulle determinazioni diverse della libertà e sul senso dell’etica foucaultiana; ma ad entrambi sfuggiva il fatto che in Foucault all’individualismo era opposta la singolarità, che nell’etica si cercava una libertà che non era solo dello spirito ma anche dei corpi, e che la sua ontologia era produttiva. E quindi sfuggiva loro che la sovranità, all’interno della quale si radicava il biopotere in ogni sua figura (liberale come socialista), non era il solo tessuto sul quale l’ontologia potesse essere costruita e misurata. Al contrario: la sovranità era da Foucault sussunta, quindi analizzata e decostruita, all’interno della biopolitica, nel rapporto fra diverse produzioni di soggettività.

Quand on définit l’exercice du pouvoir comme un mode d’action sur l’action des autres, quand on le caractérise par le “gouvernement” des hommes les uns par les autres, – au sens le plus étendu de ce mot -, on y inclut un élément important: celui de la liberté. Le pouvoir ne s’exerce que sur des “sujets libres”, et en tant qu’ils sont “libres”- entendons par là des sujets individuels ou collectifs qui ont devant eux un champ de possibilité où plusieurs conduites, plusieurs réactions et divers modes de comportements peuvent prendre place. Là où les déterminations sont saturées, il n’y a pas de relation de pouvoir: l’esclavage n’est pas un rapport de pouvoir lorsque l’homme est aux fers (il s’agit alors d’un raport physique de contrainte), mais justement lorsque qu’il peut se déplacer et à la limite s’échapper. Il n’y a donc pas un face à face de pouvoir et de liberté, avec entre eux un rapport d’exclusion (…) la relation de pouvoir et l’insoumission de la liberté ne peuvent donc etre séparées. Le problème central du pouvoir n’est pas celui de la “servitude volontaire” (comment pouvons-nous désirer etre esclaves): au coeur de la relation de pouvoir, la provoquant sans cesse, il y a la rétivité du vouloir et l’intransitivité de la liberté”(24). Questo testo è del 1980. Quanto Foucault verrà poi sviluppando, sarà tutto dentro questa prospettiva. Si approfondiranno senza interruzione sia il carattere materialista dell’analisi delle determinazioni storiche, del contenuto dell’episteme nel passaggio tra “archeologia” e “genealogia”, sia la potenza della “produzione di soggettività”, dalla resistenza alla ribellione all’espressione ed alla critica della democrazia politica.

***

Ancora una pagina da quel mio articolo su AutAut nel 1977. “Quando Marx perviene alla definizione della “società del capitale”, cioè all’intuizione che lo sviluppo del capitale supera per sua stessa necessità ogni limite di possibile previsione storica ed impone per ciò stesso la modificazione delle sue proprie categorie di funzionamento secondo uno schema e secondo dimensioni “sociali”, – in quello stesso momento esige la messa in atto di una “neue Darstellung”, di una nuova adeguata esposizione. La “neue Darstellung” – nella tematica marxiana – non è ovviamente solo una nuova esposizione di contenuti, deve essere anche una nuova identificazione di soggetti e quindi una rifondazione metodica. Oggi siamo nel mezzo, se non oltre, di quella fase liminare intravista da Marx, comunque esigita dal suo procedimento critico. Oggi assistiamo dunque ad un primo fertile sconvolgimento dell’orizzonte scientifico dei rivoluzionari – di ciò occorre esser grati anche a Foucault. Questo sconvolgimento categoriale, questa risoluta innovazione metodica divengono così compiti fondamentali. Compiti da assumere direttamente, insistendo sulla complessità strutturale della Zivilisation capitalistica, sulla radicalità del progetto distruttivo, sulla parzialità settaria della strategia scientifica che mettiamo in atto, sul carattere offensivo delle conseguenze tattiche che ne derivano. Quel che è certo è che già molto cammino s’è in proposito sensatamente fatto. L’intensità dell’approccio foucaultiano e la fertilità del suo metodo sono parte delle cose fatte ed insieme sono compiti da eseguire.

