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Un’insurrezione in movimento

 

di ANNA CURCIO

Intervista con Khaled Garbi Ben Ammar sulla Tunisia di ieri e di oggi

Khaled Garbi Ben Ammar è un militante tunisino in Italia da quindici anni. Vive a Verona dove è attivista sindacale e punto di riferimento per i tanti e le tante migranti della zona e, di recente, referente di chi raggiunge l’Europa attraverso il Mediterraneo. Il suo punto di vista sulla rivoluzione tunisina non é solo interno e militante: ha seguito a distanza l’evolvere degli eventi ma mantiene contatti continui con parenti e amici che la rivoluzione nelle strade del paese l’hanno fatta concretamente. È soprattutto il punto di vista di un militante che ha lasciato il paese per motivi politici nei primi anni Novanta e offre ricchi spunti per riflettere sulla Tunisia di ieri e di oggi, sulle analogie e i punti di continuità, sulle differenze importanti che hanno prodotto la svolta degli ultimi mesi: il ruolo determinante della comunicazione online e il contagio virale della protesta organizzata attraverso il web, ma anche per indagare i punti di blocco e le contraddizioni dell’attuale fase costituente.

Questa intervista offre un punto di vista critico e disincantato sulla Tunisia a venire, insistendo sulla necessità di costruire percorsi di elaborazione politica e organizzazione comune tra le forze soprattutto giovani della rivoluzione contro la restaurazione di un ancien regime gradito all’occidente, a cui stanno lavorando gli apparati burocratici di partiti e sindacati sopravvissuti allo stesso presidente Ben Ali.

 

Con Khaled abbiamo anche parlato della costruzione di uno spazio di interlocuzione e scambio tra le lotte in Europa: lotte contro la precarietà, i tagli, la finanziarizzazione della vita, e le lotte analoghe nella Tunisia rivoluzionaria, lotte di precari, studenti e giovani lavoratori e lavoratrici esasperati da povertà, debito e mancanza di diritti. Ma soprattutto abbiamo discusso i nodi delle forme di organizzazione contemporanee: come coniugare pratiche transnazionali ed esercizio della forza, mobilità del lavoro vivo e rivoluzione. Ecco la questione che sta alla base dell’iniziativa organizzata in Tunisia, a partire dal 13 maggio, da militanti tunisini e dal Knowledge Liberation Front, rete europea delle lotte universitarie, insieme a vari gruppi anti-razzisti che si battono contro il regime di controllo dei confini. Non una carovana di solidarietà, ma un progetto di condivisione di esperienze di conflitto e di costruzione di un terreno di organizzazione comune. Perché la vera “carovana”, come Khaled ci dice, è quella che i migranti quotidianamente fanno verso l’Europa, portando sui propri corpi esperienze di lotta e irriducibili pratiche di libertà.

 

Oggi, a tre mesi dalla caduta di Ben Ali, in che direzione sta andando il processo rivoluzionario in Tunisia e che prospettive si delineano per la Tunisia di domani?

Quando è cominciata la rivoluzione io sono stato molto contento. Era un sogno che finalmente si avverava. Ma dopo la rivolta il morale è calato: sono nati cinquanta partiti politici in due mesi, tutti litigano con tutti per un posto in parlamento. Ho sentito nomi di persone che non hanno nessuna storia politica nel paese che si candideranno alle elezioni per l’assemblea costituente di luglio. Oggi molti cavalcano la rivolta per avere un posto in parlamento.

I sindacati che hanno a lungo rappresentato il luogo più significativo per costruire il cambiamento, dalla fine degli anni Ottanta sono diventati filogovernativi, ma adesso dichiarano di essere dalla parte della rivolta. Solo un mese prima dello scoppio insurrezionale il presidente del UGTT aveva apertamente appoggiato Ben Ali per le presidenziali del 2014. In tanti tra burocrati sindacali e dei partiti dell’opposizione si sono svegliati quando il potere di Ben Ali cominciava a traballare e adesso vogliono governare per essere stati all’opposizione, ma quello era un governo senza opposizione. E poi ci sono tanti compagni che sono scappati negli anni Ottanta e Novanta, che adesso vivono in Inghilterra, in Francia, in America e stanno ritornando per costituire un partito, dicono di avere le carte in regola per governare perché sono stati costretti trent’anni fa a lasciare il paese. Ma io non sono d’accordo. Io credo che debbano governare i giovani che hanno fatto la rivolta, che hanno realizzato il cambiamento di regime nel paese, perché sono loro che vivono la condizione di precarietà, non chi sta all’estero.

