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Anche in Algeria all’ improvviso la paura è sparita. Somiglianze e differenze nelle recenti ribellioni sociali del Maghreb

 

di HELMUT DIETRICH

La rivoluzione tunisina ha scatenato proteste sociali anche in Algeria. Bouazizi, lo studente laureato che il 17 dicembre si è dato fuoco per protesta contro il dispotismo delle autorità vigenti, è diventato anche lì un martire popolare.

In tutto il Maghreb i poveri – di cui fan parte anche i laureati disoccupati – si sono costruiti un mondo di reti informali. La gente si costruisce da sé le proprie piccole abitazioni, si formano spontaneamente mercati di generi alimentari sulle strade, proliferano nelle grandi città servizi di ogni tipo. Questo mondo informale è esposto da un paio di mesi a forti attacchi da parte dello stato. Le violenze della polizia, il numero crescente delle mazzette pagate alle autorità, gli aumenti dei prezzi dei generi alimentari, la crescente disoccupazione stanno dietro le rivolte scoppiate il diciassette dicembre in Tunisia e a inizio gennaio in Algeria. Perché in Tunisia hanno portato alla caduta del dittatore Ben Ali mentre l’Algeria è in continuo stato d’agitazione senza che si sia arrivati ad un rovesciamento del potere?

Il modello di dominazione di Ben Ali

In Tunisia la rivolta è cominciata nell’entroterra, nel profondo sud-ovest. La zona che si estende a est di Kairouan fino al confine algerino, è marginalizzata da secoli. L’agricoltura è in declino, lo smaltimento  del fosfato presso la città di Gafsa è stato per metà automatizzato. Quando a causa del malcontento sociale nel 2008 scoppiò una sommossa che si protrasse per  più di sei mesi, la polizia circondò le città insorte e le isolò dal resto del mondo esterno per settimane, si diede a saccheggi e arresti e ricevette l’ordine di sparare. Nel resto della Tunisia e nel globalizzato mondo dei media per mesi non si seppe nulla di tutto ciò a causa del black out delle notizie applicato dal regime di Ben Ali. In Europa c’era una lacuna di fondo nella percezione degli eventi dovuta all’assunto che le conflittualità non  riconducibile allo stereotipo della minaccia islamica non sono interessanti. Furono per primi amici e parenti residenti in Francia a rompere il silenzio mettendo su internet  le foto della rivolta, fatte con i telefonini, e scendendo in strada a Parigi.

La stabilità del modello del dominio tunisino si è finora fondata sulla peculiare divisione socio-geografica delle città e del paese intero. Gli urbanizzati provenienti dalle campagne si sono insediati 20 chilometri distanti dal centro della capitale, mentre fuori da Tunisi nascevano nuovi centri amministrativi. La più conosciuta università di Tunisi è stata dislocata nella periferia  Manuoba. Il predecessore di Ben Ali  Burghiba voleva spianare il centro storico di Tunisi. Abbandonò il proposito, ma sottopose quel luogo di povertà urbana ad un fitto e capillare controllo di polizia.

Però, i giovani, mobili e scolarizzati, hanno rotto le uova nel paniere al regime. Sono collegati con tutto il paese e hanno contatti che arrivano fino in Francia, e non solo tramite internet. Oramai in Tunisia la percentuale di iscritti all’università è pari alla media europea. La percentuale di donne sia fra gli studenti che fra i docenti è più alta che, ad esempio, in Germania. Simile la base sociale che si è venuta a creare in Algeria. In tutto il mondo arabo il numero degli studenti negli ultimi dieci anni è aumentato di oltre il 250%.

Il cinque gennaio in quasi tutte le città del nord dell’Algeria è scoppiata una rivolta sociale, dappertutto bruciavano barricate. I conflitti sono stati più violenti che in Tunisia. Nella capitale Algeri gli scontri di strada verificatisi nella Kasbah bassa e nella vicina Bab El-Uoed sono stati una prima avvisaglia. In seguito a ciò, giovani hanno eretto barricate in diversi luoghi  della città e in  periferia. Per ore Algeri è stata isolata dal mondo.

