Il comune della riproduzione: intervista a Silvia Federici
di ANNA CURCIO e CRISTINA MORINI
Abbiamo incontrato recentemente Silvia Federici nella casa di sua sorella a Parma, mentre era di passaggio in Italia. Una buona occasione per affrontare con lei il tema della riproduzione sociale dentro il paradigma produttivo odierno, ovvero il tema del comune “da un punto di vista femminista”. Ci hanno ispirato, in particolare, i suo ultimi lavori sul comune (in “The Commoner” e all’interno del Team Colors Collective,) benché tutta la sua riflessione nel corso di questi anni, abbia sempre posto l’accento sull’espropriazione del lavoro comune delle donne (non retribuito) all’interno di economie fondate sul lavoro salariato maschile.
Quello che soprattutto ci interessa (e ci interesserà ancora, anche altrove) sottolineare è l’attualità estrema di questa problematica niente affatto “rituale” nel momento in cui la riproduzione sociale e la cooperazione tra gli esseri umani hanno assunto un ruolo tutto “nuovo”, ovvero esplicitamente, direttamente produttivo e generatore di valore. In particolare, è necessario inquadrare il concetto di riproduzione all’interno dei processi di precarizzazione delle vite connessi alle dinamiche di controllo del biopotere e alla crisi finanziaria globale. Inoltre, essa si presta a diventare un elemento paradigmatico, utile a indagare a fondo anche i meccanismi di costruzione del genere. Prima confinata tra le mura domestiche per favorire strategie orientate nel senso della creazione di una gerarchia tra donne e uomini e ora progressivamente mutuata da quegli ambiti e convertita dallo schema produttivista del biocapitalismo, che sembra voler prescindere da alcune storiche separazioni.
Per la verità l’intervista non entra mai direttamente nel merito delle trasformazioni connesse al nuovo paradigma produttivo. I processi di declassamento e impoverimento dei ceti medi occidentali scompaiono dietro il richiamo a esperienze di paesi “terzi”. E la problematicità del lavoro non retribuito rimane appannaggio del solo lavoro riproduttivo senza soffermarsi, più complessivamente, sulla quota crescente di lavoro affettivo, relazionale e comunicativo messa gratuitamente in produzione dalle nuove figure del lavoro vivo: dal ricercatore universitario alla badante. Ciononostante le riflessioni di Federici offrono spunti molto stimolanti. La riproduzione é la roccia su cui si fonda il comune. È questo il filo conduttore della riflessione, ovvero la centralità della riproduzione come terreno dello sfruttamento e insieme spazio di lotta e trasformazione. Il tema del commoning, i nuovi spazi che si aprono dentro la crisi di Stato e famiglia e l’esigenza di nuova istituzionalità, costituiscono gli spunti di riflessione più efficaci e convincenti. Il nostro tentativo è quello di allargare il dibattito su questi argomenti, anche nella diversità d’impostazione e di visione del mondo. La ricerca continua…
Vorremmo avviare con te una riflessione sul lavoro riproduttivo a partire dalla considerazione generale che le sue specificità e declinazioni odierne ne fanno un campo di lotta, a nostro avviso, straordinario. Crediamo che esso vada compreso nelle sue problematicità ma anche nelle sue nuove potenzialità. Ci piacerebbe capire grazie a te, che hai sempre percorso e analizzato questo tema nei tuoi libri, nei tuoi scritti, se condividi che il lavoro riproduttivo abbia subìto una ristrutturazione e in che modi allora, a partire dalla sua trasformazione, esso può rappresentare un inedito motore di conflitto.
A partire dalla metà degli anni ’80 si è avuta una macroscopica ristrutturazione del lavoro riproduttivo a livello globale. È stata anche una risposta al movimento femminista, che ha espresso il rifiuto del lavoro domestico da parte di molte donne, con un loro ingresso massiccio nell’area del lavoro salariato. Fa eccezione l’Europa dell’Est, dove lo smantellamento del comunismo ha provocato invece un aumento della disoccupazione femminile, a malapena compensata dai processi migratori di cui le donne sono state protagoniste in questi anni.
