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Una discussione intorno al comune

 

Intervista a TONI NEGRI – di FILIPPO DEL LUCCHESE e JASON E. SMITH

Da alcuni anni ormai le tue opere più importanti sono scritte a quattro mani con Michael Hardt, e il suo contributo appare sempre più evidente, specialmente in quest’ultimo libro. L’evoluzione appare ancora più palese a chi conosca le tue opere precedenti, in cui affiora uno stile di ragionamento, di pensiero e di scrittura estremamente originale, singolare, con un percorso ben definito e riconoscibile attraverso le tue esperienze politiche e culturali.
Qual è il vostro metodo di lavoro a due, e quali sono gli elementi più importanti che derivano da questo ‘incontro’?

Il modo in cui lavoriamo è noto. Facciamo delle grandi discussioni ed elaboriamo in comune degli schemi, dopodichè ci dividiamo il lavoro. Una volta che abbiamo redatto queste parti le rivediamo a vicenda. La stesura finale viene poi fatta o in italiano o in inglese e tradotta di volta in volta, prima di essere corretta sulla traduzione. Il meccanismo, quindi comporta una ‘collusione’ continua di argomenti e di modi espressivi.
Essendo io il più vecchio, sono quello che, forse, inizialmente ci ha messo di più. Ma poi il processo è divenuto sempre più paritario. È fuori dubbio che un certo modo argomentativo – assai americano – è tipico di Michael e proprio del suo carattere. Per esempio, a lui non piace la polemica troppo forte. Credo che ci sia stata un’ansia, non semplicemente linguistica, di rispettare alcuni moduli di scrittura accademici. In ogni caso è attraverso la discussione continua che avviene il raffinamento delle tesi che sosteniamo. Questo ha abbastanza cambiato le cose rispetto ai miei precedenti libri. La mia forma di scrittura era più legata direttamente allo scontro politico. Ma, soprattutto, era molto più solitaria: molti dei miei libri sono stati scritti in galera.

Al tempo stesso un contributo straordinario all’elaborazione delle vostre tesi deriva dalle esperienze concrete di lotta che avete attraversato negli ultimi anni. «L’intellettuale – scrivete (118) – è e può solo essere un militante, impegnato come una singolarità in mezzo ad altre singolarità, immerso in un progetto di conricerca il cui fine è la costruzione della moltitudine».
In che modo l’accumulazione delle lotte e delle esperienze di movimento entra nel vostro lavoro?

Il rapporto alle lotte, come dicevo prima, è indubbiamente molto meno stretto di quanto lo sia stato per me in passato, soprattutto negli anni ’70. Quindi il nostro rapporto è più equilibrato, meno legato all’adesione immediata a certi paradigmi interpretativi o a certe parole d’ordine. Come succede spesso, nelle situazioni militanti si è costretti ad essere più grezzi, più duri, meno raffinati. E tuttavia è indubbio che c’è un accumulo di esperienze, in termini sia tattici, sia strategici, che sta alla base di tutto il nostro discorso. Direi che questa osmosi è più legata a un accumulo di esperienze che all’immediatezza del rapporto politico. Qualche tempo fa ragionavo con altri compagni sulle ultime pagine dell’ultimo corso di Foucault, quelle sui cinici e sul pensiero militante. Sono pagine formidabili, dalle quali tuttavia mi sentivo ormai in un certo modo distante… forse perché più vecchio. Pagine che oggi leggo meno in termini etici. Alle quali aderisco, cioè, in termini meno etici di quanto queste intendano suggerire. Insisto invece con più forza sugli straordinari elementi teorici che contengono.

Ti sentiresti allora di rovesciare la bella espressione che usava Althusser per parlare del proprio ruolo di intellettuale, definendoti un ‘agitatore filosofico in politica’?

Si, ma appunto rovesciandola. Althusser era un maestro ed un amico, ma mi ha sempre infastidito il suo atteggiamento di fare il ‘politico’ in filosofia. Sono convinto di quello che lui diceva, che la filosofia è un kampfplatz, un campo di battaglia in cui si affrontano diverse posizioni teoriche. E tuttavia c’era in lui una specie di astrazione o di raffigurazione eccessivamente separata del ‘professore’, o del soggetto che fa politica entro e attraverso la filosofia, che non condivido. Mi dà inoltre fastidio il fatto che, in fin dei conti, sia il linguaggio filosofico che la storia della filosofia siano assunti come riferimenti tutti teorici e “d’ufficio”. Essere invece filosofo ‘dentro’ la militanza rovescia il quadro, assume il problema non più in astratto ma in concreto. È qui che si dà tutta la differenza fra una filosofia solidamente impiantata nella biosfera, nella vita reale, e una sfera filosofica astratta. E questo sia dal punto di vista dei linguaggio, che delle finalità, delle tattiche, dei modi in cui i problemi vengono di volta in volta affrontati.

C’è in questo libro un ampio lavoro di riattivazione dei termini di Common e Commonwealth che evocano, soprattutto per una sensibilità anglofona, il periodo delle guerre civili e spingono verso il comunismo messianico dei Levellers e dei Diggers.
Perché è importante riattivare questi due concetti? Stiamo attraversando ‘un nuovo XVII secolo’?

Che stiamo attraversando un nuovo XVII secolo è con ogni probabilità vero. Ciò significa – questa è un’idea che ho sempre avuto in testa (per lo meno da quando nel 1970 ho pubblicato il mio Descartes politico) – che la crisi della Rinascenza mostra delle analogie con la fase di crisi della modernità che stiamo vivendo. Che la crisi del moderno corrisponde a questa attuale fase di invenzione… come dire?… del comunismo? No, è meglio dire dell’epoca del postmoderno oppure del “comune”. Perché la nuova forma di accumulazione capitalista che si sta dando nel presente, per la prima volta ripete quei processi dell’espropriazione del comune che sono stati tipici dell’inizio della modernità. È un processo che attacca la vita ed il comune che quel secolo di lotte operaie che ci ha preceduto, ha costruito: dei ‘comuni’ che erano divenuti la base del nostro stesso vivere, dal Welfare alle nuove capacità di produrre, di agire, e di costruire linguaggi comuni oltre che tecnico-scientifico. Questo comune, che avevamo costruito attraverso le inenarrabili sofferenze nella modernità, viene espropriato oggi attraverso un nuovo sistema di accumulazione capitalista. La resistenza agisce contro questa nuova accumulazione. Questo è in fondo il punto centrale che sta in tutto il libro. Lo chiamiamo: “l’uno è diviso in due”, registriamo cioè una biforcazione che la resistenza sta costruendo nel presente. “Biforcazione” assolutamente centrale, dunque, che si fonda sulla difesa del comune e il tentativo di far valere, contro la nuova accumulazione originaria, il valore dei commons.