Come sempre, tuttavia le ragioni di una scelta, di un compito, le fondazioni di un metodo non si sostengono certo solamente sull’identificazione di una svolta storica. L’ontologia è più densa della Histoire. Il metodo, come s’è detto è richiamato e rinnovato dalla specificità dell’esposizione dei contenuti. Ma noi dobbiamo qui, in questa fase, dire di più: il metodo (come dispositivo, come produzione di soggettività, come praxis) determina la specificità dei contenuti. Il metodo vuol essere radicato nell’ontologia di una presa sull’esistenza storica che è propria di quella radicalità che ci mostra il mondo. Provate a leggere con la semplicità del metodo dialettico e delle sue paradossali alternative qualcuno dei grandi problemi della (critica dell’) economia politica e della politica: un pugno di mosche è quanto, al massimo, vi ritrovate in mano! La verità mostra invece oggi la sua complessità attraverso le mille vie che introducono al processo critico della rivoluzione. Seguirle, articolare a fronte, contro il potere, l’infinitamente complesso interconnettersi di autonomie e indipendenze, di autonomia e autonomie, di possibilità e potenze – spiegare questo processo come fonte e insieme come catastrofe del dominio nemico: di quel metodo che ci permette questo lavoro abbiamo bisogno, della sua pienezza ontologica. Approssimazione a questo metodo ed alla sua fungente, molteplice diversa attività, alla complessità della funzione semantica che determina: il metodo della critica dell’economia politica e della politica si prova oggi, anche grazie a Foucault, su questo compito”(25).

(1) 1977: A. Negri, “Sul metodo della critica della politica”, in: AutAut, 167-168, Settembre-Dicembre 1978, pp. 197-212. Ora in A. Negri, Macchina tempo, Feltrinelli editore, Milano, 1982, pp. 70-84.

(2) Queste lezioni saranno pubblicate con il titolo Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli editore, Milano 1979.

(3) M. Foucault, Histoire de la folie, TEL, Gallimard, Parigi 1972, p. 549.

(4) M. Foucault, Introduction à Ludwig Biswanger, Le reve et l’existence, Desclée de Brouwer, Bruges 1954; E. Kant, Anthropologie du point de vue pragmatique, J. Vrin, Paris 1964; V. von Weizsaecker, Le Cycle de la Structure, Desclée de Brouwer, Bruges 1958.

(5) M. Foucault, Naissance de la clinique, Puf, Paris 1963.

(6) Si veda in proposito Pierre Vilar, “Histoire marxiste, histoire en construction. Essai de dialogue avec Althusser”, in Annales. ESC, 1973, 28, 1, pp. 165-198.

(7) A. Negri, Macchina tempo, p. 74.

(8) Ivi, p. 74.

(9) A. Negri, Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke, Feltrinelli editori, Milano 1959.

(10) M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966. Ma vedi anche: IMEC, Les Mots et les Choses de Michel Foucault. Regards critiques 1966-1968, Presses universitaires de Caen, 2009.

(11) A. Negri, L’Anomalia selvaggia, Feltrinelli editore, Milano 1982.

(12) M. Foucault, Surveiller et Punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, p. 315.

(13) M. Foucault, Dits et écrits, vol. III, Gallimard, Paris 1994, texte 238, p. 628.

(14) M. Foucault, Sorvegliare e Punire, Einaudi, Torino 1976, pp. 30-31, citato da A. Negri, Macchina tempo, pp. 75-76.

(15) A. Negri, Dominio e sabotaggio, Feltrinelli, Milano 1979.

(16) P. Sraffa,

(17) A. Negri, Macchina tempo, p. 78.

(18) M. Foucault, Lecon inaugurale, martedì 2 dicembre 1970, Collège de France, Chaire d’Histoire des Systèmes de Pensée, n. 53, p. 25.

(19) M. Foucault, Préface a B. Jackson Leurs Prisons, autobiographies de prisonniers et d’ex-détenus américains, Plon, Paris 1972.

(20) A. Negri, Macchina tempo, p. 82.

(21) G. Deleuze, Foucault, éditions de minuit, Paris 1986.

(22) V. Descombes,

(23) M. Foucault, Lecon inaugurale, p. 23.

(24) M. Foucault, Dits et écrits, vol. IV, texte 306, p. 238.

(25) A. Negri, Macchina tempo, pp. 83-84.

 

 

 

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