Nella capitale le angherie della polizia contro venditori ambulanti e gli sfratti coatti hanno alimentano i disordini.  Le azioni dei reparti di sgombero della polizia si sono rivolte contro i mercati spontanei e le occupazioni a scopo abitativo, ma anche contro quei piccoli proprietari che anni prima all’atto di comprare una casa erano stati truffati con documenti falsi. Per le famiglie sfrattate  in Algeria è dura rifarsi una vita normale qualora non riescano ad affittare un’altra abitazione. Senza un domicilio registrato gli studenti non possono sostenere alcun esame, giovani non registrati corrono il rischio di essere ricercati come disertori.

Ondata di aumenti

I salari in Algeria sono molto sotto il livello dei paesi limitrofi benchè il paese sia ricco grazie al petrolio e al gas. Spazzini, domestici, sorveglianti e venditori ambulanti di verdura guadagnano mensilmente dagli 80 ai 120 euro. Ma il minimo per vivere ammonta per una piccola famiglia, secondo calcoli ufficiosi, a 400 euro. La piccola coltivazione è quasi scomparsa, anche se molte famiglie hanno parenti in campagna. Ma in Algeria – a differenza che nei paesi confinanti – l’economia di sussistenza è completamente andata distrutta.

In questo quadro la rivolta di gennaio è stata anche una protesta contro i prezzi alle stelle dei prodotti alimentari. A inizio anno lo zucchero e l’olio sono diventati un 20 % più cari. Si poteva quasi osservare di ora in ora i prezzi salire. Inoltre è girata voce che la farina stava sparendo. Davanti ad alcuni panifici si sono formate code. Il governo ha dato la colpa ai grossisti, infatti la gran parte dei generi alimentari è importata. Il sistema dei dazi doganali e delle imposte è assai poco trasparente. I grossisti, come tutti i commercianti algerini, pagano in contanti con mazzi di banconote, chiamati mattonelle, che passano di mano in mano come mezzi di pagamento. All’improvviso il governo ha però deciso che l’acquisto all’ingrosso poteva avvenire solo con assegni e bonifici bancari con il proposito di introdurre imposte regolari al posto di balzelli e mazzette sottobanco. Le banche non erano però attrezzate per una tale quantità di operazioni e, soprattutto, i commercianti non  volevano venissero in questo modo documentati i guadagni imponibili.

L’otto gennaio, dopo che la protesta si era diffusa in tutto il paese e già si contavano cinque vittime, lo stato revocava l’aumento dei prezzi di zucchero e olio. Le retate contro i mercati informali erano sospese, le ruspe sparite. Le ultime scaramucce di cui è stata data notizia risalgono al nove gennaio.

Classi sociali separate

La  differenza decisiva rispetto agli accadimenti tunisini sta forse nel fatto che in Algeria non si è arrivati ad una spontanea coalizione tra poveri e borghesia delle professioni. Anche  insegnanti, medici e avvocati sanno ricorrere in Algeria nelle loro lotte alle maniere forti  per poi trovarsi esposti a cariche, arresti e dure intimidazione. Ma i due milieu non si mescolano. Il ceto medio di nazionalità algerina, costituitosi nei decenni successivi all’indipendenza, si conforma nello stile di vita alla Francia, da cui si era staccato con successo sul piano politico. Di conseguenza il collante sociale necessario per una esplosione in Algeria non sembra esserci. Comunque, a causa del crescente sfaldamento del paese, è impossibile dire come evolverà il futuro.

A differenza della Tunisia, in Algeria da decenni si verificano quasi ogni giorno rivolte locali. Emergenza abitativa, carovita e carente distribuzione dei servizi urbani fanno da detonatori. Non esiste un dialogo con i potentati locali. Tronchi d’albero messi di traverso sulle strade provinciali, pneumatici che bruciano e assalto finale alla sede del comune e al locale posto di polizia, che viene saccheggiato e dato alle fiamme: ecco il tipico svolgimento di una rivolta locale in Algeria.