Se poi questo possa rappresentarsi in termini escatologici, come è avvenuto nella Rivoluzione inglese, è forse dubbio. Ogni escatologia rinvia a un ‘fuori’, mentre gli elementi di distruzione che appaiono oggi, l’‘apocalisse’ che viene, è tutta interna. È “dentro”. Non c’è piu trascendenza, ci muoviamo su un piano di completa immanenza. Di conseguenza, gli elementi apocalittici o escatologici che si mostrano oggi, ogni concezione del ‘male radicale’ – per esempio -, non può che essere un’arma del nemico.
Il primo elemento, dunque, è la percezione storica di una rottura, o di una biforcazione, che appare oggi all’interno dello sviluppo capitalistico: la materia usata all’interno del processo di produzione è oggi, infatti, una materia che non si consuma, è l’intelligenza. La sua forza di liberarsi, di difendere il comune, di costruire a partire dal comune è virtualmente irresistibile. E se la virtualità non è attuale, rappresenta comunque una soglia di possibilità – è sempre una resistenza.
La seconda preoccupazione che sta dentro al libro è spiegare che cosa significa ‘fare moltitudine’, costruire cioè la coscienza politica della moltitudine. Lo chiamiamo anche il ‘farsi Principe’ della moltitudine. Inteso, va detto, in termini più gramsciani che machiavellici. Dunque, questo è il secondo oggetto fondamentale della nostra ricerca. Ci arriviamo anche attraverso la polemica, perché questa moltitudine, che avevamo già proposto nei libri precedenti, era stata interpretata malevolmente quasi fosse un’ipostasi. Non lo è proprio, è un soggetto (plurimo ma soggetto) che si costruisce legando lotte e teoria, desiderio e linguaggi, in una prospettiva di liberazione.

Insistiamo allora su questa ‘liberazione’, restando ancora al livello dei concetti: piuttosto che abbandonare l’idea di comunismo, sostenete, si tratta oggi di dissociarla dalle «illusioni» del socialismo e di ridefinirla: «Come il privato sta al capitalismo, e il pubblico al socialismo, così il comune sta al comunismo» (p. 273).
Cosa vuol dire essere comunista oggi?

Essere comunista significa lottare contro la proprietà privata, eventualmente distruggerla, e costruire le istituzioni del comune. Significa tuttavia anche pensare che non esiste più una possibilità concreta di sviluppare produzione e quindi di creare collettivo, senza che liberta ed eguaglianza – universali astratti – siano assunti all’interno del processo del comune, del concreto, storico costituirsi e istituirsi del collettivo. Quegli “universali” debbono diventare “concreti”, meglio, “comuni”. Moltitudine, comunismo: è l’idea di un ‘collettivo’, ma di un collettivo articolato dalle singolarità. Essere comunisti significa di conseguenza costruire forme di “normazione” del reale che siano dinamiche, mutevoli costituzioni politiche che ripetutamente si modificano, conseguenti alle modificazioni continue della produzione e riproduzione della moltitudine. È un “fare costituzione” attorno alle necessità di una produzione comune, accompagnato dal bisogno di conquistare la felicita.
Il comunismo storico, quello russo (e forse anche quello cinese), è stato – per ben che vada – un socialismo, una gestione pubblica della produzione della ricchezza. È stato sconfitto ma ci ha proposto l’immagine di una possibilità reale. Credo che questo sia un sentimento che corre attraverso tutto il libro. Non è il sentimento utopico di una possibilità ideale. No, è piuttosto la coscienza di un factum che non può essere sfatto, di una realtà che non può essere smentita, di un processo irreversibile… «Il futuro ha un cuore antico», recitava il titolo di un romanzo di Carlo Levi (di apologia dell’Unione Sovietica)… è una frase che ho sempre preso – e che va presa – con molta ironia, ma in cui in fondo c’è del vero.

Suggerite ancora nel vostro libro di abbandonare il progetto di costruzione del socialismo come una tappa intermedia tra il modo di produzione capitalistico e l’appropriazione collettiva del comune.
Questo significa che dobbiamo rielaborare o addirittura abbandonare del tutto il concetto di transizione? Si passa direttamente e senza transizione dalla produzione biopolitica del capitalismo contemporaneo al comunismo?