 

Chi sono questi giovani?

Soprattutto tanti operai, lavoratori precari e studenti che sono i più precari di tutti. In Tunisia se non hai conoscenze non riesci a prendere la borsa di studio e se sei laureato ma non hai le conoscenze giuste non potrai mai insegnare. Ci sono tanti studenti o giovani laureati che si ritrovano a fare gli operai nelle fabbriche per duecento dinari al mese, che sono quattrocento euro. E tanti lavoratori senza contratto per centosessanta dinari al mese e fanno lavori molto dequalificati. È questa composizione che si è sollevata in massa attraverso i piccoli sindacati che per una vita sono stati soffocati dalla repressione di Ben Ali.

 

Come si sono organizzati nel post-insurrezione?

 

Oggi ci sono tanti gruppi e comitati nati proprio nei giorni della rivoluzione, ma nessuno di questi si è costituito in partito. Insomma gli unici a non parlare di partiti per le elezioni sono proprio quelli che hanno realmente fatto la rivoluzione. Sanno bene che per fare un partito ed essere eletto su tutto il territorio nazionale e quindi devi essere conosciuto e riconosciuto, devi avere cultura, devi saper raggiungere il popolo e convincerlo, non puoi improvvisare un partito. Dunque io non credo che il passaggio, in luglio, delle elezioni per la costituente possa essere un passaggio decisivo, che possa realmente incarnare la domanda di cambiamento espressa dalla rivoluzione. Al momento gli unici partiti presenti sono quelli che erano all’opposizione con Ben Ali, ma sono una cosa completamente diversa da chi ha fatto la rivoluzione e soprattutto non rispecchiano la domanda di cambiamento. Non c’é insomma un partito che veramente incarna la rivoluzione.

 

Dunque non c’è nell’immediato la possibilità concreta di quel cambiamento radicale espresso con la rivolta?

L’unica soluzione che io vedo è che i compagni, ma non i vecchi partiti o le burocrazie sindacali, si siedano intorno ad un tavolo e cerchino di organizzarsi per offrire un’alternativa concreta al paese. Stiamo lavorando su questa possibilità ma a oggi il cambiamento è ancora lontano. Conosco un giovane compagno tunisino che lavora in Italia da alcuni anni, aveva lasciato la Tunisia perché non avendo potuto prendere la borsa di studio lavorava in fabbrica per duecento dinari al mese per pagare l’università, ma non era vita; in Italia ha trovato un lavoro e ha ripreso gli studi. Quando è scoppiata la rivoluzione è tornato in Tunisia perché aveva sentito che ci sarebbero stati posti di lavoro per tutti, ma non era così e oggi è di nuovo qui. In Tunisia resta una miseria assoluta e nessuno si sta preoccupando di affrontare le pesanti condizioni di lavoro e la questione della precarietà. Per tutti il problema resta la corsa alla presidenza. Adesso a comandare sono gli ex di Ben Ali. Beji Caid Essebsi, l’attuale primo ministro, è pesantemente compromesso con il vecchio sistema, lo hanno scelto perché esponente della generazione della rivolta contro la Francia, ma tutti quelli che hanno combattuto la guerra di liberazione sono stati massacrati nel 1969 quando chiedevano le dimissioni di Bourguiba. E a quei tempi Beji Caid Essebsi era ministro dell’interno.

Oggi nelle strade ci sono più poliziotti che manifestanti come negli anni Ottanta. Io temo che si ritorni ai vecchi tempi. Beji Caid Essebsi lo ha detto chiaramente nel suo ultimo discorso in televisione: chi non accetta le condizioni del governo provvisorio sarà bastonato. È per questo che tanti giovani esasperati scappano attraverso il Mediterraneo.

 

Cioè, oggi si parte dalla Tunisia perché non c’è possibilità di cambiamento?