Un altro linguaggio

Come si è arrivati a inizio di gennaio ad una rivolta che – per la prima volta dal 1988 – si è diffusa contemporaneamente nelle più grandi città del nord Algeria? I media hanno subito pronta una spiegazione: la relazione con il crescente uso di internet soprattutto da parte dei laureati disoccupati. Ma se si seguono con continuità i reportage, le foto e i video su twitter, facebook e blog si giunge ad un’altra conclusione. A inizio anno, improvvisamente, in Algeria come in Tunisia sono mutati il linguaggio e il tono dei messaggi. La paura era scomparsa.

In Maghreb anche uno straniero impara negli anni che di argomenti scottanti si parla solo coprendosi la bocca con la mano e quando si scrive lo si fa solo per allusioni. L’anonimato era un obbligo dato che nonostante tutto la polizia controllava anche il traffico telematico. Troppo spesso bisognava prendersela per l’eccessiva autocensura.

Tutto ciò ad inizio del gennaio 2011 era scomparso. Manifesti, espressioni di rabbia, articoli circa la giusta tattica di lotta contro il regime, analisi puntuali – improvvisamente era tutto a disposizione in rete. In un attimo i giudizi dei think tanks internazionali sulla crisi nordafricana erano stati analizzati. A inizio gennaio in Algeria si dava per certo che il Ceausescu tunisino non sarebbe sopravvissuto a lungo – e questo mentre i media europei ancora non si pronunciavano in merito.

Certo, ciò che sarebbe accaduto in Algeria restava incerto. Era chiaro che la lotta conto il regime algerino sarebbe stata decisamente più dura. Non ci si era dimenticati del fatto che l’apparato statale algerino ha accumulato esperienza nel combattere disordini simili ad una guerra civile. L’Algeria non è uno stato di spionaggio e di polizia come la Tunisia sotto Ben Ali, ma l’esercito ha il grilletto facile. Quasi tutti i giorni ci sono “terroristi” morti in Cabilia. La gendarmeria paramilitare reagisce con estrema violenza alle ribellioni locali.

L’esercito è legato a doppio filo con la compagnia gas-petrolifera statale Sonatrach ed è presente come potentato economico dai mille fili fin dentro le università. I migliori laureati hanno davanti l’alternativa o di far carriera sotto le ali protettive dell’esercito oppure di sprofondare nella disoccupazione senza prospettive.

Sicuramente sono stati anche laureati algerini senza lavoro a far circolare notizie sulla rivolta. Essi dopo l’università sono tornati nelle loro famiglie senza mezzi, non vivono autonomamente, il loro sapere è vincolato dalla loro condizione sociale. Il venditore di datteri a buon prezzo accanto al supermercato a Oran, raccontava ogni volta delle sue esperienze universitarie a Darmstadt,nella facoltà di elettrotecnica, e del lavoro solo saltuario che lo aveva costretto a  ritornare a casa.

Quando il venditore di datteri può vantare esperienze di prima mano in giro per il mondo, lui che è tornato a vivere in un piccolo villaggio, allora Facebook è un mezzo di comunicazione di certo importante, ma non il più importante. Decisivo è stato il fatto che i dimostranti scesi in strada hanno perso la paura, la paura delle torture e di un possibile bagno di sangue, ma anche di non venir compresi in Europa e nel resto del mondo. Hanno allora potuto dimostrare a tutto il mondo di non essere pericolosi terroristi islamici in guerra contro un regime progressista, bensì combattenti contro un sistema di dominio dispotico.

*  da Neue Bürcher Zeitung

Traduzione dal tedesco di Leonardo Zannini e Mattia Cipolli. Revisione di Raffaele Sciortino

Helmut Dietrich è un ricercatore di scienze sociali di Berlino; attualmente lavora con l’Istituto di scienze della cultura di Essen.

 

 

 

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