Non abbiamo assolutamente più bisogno di una transizione. Ciò che conta oggi è la biforcazione. Ciò vuole dire che stiamo già vivendo una trasformazione radicale e profonda. Ma ciò indica qualcosa di fondamentalmente diverso dalla transizione così com’era stata teorizzata nelle precedenti esperienze socialiste. Il movimento attuale non è infatti quello di una transizione da un modo di produzione a un altro, quanto piuttosto la costruzione dell’altro, lo sviluppo dell’alternativa visibile ormai all’interno della nostra storia, in termini di antagonismo.
Questa percezione apre ad un altro nodo fondamentale, metodologico più che metafisico: è il rifiuto della dialettica (l’essere nella dialettica, non l’andare al di là di questa). Quando si dice biforcazione, in termini deleuziani o foucaltiani, si dice costruzione di un dispositivo che si stacca dal corso storico determinato perché produce soggettività. (Certo, si potrebbe al limite riproporre, all’interno di questo “andarsene”, una certa dialettica: il rapporto tattica/strategia, ad esempio, implica spesso anche degli elementi dialettici). Tuttavia l’origine di quell’“andarsene”, di quel “biforcare” non si dirige verso la totalità, o una nuova sussunzione globale, o una Aufhebung. Qui c’è una differenza, che si è affermata e si esalta in un dispositivo, un cammino, un percorso, nel quale nascono elementi istituzionali. Non è l’istituzionalizzazione della “società civile” che Hegel esalta e gli anarchici aborriscono. Non è neppure quel concetto tradizionale di istituzione che si porta dietro caratteristiche teologico-politiche. Non è una necessità, ma una costruzione. E inoltre possiede la potenza di rinnovarsi continuamente.
La biforcazione esige l’istituzione. E così che il nuovo viene costruendosi attraverso un’accumulazione di “comune” che da significato al mondo che oggi ci circonda. Ai desideri, al lavoro. Noi li abbiamo strappati al capitale. Pensiamo soltanto alla quantità di capitale fisso che portiamo in noi, dentro noi stessi. Mi sono trovato a discutere, alcuni giorni fa, con alcuni compagni che, come ad esempio Karl Heinz Roth, dicono invece che il capitale fisso è qualcosa che si può immaginare appropriato solo allo schiavo. Lo schiavo è capitale fisso, sostengono, non il lavoratore odierno, cognitivo, intelligente, mobile… Non è vero! C’è un capitale fisso di cui non siamo – come lo schiavo – la proiezione, ma che abbiamo riappropriato, che abbiamo stravolto nella capacità di essere mobili e intelligenti. Pur dentro la schiavitù capitalistica, siamo tuttavia ribelli, fuggitivi, dediti al marronage. Essere mobili, intelligenti, possedere linguaggi, essere capaci di libertà, non è un dato naturale, è una potenza macchinina, i prodotto di una resistenza creativa.

Parliamo degli orizzonti e delle possibilità di lotta nell’epoca della produzione biopolitica. Voi partite dalle analisi dell’operaismo sulla priorità/anteriorità della lotta operaia entro lo sviluppo capitalistico. Le lotte, cioè, come motore dello sviluppo e della ristrutturazione del capitale, costretto a rispondere d/all’offensiva operaia. In un certo senso, questa priorità/anteriorità sarebbe ancora più visibile e matura oggi, nelle condizioni di produzione biopolitica, dove «l’uno si divide in due» e la soggettività molteplice e plurale della moltitudine, in quanto produttrice, si separa e sfugge definitivamente a un comando divenuto sterile e parassitario.
In questo quadro, come e contro che cosa, concretamente, è divenuto possibile ribellarsi? Nelle lotte precedenti avevamo la rivolta contro il lavoro, contro il tempo di lavoro, che equivaleva a sfruttamento, per aumentare il salario, per aumentare il tempo di vita. Oggi com’è possibile rifiutare il lavoro, se il lavoro coincide con la vita stessa; com’è possibile ‘sabotare’ il lavoro senza rinunciare alla propria stessa essenza? Com’è possibile distruggere il lavoro senza distruggere la società, o distruggere il tempo di lavoro senza distruggere il tempo di vita?

Leggevo di recente un articolo di Daniel Cohen, che è oggi un economista fra i più riconosciuti in Francia (quand’era piccolo, gli avevo dedicato, con altri, Marx oltre Marx). Cohen sostiene che oggi la nuova figura antropologica del lavoratore, l’ideal-tipo del lavoratore, dopo questa crisi è quello del lavoratore intellettuale/cognitivo e mobile, e che gli elementi di comunità si costruiscono attorno a questi elementi. Cognitivo e mobile sono dunque i due punti cardinali dell’attuale antropologia del lavoratore: punto produttivo, mobile, di una intersecazione moltitudinaria. La stessa produzione – ed io aggiungo: le conseguenti costituzioni politiche – dovrebbero quindi essere immaginate in questo modo. Da questo punto di vista (dentro i progetti di resistenza e del potere costituente), il rifiuto del lavoro, ancora oggi (come d’altronde è sempre stato anche per l’operaio fordista), è e sarà un rifiuto determinato. Nessuno ha mai parlato di un rifiuto del lavoro in assoluto. Se prendiamo i documenti più belli sul rifiuto del lavoro, quelli ad esempio degli operai del Petrolchimico di Marghera negli anni settanta (nella rivista Lavoro zero per esempio), vediamo che era un rifiuto completamente determinato, attraverso cui si contestavano l’orario, il salario, la soggezione del tempo di vita, l’affitto, ecc. Oggi è lo stesso: il rifiuto del lavoro è un rifiuto assolutamente determinato.
Ho partecipato in questi giorni a un’inchiesta sulla recente ondata di suicidi nelle grandi imprese francesi. Ne emerge che ciò che la gente rifiuta e soffre è proprio un tipo determinato di organizzazione del lavoro. I racconti parlano delle nuove condizioni di lavoro, in questi giganteschi open spaces: i lavoratori sono costretti nello spazio circoscritto delle loro cabine, di fronte al loro computer. In una frammentazione totale del processo produttivo, il lavoratore è costretto a ‘inventare’, senza sapere dove va la sua attività cognitiva. Non gli viene lasciata alcuna coscienza del complesso della produzione. E la frammentazione si duplica, poi, confrontandosi con i processi di marketing, diversi, staccati, contradditori con i processi della produzione. Tutto questo dentro un rumore di fondo diverso ma analogo a quello della vecchia fabbrica fordista. Tale è il teatro di una moltiplicazione dell’alienazione e del sorgere della follia, che poi il lavoratore è costretto a portarsi dietro nella vita esterna all’impresa. E viceversa – per il lavoratore cognitivo – una qualsiasi cosa che avvenga nella vita esterna arriva direttamente sul posto di lavoro, come un nuovo elemento di alienazione e di disturbo. Finché un disastro familiare o la repressione padronale o semplicemente un insuccesso all’interno del processo lavorativo, provocano la crisi suicida. È su questo terreno che dobbiamo portare oggi il rifiuto del lavoro, nel senso di rifiuto determinato di queste condizioni di lavoro.
A tutto questo si affianca però (e rende ancor più insopportabile il lavoro) la capacita che abbiamo di sviluppare un’alta produttività e di costruire mondi nuovi. Produttività vitale, capacità di applicare il desiderio alle cose della vita. È dentro questa contraddizione che si devono inventare oggi le lotte. Infatti, le lotte non escono certo da nulla… Le lotte vanno lentamente e faticosamente costruite, a partire dalle contraddizioni determinate. Costruite, organizzate, come avveniva ai tempi del fordismo: lo sciopero non è mai stato una cosa spontanea, ma sempre costruita, man mano, attorno alla combinazione di obiettivi salariali e della protesta della vita contro il lavoro. Potevi avere un obiettivo formidabile, ma se non riuscivi a coagulare attorno a questo la vita dei lavoratori, l’obiettivo e la lotta fallivano.
Oggi è la stessa cosa. Ma come si fa ad organizzare questo nuovo soggetto? Come è percepita dai lavoratori cognitivi nelle grandi aziende la nuova forma dello sfruttamento? Ciò che tutti dicono immediatamente è che il sindacato tradizionale non serve più a nulla. In primo luogo perché bisogna riuscire a muoversi su un piano internazionale e globale – ed il sindacato non ce l’ha ancora fatta. Poi perché il sindacato non riesce a cogliere la complessità dell’insieme vitale che sta alla base di queste lotte: il sindacato di occupa dell’impiego, è in questo senso corporativo (non politico, appunto: in ciò consiste il disastro). Occorre dunque cominciare a indicare forme di alternativa organizzativa. Come facciamo – questa è la domanda – a organizzare questa “materia prima” intelligente, e a farla “biforcare”, a portarla fuori dal comando capitalistico diretto?
E qui vengono fuori nuove forme di mutualismo e sono proposte di organizzazioni alternative del lavoro – ed alternative al sistema del salario. Discorsi tutt’altro che proudhoniani! Proposte di organizzare cooperative ed altre forme mutualiste che aggrediscano immediatamente i livelli finanziari dell’organizzazione del lavoro. Lotte che non siano immediatamente votate alla sconfitta si possono organizzare solo su questo livello. Stiamo infatti attraversando una fase del ciclo delle lotte operaie che ha mostrato l’esaurimento delle vecchie forme e che richiede una diversa intelligenza strategica: l’intelligenza di intersecare le lotte che vengono da più fronti. Possono venire dall’ecologia, dalla fabbrica, dal lavoro sociale, dai servizi, ecc.. Si tratta insomma di attraversare tutti i settori in cui nuove condizioni di produzione siano maturate. Il discorso che facciamo nel nostro libro sull’intersezione delle lotte è, da questo punto di vista, fondamentale. Non credo che ci sia oggi la possibilità di cogliere un solo punto centrale nell’orizzonte delle lotte: solo intersecarle ha significato strategico.