Sì. La rivoluzione l’hanno fatta proprio quegli stessi giovani che arrivano in Italia in questi giorni. In tanti hanno creduto che le cose potessero realmente cambiare, che si sarebbero potuto costruire un discorso politico diverso e migliori opportunità di vita. Ma poi in questa fase di transizione ci si è dimenticati di chi ha fatto materialmente la rivolta e della domanda di cambiamento. I giovani sono scesi di nuovo in piazza ma la risposta del governo è stata quella di sempre: bastonate. Non è un caso che l’onda migratoria sia partita quando la polizia e i militari hanno cominciato a bastonare i manifestanti ad Al Mitlawi. I lavoratori del settore dei fosfati, nel sud del paese, avevano organizzato dei presidi in piazza per protestare contro le condizioni di lavoro e per il mancato cambiamento, ma la polizia ha caricato per impedire le manifestazioni. A quel punto, diversamente da quanto accadeva in passato, in tanti hanno deciso di partire. Una volta chi lottava per il cambiamento non aveva via d’uscita alle bastonate della polizia, era molto difficile lasciare il paese, oggi è diverso, c’è la possibilità di andare in Europa a vivere una nuova vita. Sali sulla prima nave che parte e te ne vai.

 

È così facile, “sali sulla prima nave e vai”?

 

I ragazzi mi hanno raccontato che spesso si raggruppano quaranta/cinquanta persone di una stessa zona, raccolgono i soldi, comprano una barca e partono. La mattina successiva sono qui. E chi arriva ha sempre il numero di telefono di qualche parente o conoscente ma senza documenti e senza soldi raggiungere parenti e amici in Italia e più spesso in Francia o Germania, richiede anche molto tempo. Non c’è la possibilità di mandare aiuti economici e si devono arrangiare. Uno dei miei compaesani ha impiegato tre giorni per arrivare da Taranto a Verona. Allora … non è facile partire, è faticoso e molto rischioso, ma la gente parte perché nonostante la rivoluzione le cose non sono cambiate e oggi diversamente dal passato partire è diventato possibile.

 

Anche in passato ci sono state analoghe domande di trasformazione…

 

La rivoluzione tunisina non è nata quest’anno. Già nel 1978 gli studenti universitari avevano capito che era arrivato il momento di lottare per il cambiamento del paese. Io avevo dieci anni, ma a quei tempi in Tunisia a dieci anni non eri piccolo. Noi bambini andavamo in libreria per incontrare i compagni più grandi, molti di loro erano professori, che ci spiegavano la situazione del paese: la grande ricchezza di Bourguiba e della sua famiglia e le grandi difficoltà dei lavoratori, anche di chi, come mio padre che faceva il carabiniere, aveva un buono stipendio. Lo sciopero generale del gennaio 1978 e le diverse centinaia di morti che lo accompagnarono erano stati anticipati proprio da questi discorsi. Alla repressione militare nelle strade seguì una vera e propria guerra morale contro i comunisti: non devoti ad Allah, di facili costumi e dai comportamenti immorali. Da lì in avanti essere comunista o semplicemente fare un discorso politico divenne reato, mentre il governo sponsorizzava il fronte fondamentalista che si opponeva a ogni discorso di cambiamento. Lo scontro si radicalizzò in modo particolare nelle università e nel 1982 nella università della Manouba gli islamici massacrarono trentacinque studenti e distrussero anni di lavoro politico.

Nel 1982 l’offensiva governativa si rivolse direttamente verso le organizzazioni politiche e sindacali degli studenti. In Tunisia esisteva un sindacato che raccoglieva studenti universitari e delle scuole superiori, retto da un congresso che ogni quattro anni eleggeva i suoi rappresentanti. Una struttura organizzativa importante che manteneva stretti rapporti con le organizzazioni sindacali dei lavoratori e che andava dunque indebolita per proseguire nel lavoro di depoliticizzazione delle università avviato alla fine degli anni Settanta; un passaggio imprescindibile della svolta antisocialista del governo di Bourguiba. Il sindacato degli studenti fu spaccato in due tronconi e nelle università, dopo gli attacchi islamici del 1981, non si mosse quasi più nulla. Saranno invece gli studenti delle scuole superiori, nel 1984, a costruire un ponte con le lotte dei lavoratori e a preparare le grandi manifestazioni di quell’anno.