L’aspetto più importante di questa ristrutturazione per quanto riguarda l’Europa occidentale e gli Usa è stata la riorganizzazione del lavoro domestico su base salariata, sia attraverso lo sviluppo del settore dei servizi sia attraverso la redistribuzione di notevoli quote di lavoro di riproduzione che è stato accollato alle donne migranti. Spesso si tende a esagerare le dimensioni di questo fenomeno, e a perdere di vista il fatto che tuttora la quota principale di lavoro riproduttivo erogata a livello mondiale resta comunque lavoro non pagato erogato da membri della famiglia, per lo più donne e bambine o bambini. Ma senz’altro si è venuta a creare una situazione per cui (con le parole di Maria Mies) “la divisione sessuale del lavoro sempre più coincide con la divisione internazionale del lavoro”.
Una conseguenza di questa trasformazione è stata l’etnicizzazione del lavoro riproduttivo (negli Usa si parla di racialization), dato che una larga parte delle lavoratrici domestiche a pagamento e impiegate nel settore dei servizi sono donne “di colore.” Il che significa che non solo sul terreno del lavoro riproduttivo si sono sviluppate nuove divisioni tra le donne, che ricalcano il rapporto uomo-donna, ma che è impossibile condurre una lotta sul terreno del lavoro domestico solo dal punto di vista di “genere.” Oggi la lotta sul terreno del lavoro riproduttivo, oltre a essere lotta contro la svalutazione del lavoro femminile, è lotta contro le politiche dell’immigrazione, è lotta contro il razzismo e il peso del retaggio coloniale sull’organizzazione di questo lavoro.
Uno degli aspetti più significativi del lavoro riproduttivo come terreno di lotta è che oggi sono le lavoratrici domestiche, per lo più le donne migranti, che guidano le lotte per cambiare le condizioni di questo lavoro. In particolare negli Stati Uniti i movimenti delle lavoratrici domestiche che si sono sviluppati a livello internazionale, portano avanti una lotta su questo terreno che una volta era il terreno del movimento femminista e che il movimento femminista (almeno negli Stati Uniti) ha abbandonato già dalla fine degli anni ‘70.Queste lotte hanno portato non solo al crescente riconoscimento del lavoro riproduttivo da parte della legislazioni nazionali e delle organizzazioni internazionali (recentemente, per esempio, l’ILO (International Labour Organization) ha riconosciuto il “lavoro domestico” tra le varie categorie di “lavoro”) ma hanno prodotto nuove forme di cooperazione che chiamerei social commons. Mi riferisco alla creazione di comunità transnazionali e di strutture di quartiere capaci di funzionare come controparte nei confronti dei datori di lavoro, in grado così di rompere l’isolamento che lo caratterizza e di creare le basi per nuove forme di collective bargaining (contrattazione collettiva). La Domestic Workers United, la maggiore organizzazione di lavoratrici domestiche e careworkers dell’area di New York si sta proprio impegnando in questo senso.
Questi movimenti stanno creando un nuovo tipo di contrattazione e di scontro con lo stato che è particolarmente importante in un contesto in cui si assiste a un crescente disinvestimento dello stato nella riproduzione della forza lavoro attraverso politiche di tagli progressivi al welfare state. Con ciò non si contrasta solo la svalutazione del lavoro di riproduzione, ma si apro un nuovo terreno che, potenzialmente, può portare a una ricomposizione tra donne. Mi riferisco alla possibilità di trasformare il rapporto padrona-serva che si instaura tra le donne con la commercializzazione del lavoro domestico in un rapporto di comune negoziazione con lo stato, per la rivendicazione delle risorse necessarie (denaro, spazi, servizi) alla riproduzione. È possibile passare dalla lotta tra datrici di lavoro e lavoratrici domestiche a un’alleanza per reclamare fondi e servizi dallo stato? Questo è uno dei progetti su cui ci si deve impegnare e che peraltro sta già guadagnando spazi. Si può fare l’esempio delle lotte delle infermiere negli ospedali, che spesso le vedono non in conflitto ma in cooperazione con gli ammalati per un’assistenza migliore.