L’istituzione della felicità è per voi un processo non soltanto ‘politico’, ma anche ‘ontologico’. È qui che, con una mossa filosoficamente molto forte, proponete di tenere insieme materialismo e teleologia, o meglio di sostenere una teleologia materialistica, senza però fini ultimi che guidino questo processo (p. 378). In questi passaggi la posta in gioco è decisamente alta.
In che modo questo processo ontologico e politico sfugge, per voi, al rischio di pensare l’incontro delle singolarità entro e attraverso la moltitudine non come aleatorio, come lo pensano Machiavelli, Spinoza e, dopo di loro, Althusser, ma invece come necessario e, appunto, teleologicamente guidato? A tratti sembra quasi che l’‘avvento’ della moltitudine come soggetto del comune, sia solo una questione di tempo, oppure che sia già dato, oppure che il fatto che non avvenga sia l’eccezione piuttosto che la regola…

Il problema del rapporto tra teleologia e materialismo è un po’ quello dell’uovo e della gallina: ovvio da verificare e difficile spiegare. È chiaro che c’è stata una fase in cui, in maniera feroce nella critica del comunismo e degli orizzonti felici che la rivoluzione sovietica avrebbe dovuto determinare, gran parte della critica contemporanea si è scatenata contro la teleologia, considerandola la figura filosofica di un finalismo molto opportunista, strumentale e sempre più politicamente discreditato. Man mano, poi, il discorso contro la teleologia è diventato un discorso contro il materialismo. Ora, il discorso va ripreso e chiarito fin da principio. Noi non abbiamo nulla a chetare con la “dialettica materialista”, con il famigerato diamat: il materialismo storico è altra cosa. Ora, nel materialismo storico la finalità dell’azione non è legata in maniera determinista al suo successo, alla sua realizzazione. Questo sarebbe hegelismo. Il rapporto fra azione e fine è sempre, nel materialismo storico, aleatorio. Noi togliamo così al telos ogni necessità. Ma ciò non significa togliere il telos all’azione. È quindi alla soggettività/singolarità che se ne fa carico. Ciò dato, perché non cogliere la possibilità di costruire attraverso l’azione comune una universalità? Che questa universalità possa contenere elementi di ambiguità e talora derivare verso l’irrazionale, è evidente. È però altrettanto possibile che questa universalità possa esser tratta dentro un processo di costruzione comune. Credo che questo sia il meccanismo di costruzione delle nozioni comuni e di comuni volontà istituzionali, come si esperimenta in altre esperienze del pensiero materialista. A questo punto l’aleatorietà non è tolta ma è semplicemente proposta alla discussione nell’apertura dello scontro tra finalità diverse, sulle quali si pretende che l’istituzionalizzazione comunista o la forza del comune – che diventano fondamentali – possano trionfare. Per concludere, non c’è “avvento” della moltitudine. Tantomeno del comunismo. Aleatorio è tutto quello che facciamo. Ma costruire è sempre possibile. Il desiderio del comune noi lo esprimiamo e nessuno può impedircelo.