 

La cosiddetta rivolta del pane è dunque una rivolta di studenti?

 

È una rivolta di giovani studenti e lavoratori. Gli studenti hanno costruito un rapporto solido con i lavoratori. Spesso sono coetanei, soprattutto nelle piccole città dove in tanti già a sedici anni lavorano in fabbrica. Ogni giorno per alcuni anni si sono incontrati nei caffè, hanno discusso la situazione del paese, i diritti dei lavoratori, la pratica sindacale mentre, nelle aziende soprattutto tedesche e italiane, crescevano gli scioperi. C’era poi tutta una generazione di insegnanti che aveva studiato e si era politicizzata negli anni Settanta che condivideva quelle discussioni con studenti e operai. Le manifestazioni spontanee del gennaio 1984 contro l’impennata del prezzo del pane (un aumento del 180%) ma anche di zucchero, olio e altri beni primari che hanno pesantemente peggiorato le condizioni di vita, sono dunque anticipate da tutto un lavoro politico nelle fabbriche, nelle scuole, nelle città e nei villaggi, un lavoro politico per il cambiamento, i cui principali artefici erano proprio gli studenti delle scuole superiori, i loro insegnati e la classe operai tunisina.

Prima di Facebook era molto difficile organizzare e coordinare il lavoro politico. Ogni volta per fare una manifestazione andavamo a piedi da una città all’altra, per quaranta, cinquanta chilometri. I soldi non erano mai abbastanza, dunque o si facevano le fotocopie dei volantini o si prendeva l’autobus. In genere partivamo a mezzanotte con lo zaino in spalla per arrivare al mattino davanti quella scuola di Sfax o di Hencha per il volantinaggio. E gli scioperi, coordinati, partivano nelle scuole in cui riuscivamo ad arrivare. La zona di Sfax dove sono cresciuto era una zona calda. È la zona industriale del paese ed ha una lunga storia sindacale. Da qui sono partite anche le rivolte contro la Francia. In genere quando parte l’agitazione nelle capitali del sud, da Sfax fino a Sidi Bou Zid, Al Miknassi scendendo fino alla zona di Gafsa poi le mobilitazioni arrivano anche a nord. Anche quest’anno é stato così.

 

Le proteste del 1984 avevano alle spalle un lavoro politico capillare…

Esattamente e noi non abbiamo lottato per il pane ma per il cambiamento. È in questo equivoco, nel parlare di rivolta del pane, che è stato possibile annientare le proteste diffuse di quell’anno. Innanzitutto, se l’aumento dei prezzi era stata la causa scatenante di una protesta di massa, le ragioni dello scontento covavano già da qualche tempo nelle famiglie costantemente impoverite. Ma soprattutto dopo la feroce repressione e gli oltre cento morti in tutto il paese, Bourguiba è stato costretto ad annullare l’aumento dei prezzi perché le manifestazioni non si sono fermate. Abbiamo continuato a lottare anche quando i fedeli di Bourguiba sono scesi in piazza per festeggiare l’annullamento degli aumenti. Noi volevamo indietro i corpi dei nostri compagni uccisi che ancora oggi non sono stati restituiti. La repressione era stata violentissima, in un piccolo paese come quello in cui vivevo ci sono stati tre morti che abbiamo visto cadere uno dopo l’altro davanti ai nostri occhi.

 

Cos’è successo precisamente?