Hai citato le politiche di austerity, collegate alla crisi e i tagli progressivi al welfare state avviate negli Usa come in Europa. L’impressione è che la finanziarizzazione delle nostre vite, che si traduce in forme di privatizzazione e di inserimento forzoso delle esistenze nella logica della sussidiarietà e delle compatibilità, renda obbligatorio per i movimenti uno sforzo programmatico ulteriore. Ci riferiamo a forme di collegamento e di contaminazione e alla costruzione sul piano transnazionale di un terreno comune di lotta che interessa le donne come gli uomini.
Senz’altro! Una lotta sul lavoro riproduttivo non può darsi senza una mobilitazione contro la politica del debito, contro gli aggiustamenti strutturali e contro i processi di ricolonizazzione oggi in atto. È evidente inoltre che ciò si collega da vicino alle necessità di generare mobilitazioni contro le politiche di controllo delle migrazioni in modo da permettere la liberta di movimento, l’abbattimento dei confini e il ricongiungimento delle famiglie migranti.
Un’altra specificità è rappresentata dal fatto che la lotta sul terreno del lavoro riproduttivo oggi riguarda effettivamente la finanzializzazione della riproduzione, a livello mondiale, con l’espandersi dell’uso delle carte di credito, dei prestiti da parte degli studenti, dei mutui, e della politica del microcredito. Questi fenomeni hanno segni diversi. La politica del micro-credito è un’iniziativa che viene dall’alto, dalle banche, a cominciare dalla Banca Mondiale, per recuperare tutto un mondo di pratiche che le donne hanno messo in piedi, in ogni parte del mondo, in risposta all’aggiustamento strutturale, al decurtamento delle spesa pubblica, alla perdita del lavoro salariato – tutti elementi che prima garantivano una certa autonomia ai soggetti, rispetto al mercato. È una politica che cerca di ricondurre le attività di sussistenza e le forme di cooperazione messe in piedi dalle donne alla gabbia dei rapporti monetari, in modo da poterle sfruttare solo attraverso il meccanismo del debito.
A livello generale, alla finanziarizzazione della riproduzione è corrisposta anche (e continua a esserci), da parte nostra, una risposta istintiva, spontanea, legata alla sopravvivenza. Essa ha a che vedere con una forma di rifiuto ad accettare l’imposizione della miseria. Usare la carta di credito è un modo, per milioni di persone, di far fronte alla disoccupazione, al taglio della spesa sociale, all’aumento degli affitti. Questa è una realtà già in essere. Essa ci parla della necessità di ragionare anche del diritto al debito. Molte persone hanno contratto debiti per reggere l’attacco dei mercati finanziari che si traduceva in impoverimento delle loro vite. Questo è il fatto a cui bisogna guardare.
E in tutto questo, alla luce dell’impoverimento collegato alle imposizioni dei mercati finanziari, ovvero alla precarietà e alla crisi della famiglia eterosessuale come vedi, in questo momento, il rapporto uomo-donna? Come si esprime, come si è trasformato?
Come può tradursi tutto questo, come possono calarsi questi fatti nel rapporto uomo-donna, nella dinamica sessista riprodotta dalla famiglia e dallo stato? La cosa più difficile da valutare in questa fase è proprio la specificità del rapporto uomo-donna. La fuga di molte donne dal lavoro domestico non pagato, l’allargarsi delle quote di lavoro riproduttivo pagate (anche se malamente…), e la precarizzazione del salario maschile hanno inciso, stanno incidendo, stanno cambiando questo rapporto. C’è stata una crescita dell’autonomia delle donne, ma la maggiore parte del lavoro non pagato di riproduzione è ancora svolto dalle donne. L’impiego di lavoratrici domestiche molto spesso sopperisce allo scarso coinvolgimento da parte degli uomini rispetto a questo lavoro. Tuttavia è anche chiaro che lo stipendio del maschio non basta più a reggere la coppia e questo genera per forza un cambio di equilibrio tra i suoi componenti. C’è stato anche un aumento della violenza maschile contro le donne, in risposta all’incremento della loro autonomia, alla riduzione dei servizi prestati, e alla crisi del salario maschile che non permette di comperare, da solo, gli stessi servizi. Si è avuta poi, in concomitanza con l’espandersi della guerra e degli eserciti, un rilancio del modello di mascolinità, caratterizzato dall’aggressività, la sopraffazione. Tutto questo complica molto il quadro.