A più riprese, nel volume, vi richiamate alla grande tradizione del realismo antropologico di Machiavelli e di Spinoza fra gli altri (185). Filosofia non della rassegnazione e del pessimismo, come giustamente dite, ma realismo polemico, teoria dell’indignazione, del conflitto come essenza stessa della moltitudine.
A più riprese, però, parlate anche della necessità di una trasformazione dell’umano a venire (378), di creazione di una nuova umanità (118; 361), di costruzione di un nuovo mondo, abbandonando la propria identità (371). Ed è in questo modo che leggete il Foucault dell’«uomo che produce l’uomo»: «Per me, ciò che deve essere prodotto, non è l’uomo per come è creato dalla natura, o per come lo definisce la sua essenza; dobbiamo produrre qualcosa che ancora non esiste e che non sappiamo che cosa sia»: un concetto, dunque, che è profondamente estraneo alla tradizione del realismo e che certo non esce dalle pagine di Machiavelli o di Spinoza.
Si tratta allora, su questo punto, di andare ‘oltre’ questi autori? In che modo state ridefinendo la tradizione del realismo antropologico?

Siamo stati molto colpiti dalle letture fatte in America Latina, ad esempio di Viveiros de Castro, che è una grande figura di antropologo che viene dopo lo strutturalismo e Levi-Strauss. Il contesto biopolitico delle mutazioni antropologiche è qui completamente restaurato, fuori da determinanti parziali e con un’enorme insistenza sulla produttività del vivere comune. Dall’altra parte, abbiamo sempre sostenuto, su un terreno marxista, che la modificazione tecnico-politica della composizione epocale del capitale determinasse delle modificazioni che non toccavano solo la forma del lavoro, ma anche i soggetti del lavoro. Il passaggio dal contadino all’operaio non qualificato, e poi all’operaio qualificato e all’operaio massa, ecc.: tutto ciò si colloca anche sul piano antropologico. Questo è ancora più evidente oggi, nell’epoca della globalizzazione. Si tratta di una modificazione (probabilmente una vera e propria metamorfosi) che ancora non riusciamo a definire pienamente, ma che evidentemente attraversa questa nuova composizione del lavoro, quella moltitudine che lavora e le singolarità che la compongono.
Menzionavo prima quel rapporto di Daniel Cohen, che mi ha molto colpito: il nesso fra cognitivo e mobilità come caratteristica fondamentale del nuovo produrre; come approfondimento dell’intersecarsi del lavoro attraverso le reti informatiche, fino ad una intensità che configuri un originale “modo di produzione”. Quindi la figura di un nuovo soggetto lavoratore, attore dell’emergere della soggettività nel contesto produttivo. Una caratteristica profondamente diversa dalla figura di lavoratore tipica della generazione nostra e dei nostri padri. È questa rivoluzionaria modificazione antropologica che deve esser studiata. Ormai anche i linguaggi costituiscono bios, e ciò si mostra come evento ma anche come istituzione. Questo libro è un tentativo di ridefinire la materialità delle trasformazioni in atto. Di intendere il comune come qualcosa che viene inventato, che si istituzionalizza, che è materia e diventa altra materia.
Potremmo usare un’espressione alquanto obsoleta e dire che si ha qui un passaggio “dalla quantità alla qualità”, per indicare non solo l’intensità del salto a cui stiamo assistendo, la forza del costituente che diviene costituito, ma anche la durezza ontologica di questo evento, una nuova Wirklicheit. Quanto è importante evitare l’astrattezza di Badiou che costruisce un’enorme macchina per togliere consistenza ontologica all’evento! O strappare all’evento – descritto da Agamben – quel cattivo odore di cosa morta!

Negli anni ’60 si parlava di bisogni del lavoratore, negli anni ’70 di desideri del proletariato. Oggi proponete di passare dai bisogni e dai desideri all’‘amore’, come nucleo affettivo di un’ontologia dell’essere-in-comune.
In che modo questo processo dai bisogni ai desideri all’amore si può dire “storicamente” determinato?

Ciò che cerchiamo di fare (anche polemicamente) è di dare al concetto di amore una vena fortemente anti-religiosa, anti-idealistica e anti-psicanalitica. Ci poniamo dunque contro l’isolamento dell’amore dalla totalità ontologica. Per altro verso cerchiamo di vederlo in forma spinoziana, e cioè non semplicemente come completamento supremo della conoscenza, ma anche come forza che percorre il terreno che va dai bisogni ai desideri. L’amore si collega dunque per noi al desiderio, in tutte le sue forme, in tutta la sua potenza. Così si spiega che questa nuova qualità non sia da valutare nei termini della pulsione psicologica o della libido analitica, ma invece come forza di coesione e di costruzione del comune. L’amore è fuga dalla solitudine, dall’individualismo, non attraverso motivazioni religiose, idealistiche o psicanalitiche, ma attraverso dispositivi aperti e potenti. Da questo nostro punto di vista, il richiamo a Deleuze e Guattari è fondamentale – e non semplicemente il riferimento al queer (come una critica malevola ha già cominciato a dire)… Anche perché il queer si lega spesso a quegli aspetti che ci sforziamo di criticare.
Qui l’amore è… non lo chiamerei neanche più amore, ma “forza costituente” e collettiva. Tentativo di riportare il collettivo alle singolarità e di cogliere il modo in cui questo insieme di singolarità diventa capacità istituzionale, capacità di stare insieme, passando attraverso l’amore come costruzione materialista, come dispositivo – già si diceva – da “topos” a “telos”. Con gioia.

Questa dimensione insieme politica e ontologica dell’amore sta in tensione con la tradizione dell’«amicizia» politica che va da Aristotele a Derrida. L’amore sembra poter o voler fare a meno di ciò che invece è presente in quest’altra tradizione, cioè un concetto di nemico e di inimicizia.
L’amore come strumento di lotta politica non ha più bisogno di un ‘nemico’ all’orizzonte?

Certo. Non è semplicemente una versione levinasiana, del riconoscimento dell’Altro. C’è una dimensione materiale del comune. Amore e comune vanno insieme.
No, noi non abbiamo bisogno del nemico, anche se qui la correzione è che anche l’amore, essendo forza, può sviluppare produzione distruttiva: perché il nemico c’è.