 

Avevamo organizzato, nonostante le spie e i controlli della polizia, una manifestazione di circa settecento persone tra studenti e operai delle fabbriche. C’eravamo incontrati per quattro notti consecutive in gran segreto e la polizia non si aspettava quella manifestazione. Colta alla sprovvista, la polizia ha cominciato a sparare appena ci siamo radunati. Il primo a cadere è stato un giovane operaio, Fauzi, aveva ventiquattro anni colpito da due pallottole e morto mentre lo portavamo in ospedale.Quando si è diffusa la notizia di un ragazzo morto tutto il paese si è riversato in strada. Quello che in Italia si chiamerebbe prefetto ha perso la testa e ha cominciato a sparare dalla finestra del suo ufficio. Una raffica di pallottole ha colpito e ucciso un bambino di sette anni, Jamal, arrivato da poco in città con la madre tedesca e il padre che aveva lavorato molti anni in Germania. Nel frattempo i carabinieri che erano saliti sul tetto di un palazzetto hanno fatto il terzo morto, Ali, un ragazzo fortissimo, anche lui morto prima di arrivare in ospedale.C’è stata una battaglia durissima per le strade del paese. Ci sono stati anche quattordici feriti. Noi abbiamo resistito come potevamo con le gomme e la benzina ma a mezzanotte tutto il paese era militarizzato. E sono partiti gli arresti. Ci siamo ritrovati in quarantacinque nella cella di sicurezza della questura di Sfax. Dopo qualche giorno c’è stato il processo è siamo stati tutti condannati. Io ero minorenne e sono uscito sotto la tutela di mio padre.

 

È così che si è concluso il 1984 tunisino?

 

In parte sì. Nell’immediato non è stato più possibile riorganizzare le lotte. Con i compagni più attivi in galera non si poteva fare più niente, né c’era modo che l’indignazione per i morti e per gli arresti circolasse. Quest’anno è stato diverso perché con Facebook è stato possibile mantenere i contatti tra le persone. Ciononostante

il lavoro politico non si è fermato. È ripartito pian piano e negli anni successivi, ancora una volta, gli studenti insieme ai giovani operai sono stati gli unici a opporsi al colpo di stato silenzioso di Ben Ali. Si è trattato del risultato di anni di lavoro politico nelle scuole e nelle fabbriche. Di volantinaggi e di assemblee contro il governo di Bourguiba che sono servite a costruire rapporti molto solidi tra studenti e operai. E nel 1987 quando Ben Ali che non aveva nessuna storia politica nel paese – era stato a lungo uno dei generali presso l’ambasciata tunisina in Polonia ed era rientrato in Tunisia nel 1986 come responsabile dei carabinieri per poi diventare con l’appoggio delle potenze occidentali, compresa l’Italia, ministro dell’interno – ha destituito Bourguiba abbiamo organizzato un blocco totale di fabbriche, università e scuole, con manifestazioni e presidi da tutte le parti.

 

Nel 1987 il colpo di stato non vi ha colto alla sprovvista…

Se il colpo di stato è stata una sorpresa, noi abbiamo fatto la contro-sorpresa e abbiamo messo il paese nel caos. Lo sciopero è partito dalla città di Jabinyanah, una città molto conosciuta per le lotte di operai e studenti, che anche nella rivolta di quest’anno ha avuto un ruolo importante. Io ero a Sfax dove avevamo organizzato uno sciopero e mentre raggiungevo Jabinyanah mi hanno arrestato. Mi hanno dato un colpo in testa con il calcio della pistola, sono svenuto e sono stato portato non so dove. Qualcuno mi ha visto mentre svenuto mi caricavano in macchina e si è diffusa la voce che ero morto. È montata una grande protesta. Io ero nella solita cella di sicurezza di Sfax e fuori si sentiva un gran casino. Stavano arrestando gli studenti che protestavano davanti alla questura. Ho chiesto a uno degli studenti arrestati cosa stesse succedendo e mi ha risposto: “Hanno ucciso Khaled Garbi”. Tra gli studenti arrestati c’era anche mia sorella che quando mi ha visto stava per svenire.

Nonostante gli arresti, la protesta cresceva e stava degenerando. La gente non era andata a lavorare per sapere cosa mi fosse successo. Noi siamo come una tribù e chi non protestava era nei caffè ad aspettare la notizia. Era diventato ormai un problema di ordine pubblico, così è arrivata la decisione dal ministero dell’interno di farmi uscire ma al confino a Beja – vicino al confine con l’Algeria – per tre anni. Lì sono rimasto un anno e otto mesi e ho smesso di fare politica perché la polizia faceva irruzione in casa in ogni momento. Ho poi cambiato cognome, ho preso un passaporto e il primo aereo per la Germania. Era il 1990 e non sono più tornato in Tunisia se non per brevi periodi.