Alla fine del capitolo “Beyond Capital?”, proponete una serie di «riforme» per «salvare il capitale» (310), riforme «infrastrutturali necessarie alla produzione biopolitica», sul piano della formazione e dell’educazione, della democratizzazione e dell’accesso alle tecnologie, del contrasto alla ‘privatizzazione’ delle idee, della proliferazione di strumenti di democrazia partecipativa e, soprattutto, dell’introduzione di un reddito minimo garantito.
L’idea stessa (soprattutto di alcune) di queste riforme può sembrare spiazzante o arretrata rispetto a una strategia rivoluzionaria più ampia che tutto il vostro discorso implica.
Qual è la strategia retorica che sta dietro a questa proposta, apparentemente spiazzante, di ‘salvare il capitale da se stesso’?

Tenete presente che questo libro è stato scritto prima di Obama, dentro il bushismo. Avevamo un bel dire che il “colpo di stato” sull’impero era fallito, che dall’unilateralismo americano si sarebbe passati presto a forme di organizzazione plurali della globalizzazione. A queste cose, che abbiamo scritto in anticipo rispetto all’apparizione di Obama sulla scena politica, si è poi aggiunta la crisi. Ora, è ben vero che quegli auspici da noi espressi possono apparire come posizioni arretrate: noi siamo tuttavia convinti che vi siano limiti distruttivi che è bene che il capitale non superi. C’è forse qui nel nostro discorso una piega sindacalista, fa parte del mio cattivo gusto di vecchio militante, e dall’altra parte del buon senso di Michael, uomo molto realista, talvolta allettato dalle mie aperture sindacali. La discussione è sempre molto ampia, fra noi, su questi punti. Non è che queste cose poi si scrivano con facilità. Insomma, smettendo di scherzare e ritornando a noi, resto convinto che nella rottura del processo capitalistico globale, nella rottura e nella biforcazione dei sistemi di potere e di governo, si tratti di giocarci dentro. Il problema è come gestire la crisi, la ‘rottura’ dello sviluppo capitalistico… Tutto questo ci porta a cercare una strada. È meno interessante che questi obiettivi siano agibili o meno; l’importante è indicare una strada marciando sulla quale la rivoluzione non è un’esplosione eventuale, che può essere definita solo a posteriori. La rivoluzione non è un ‘boom’, ma sempre una costruzione. Questo è il senso di quelle proposte, che possono sembrare – e per certi versi sono – arretrate. Non tanto, tuttavia, se si tiene conto del momento in cui questo libro è stato scritto, di fatto vediamo che lo stesso Obama non riesce ad andare dove aveva promesso – e non era certo la rivoluzione. L’importante è però ribadire che il processo rivoluzionario è sempre una costruzione, il prodotto del fare-multitudine.

Negli ultimi anni si è insistito molto sulla folle dicotomia e la separazione di economia reale da un lato e di speculazione finanziaria dall’altro. Il ché sembra corrispondere in larga misura alle due soggettività di cui parlate, la moltitudine come forza produttiva da un lato e il comando sterile e parassitario dall’altro. Tuttavia, nella vostra discussione delle crisi contemporanee, concludete la discussione con questa domanda spiazzante: «è possibile pensare il potere del denaro (e della finanza in generale) di rappresentare il dominio sociale della produzione nelle mani della moltitudine, come uno strumento di libertà, per superare la miseria e la povertà?» (295).
In che modo è possibile pensare il denaro al di fuori della sua funzione di comando e controllo della produzione e della moltitudine in quanto forza produttiva?

A monte di questo c’è un ragionamento di critica dell’economia politica che è andato avanti a lungo con studiosi come Marazzi, Vercellone ecc., ma in genere dentro tutta la “scuola della regolazione”. Il primo elemento da sottolineare è che la finanza è diventata ormai un elemento centrale nel processo produttivo. La distinzione tradizionale tra gestione monetaria da un lato e livello produttivo “reale” dall’altro è una distinzione ormai impossibile, non solo politicamente, ma soprattutto praticamente, da un punto di vista interno ai processi economici in generale. Oggi, il capitalismo si regge sulla rendita. Il grande industriale, piuttosto che reinvestire il profitto, punta sulla rendita. E il circuito, il sangue del capitale, si chiama oggi rendita e questa rendita copre una funzione essenziale nella circolazione del capitale e nel mantenimento del sistema capitalistico: nel mantenimento, intendo, della gerarchia sociale e dell’unità del comando di capitale.
Il denaro diventa anche l’unica misura della produzione sociale. Abbiamo così ormai una definizione ontologica del denaro come forma, sangue, circolazione interna nella quale si consolida il valore costruito socialmente e come misura dell’intero sistema economico. Ed è qui che si dà la totale subordinazione della società al capitale. La forza lavoro, quindi l’attività della società, è sussunta dentro questo denaro che è insieme misura e, al tempo stesso, controllo e comando. Lo stesso ceto politico è del tutto dentro questo processo e le forme della politica ballano su questa corda.
Se questa è la situazione diventa logico e fondamentale che la rottura – ogni rottura – avvenga all’interno di questo quadro. Dobbiamo – lo dico provocatoriamente ma non troppo – immaginare cosa possa significare oggi fare un soviet, cioè portare la lotta, la forza, la moltitudine, il comune dentro questa nuova realtà e le nuove totalitarie organizzazioni del denaro e della finanza. La moltitudine non è semplicemente sfruttata: essa è sfruttata socialmente, esattamente come l’operaio lo era una volta nella fabbrica. Mutatis mutandis si propone quindi a livello sociale (e nel denaro) la validità della lotta sul salario. Il capitale è sempre una relazione (fra chi comanda e chi lavora) ed è dentro questo rapporto che si stabilisce la sussunzione della forza lavoro nel denaro. Ma proprio se si tiene ferma la relazione di capitale, è la dentro che si determina la rottura.
La crisi attuale può essere interpretata a partire da questi presupposti. La crisi si dà come necessita di mantenere l’ordine moltiplicando la moneta (i subprimes e tutto il meccanismo spaventoso che ne è seguito, servivano a tener buoni i proletari, per pagare la riproduzione sociale dal punto di vista di un capitale e di un sistema bancario che dominava questo mondo). Quindi bisogna metter le mani su questa cosa per distruggerne le capacità di comando. Non ci può esser equivoco su questo punto. Sono molte le letture che sono state fatte di questa crisi, ma questa, in cui riprendiamo in larga misura le tesi di Marazzi, è preferibile: perché qui, contro ogni concezione che ne riporta le ragioni della crisi al distacco tra finanza e produzione reale, si insiste invece sul fatto che la finanziarizzazione non è una deviazione improduttiva e parassitaria di quote crescenti di plusvalore e di risparmio collettivo. Non è una deviazione, bensì la forma di accumulazione del capitale all’interno dei nuovi processi di produzione sociale e cognitiva del valore. La crisi finanziaria odierna va quindi interpretata come blocco dell’accumulazione di capitale (da parte proletaria) e come conseguente esito implosivo di mancata accumulazione di capitale.
Come si esce da una crisi di questo tipo? Solo attraverso una rivoluzione sociale. Oggi infatti ogni new deal proponibile può solo consistere nel costruire nuovi diritti di proprietà sociale dei beni comuni. Un diritto che con tutta evidenza si sta contrapponendo al diritto di proprietà privata. In altre parole, se fino a oggi l’accesso a un “bene comune” ha preso la forma del “debito privato”, da oggi in poi è legittimo rivendicare il medesimo diritto nella forma della “rendita sociale”. Fare riconoscere questi diritti comuni è l’unica e la giusta via per uscire dalla crisi. Un’ultima battuta, in proposito: vi sarà certo chi (Rancière, Zizek, e Badiou l’hanno già detto) ritiene queste “riforme” completamente inutili, anzi, dannose per i lavoratori – bene, perché non le proviamo? Perché non le proponiamo a Wall Street?

Una delle critiche classiche che sono state rivolte ai vostri precedenti lavori, Impero e Moltitudine, riguarda una apparente tensione tra l’ipotesi di un passaggio da una situazione di sussunzione formale a una di sussunzione reale, in cui niente più si crea all’esterno del capitale per essere in seguito assorbito, poiché tutto è dentro il capitale e non c’è «esterno» da un lato, e dall’altro il carattere appunto paradossalmente «esterno» (perché sterile e parassitario) del capitale stesso rispetto alla produzione biopolitica.
In Commonwealth parlate invece di una più complessa e articolata coesistenza dei meccanismi di sussunzione, di un «reciproco movimento in atto nel processo di globalizzazione, dalla sussunzione reale a quella formale, che non crea una nuova dimensione ‘esterna’ al capitale, ma significative divisioni e gerarchie entro la sfera capitalistica» (230). Non si tratta di un ritorno al passato, ma della coesistenza di diversi modelli entro la «geografia striata» del capitalismo contemporaneo, più in linea con lo stesso Marx, ad esempio, del sesto capitolo inedito del I libro del Capitale.
Questa «geografia striata» è una novità e una rilettura almeno parziale dell’ipotesi propria delle opere precedenti? In che modo i «confini», ad esempio, così come le migrazioni, la territorializzazione, la flessibilità e la mobilità del lavoro, specialmente migrante, giocano un ruolo sempre più importante nella vostra analisi?

Noi parliamo di sussunzione formale che oggi ‘riappare’, ma in realtà non è che riappaia, c’è sempre stata questa ambiguità di livelli diversi. È il mondo che è vario e diverso, la situazione cinese o quella boliviana… è fuori dubbio che questa striatura del mondo esiste!
Per quanto ci riguarda, l’estremizzazione del discorso su sussunzione formale e reale – nei toni in cui voi lo ricordavate – e il suo trasferimento immediato dentro al concetto di biopotere, è avvenuto negli anni ’90. Per quanto riguarda me ancora prima. Era in realtà una ipotesi di ricerca, una leva che si utilizzava per scardinare insiemi di pensiero che si erano consolidati e che mi sembravano fallaci. Nel contesto attuale, invece – una volta verificata in termini generali quella tendenza –, l’attenuazione di quell’estrema articolazione può permettere di approfondire l’analisi, soprattutto, con ogni evidenza, quando il problema diventa quello organizzativo, e quindi la capacità di adeguare l’analisi su terreni diversi deve essere capace di aderire a diverse realtà. Devo aggiungere che io ho sempre un po’ paura di queste cose, perché intanto non dimentico l’opportunismo che è sempre in agguato quando si parla di adeguare il pensiero, le tendenze alla diversità. Ci sono spesso quelli che ti dicono che devi stare attento alle zone di sussunzione formale… Ma poi, a partire da queste gentili preoccupazioni, rovesciano brutalmente la frittata. Guarda per esempio oggi quel fortissimo eurocentrismo che riappare nelle discussioni sull’ecologia, ad esempio, ci si trova spessissimo dinnanzi a atteggiamenti eurocentrici…
Bisogna dunque sempre stare attenti quando si dicono queste cose, perché poi da un terreno all’altro si passa con troppa facilità. Sul terreno dell’economia politica e del comando, il discorso sulla sussunzione formale e reale continua comunque a funzionare come chiave di volta. Dovrà certo essere riarticolato sia dal punto di vista di una strategia di costruzione di obiettivi politici, sia della pratica e della tattica, perché è chiaro che sussunzione formale e reale avranno sulle dinamiche della governance effetti molto diversi.
Quanto alle migrazioni ed al lavoro migrante, questi temi diventano sempre più centrali. La migrazione rappresenta una tendenza, e quando parliamo del lavoratore cognitivo e mobile, ci accorgiamo che la figura del migrante approssima effettivamente la nuova composizione del lavoro. Non è semplicemente un residuo, un rumore di fondo. È la vera natura del lavoro. E questo diventerà sempre più evidente. Dentro a questa modificazione ci sono molti problemi, ma c’è anche la possibilità di una felicità diversa.