Come me tanti dei militanti di quegli anni sono scappati. Quelli che sono rimati sono stati arresati, hanno passato otto/dieci anni in carcere senza neanche essere processati e quando sono usciti erano ormai persone diverse.

 

Possiamo allora leggere una continuità, un filo rosso che unisce la rivolta di quest’anno agli anni Ottanta in Tunisia…

C’è sicuramente un protagonismo giovanile e studentesco che è rimasto intatto tra ieri e oggi. Anche se i media non ne hanno mai parlato, ogni anno in Tunisia ci sono state piccole e grandi rivolte, e la repressione si è sempre accanita su lavoratori e studenti. Io sono rimasto in Tunisia fino all’inizio degli anni Novanta, il resto lo so perche me lo hanno raccontato i compagni che sono rimasti lì, ma posso dire che i quindici anni tra il 1989/90 e il 2005/6 sono un periodo oscuro. Non si sa molto. Solo chi è passato per la repressione di Ben Ali lo sa. La propaganda di regime è sempre riuscita a far passare sotto silenzio le lotte, gli arresti, le uccisioni nelle carceri. Ci sono tanti compagni che sono spariti, di cui non si è più saputo nulla, che sono uscita da casa un giorno e non sono mai più tornati. Questa é stata la Tunisia di Ben Ali: controllo strettissimo sull’informazione e soprattutto sulla popolazione. Si è arrivati al punto in cui c’erano più poliziotti che civili, bastava il minimo sentore che una persona potesse pensare di organizzare qualche iniziativa politica contro il regime, una manifestazione o uno sciopero, perché sparisse per sempre. Per strada si vedevano solo divise. Tutti lavoravano quanto più potevano per pagare i debiti contratti con le banche per il mutuo della casa, o per la macchina. In alcune famiglie marito e moglie si incontravano solo la domenica, uno lavorava di notte l’altra di giorno. Si lavorava e si tornava a casa, senza interrogarsi sulle condizioni di vita. La Tunisia è stata a lungo considerata un paradiso. La retorica di regime diceva che si viveva bene, che non c’era precarietà, che tutti avevano la casa, la macchina ma le cose stavano in un altro modo. Soprattutto a sud dove, fuori dalla facciata turistica nella parte nord del paese, ci sono intere città e villaggi in cui non c’è l’acqua corrente e le famiglie sono così povere che ci sono bambini che non hanno mai messo un paio di scarpe.

Le cose sono cominciate un po’ a cambiare tra il 2005 e il 2006. Con la diffusione di internet è cambiato il modo in cui le persone comunicano, restano in contatto, si raccontano le cose e così sono circolate tante storie, informazioni sulle reali condizioni di vita e sulla repressione, e si è rotto quel muro di silenzio che il regime aveva accuratamente costruito.Il silenzio é stato spaccato per la prima volta nel 2008 quando una serie di rivolte a Gafsa si sono diffuse anche in altre città del sud. Ma nel 2010 ciò che ha fatto la differenza è stato internet. Attraverso Facebook è stato possibile vedere la vera faccia del paese e da lì costruire contanti tra le persone e soprattutto coordinare e organizzare le lotte. Dunque c’è stata senz’altro continuità ma quest’anno si è anche prodotto un grosso scarto in avanti. Questa rivolta è venuta dopo anni che non si poteva neanche scendere in piazza e che l’attività politica era possibile soltanto se clandestina, se organizzata dentro le case. C’erano un po’ di quadri operai che facevano lavoro sindacale nelle fabbriche ma spesso venivano buttati fuori dalla fabbrica e dal sindacato. L’unica occasione per scendere in piazza erano le manifestazioni per la Palestina e l’Iraq, che non sono mai state negate perché parte di un problema storico del mondo arabo. Quest’anno invece le cose sono andate in modo decisamente diverso. È per questo che oggi la situazione in Tunisia è così difficile. In tanti, anche tra le potenze occidentali, vorrebbero arrestare la spinta al cambiamento venuta con la rivoluzione. È in gioco una partita importantissima per il futuro del paese.

 

 

 

 

 

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