A partire da questa ‘novità’ di Commonwealth, sembrerebbe sfumare anche la critica già avanzata negli anni precedenti di sottovalutare quantitativamente e qualitativamente le forme di lavoro materiale e operaio rispetto al nuovo lavoro cognitivo.
Tuttavia, anche in Commonwealth, sembrate a tratti sostenere una prevalenza del lavoro immateriale sulle forme più tradizionali di lavoro (e le forme connesse di sfruttamento).
In che modo per voi l’affermazione della produzione biopolitica è sinonimo di una priorità, seppure tendenziale, della produzione immateriale e cognitiva sulle altre forme di produzione?

Non so se siamo riusciti a spiegarlo, ma è fuori dubbio che quando oggi parliamo di lavoro cognitivo, ne parliamo nei termini che usavo all’inizio di questa intervista, cioè non semplicemente come elemento centrale egemonico ormai nella produzione di valore, ma anche come il consolidamento di tutti i vizi del lavoro materiale e di tutte le difficoltà di quelle antiche esperienze (alienazione, frammentazione, fatica, ecc.) che ormai si ritrovano anche nell’operaio cognitivo. Il lavoratore cognitivo non è un lavoratore privilegiato. Lo è sotto certi aspetti, perché non ha le mani o la tuta sporche, rispetto alla condizione dell’operaio dalle mani callose. Ma ciò non significa che lo sfruttamento sia oggi minore. È sempre maledettamente concreto, radicato nel bios, ed il corpo soffre fisicamente. Ciò significa che dobbiamo avere del lavoro un’immagine realistica e complessa, e che dunque la liberazione implica non solo la fatica ma tutti quegli aspetti che fanno male non solo al corpo ma anche alla mente. Aspetti fisici, mentali – ma soprattutto sociali.
Il tema del debito, ad esempio, il fatto che devi vivere sulla base del debito, di quella maledetta carta di credito. Già negli anni ’80, quando cominciai la ricerca sul lavoro precario, cominciai ad intravedere lo stesso tipo di problema. È stata la prima esperienza che ho avuto del lavoratore cognitivo. E già vi trovavamo tutte le condizioni della precarietà del lavoro e delle forme di vita: vivere al limite del proprio indebitamento, giocando sulla forbice tra conto bancario e conto finanziario, sulla presenza virtuale del denaro sul conto corrente… tutte queste facezie che però diventano spessissimo delle vere e proprie tragedie.
Quando abbiamo parlato di lavoro cognitivo, dunque, non l’abbiamo mai parlato come di un lavoro in cui non si soffre. Le critiche che abbiamo avuto erano e sono del tutto ingiuste. Ma il problema era un altro. Ci attaccavano e attaccano la nostra enfasi sul lavoro cognitivo perché molti compagni, nostalgici di vecchie immagini di forza operaia, non riconoscono alla forza lavoro cognitiva/immateriale la potenza della resistenza e della ribellione. Ma se non è la forza del lavoro cognitiva, se non siamo tutti noi – che soffriamo lo sfruttamento capitalista del sapere e della cooperazione sociale – a rivoltarci, si può ancora pensare che la classe operaia lo faccia da sola? Il privilegio del lavoro cognitivo consiste nel fatto che il mezzo di lavoro, l’intelligenza, non si possono consumare e sono immediatamente comuni. Riusciremo a trasformare questa comunità in una comune arma rivoluzionaria?

Ma per concludere lasciatemi insistere su altri due temi che, secondo me, sono centrali in Commonwealth, e che in questa intervista abbiamo finora trascurati.
Il primo è la polemica contro ogni politica dell’identità e – prima che della politica – di ogni metafisica o ideologia dell’identità, sia essa descritta come un presupposto organico e/o naturale, oppure come un prodotto fusionale e/o storico. Per noi – e in Commonwealth insistiamo nella critica -, le pulsioni identitarie costituiscono la peste del pensiero e delle pratiche politiche: dal nazionalismo al patriottismo, al razzismo, dall’integralismo al localismo ecologico, dall’individualismo proprietario al corporativismo sindacale – senza dimenticare il sessismo, oppure la religione della famiglia. Si, proprio quell’istituzione famigliare che religione, liberalismo, Stato… e Hegel, considerano la base della “società civile”. Ora a noi sembra che all’“estinzione della società civile”, sulla quale ci siamo tanto fermati in Empire e Multitude, si debba far seguire l’analisi dell’estinzione della famiglia, come base del sessismo naturalista e di ogni istituto giuridico privatista. L’intersezione cooperativa che riconosciamo nella forza lavoro cognitiva e la sua mobilità, contrasta con ogni identità che voglia rappresentarsi come soggetto. Ci abbiamo messo tanto tempo per riconoscere nella moltitudine un insieme di singolarità – ma anche ogni singolarità è una moltitudine.
Il secondo tema è quello della “povertà”. Se al capitale si impone la necessità della biforcazione, e cioè di riconoscere la rottura del processo dialettico che lo costituiva, allora capitale costante e commando si trovano da un lato, forza lavoro e capitale variabile dall’altro. Di qui la prima conseguenza della biforcazione: uno smisurato aumento della povertà. Come per il dolore, anche la povertà fa ormai parte della coercizione al lavoro. E’ un passaggio ineluttabile e terribile, questo, per chi analizzi la condizione attuale del proletariato – ma anche per il militante della causa del comunismo. Militare con i poveri, oggi, diventa fondamentale. Proletario, operaio, precario, tutti sono poveri. Ma, in inclusi come poveri dal biopotere, i poveri non solo degli esclusi: la povertà è sempre, nel mondo globale, nel mondo della produzione sociale, inclusione, ovvero inerenza, ad un rapporto di capitale che investe la società e la mette al lavoro. Nella relazione biopolitica, l’esistenza dei poveri si dà intera. Noi pensiamo che in questa condizione la rivolta dei poveri, e vere e proprie jacqueries, siano oggi eventi che stanno venendo, e che si presentano come scadenze inevitabili – al fine di costruire un terreno costituente, un’apertura politica per le forze per lottano contro il dominio capitalistico, cioè per la costruzione di un libero Commonwealth.

* Intervista realizzata nel dicembre 2009, prima della pubblicazione italiana di Commonwealth

 

 

 

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