Parallelamente, almeno in Italia, un modello di welfare fortemente familistico, continua ad avere come perno il lavoro gratuito delle donne, mentre le misure di austerity reclamate come necessarie nella congiuntura di crisi, impongono pesanti tagli che vanno a colpire proprio il supporto alle famiglie e dunque il lavoro di riproduzione ancora largamente all’interno delle famiglie e a carico delle donne. Sono le donne, detto altrimenti, che pagano il costo più alto alla crisi.
Come possiamo, in questa situazione, immaginare forme di riappropriazione sociale che, oltre il pubblico (lo stato) e il privato (la famiglia), sappiano costruire forme di cooperazione sociale e produzione del comune capaci di andare oltre le dinamiche identitarie e i richiami alla tradizione?
Le pratiche di auto-riduzione – affitti, bollette, tasse scolastiche – possono essere un inizio. Chiaramente richiedono tessuti sociali abbastanza coesi e consapevoli. Occorre perciò un lavoro di politicizzazione e di costruzione di motivazioni, spiegazioni, obiettivi per cambiare nell’immaginario collettivo il significato di queste spese e della nostra impossibilità a reggerle. Stabilire per esempio che la casa è un luogo di lavoro, non un privilegio personale, è molto importante. Ma sono convinta che non si possa dare un’alternativa a stato e famiglia senza una riappropriazione dell’agricoltura, della produzione di cibo, senza una lotta contro la distruzione del territorio, delle campagne (su modello di quella che si ha oggi in Piemonte contro la Tav). Una lotta per le zone verdi, per le spiagge libere, per i gabinetti non a pagamento, per i centri sociali per gli anziani e bambini finanziati dallo stato ma gestiti dal basso, oltre che una battaglia per una politica diversa della casa. Quest’ultima non deve andare solo nel senso di combattere per il diritto alla casa, ma nel senso di pensare una casa diversa, che non sia una prigione per le donne e i bambini. Tutti questi obiettivi richiedono un grosso lavoro organizzativo, e sopratutto una visione politico-sociale condivisa, capace di mobilitare i vari movimenti. Si può cominciare a premere sulle autorità locali che, essendo senza fondi, adesso tendono tutte a rincorrere l’investitore privato. Il quale poi, se arriva, nel nome dello sviluppo distrugge il territorio con tangenziali e centri commerciali, spostandosi altrove appena si presenta l’occasione di una speculazione ancora più conveniente. Io credo che le lotte di cui parlo non siano impossibili. Credo anche che, per modesti che possano sembrare alcuni obiettivi, sollevino questioni fondamentali e che perciò offrano buone possibilità di aggregazione.
In tuo recente articolo apparso su “The Commoner” asserisci con convinzione, citando Marie Mies e Veronica Bennholdt-Thomsen (The Subsistence Perspective: Beyond the Globalized Economy, London: Zed Books, 1999): “Le donne sono trattate come beni comuni e i beni comuni sono trattati come le donne”. Qual è il nesso specifico tra donne e comune?
Nella misura in cui, storicamente, nella società capitalistica le donne hanno avuto un rapporto labile con il lavoro salariato e sono state coinvolte più direttamente degli uomini nel lavoro di riproduzione, hanno anche avuto un maggiore interesse alla difesa dei beni naturali, e alla creazione di forme di cooperazione tra loro. Oggi le donne, dall’Africa all’America Latina, sono le maggiori protagoniste delle lotte per la difesa dei beni comuni, sia intesi come commons che come beni pubblici. Per esempio in Bolivia, le donne sono state al centro della guerra contro la privatizzazione dell’acqua nel 2000. In Africa tuttora le donne rappresentano il 70 per cento dell’agricoltura di sussistenza. In America Latina negli anni ’80, di fronte a un impoverimento enorme che le costringeva a comperare un uovo alla volta o il latte un bicchiere alla volta, hanno creato forme collettive di riproduzione, per esempio hanno cominciato a fare la spesa in comune, hanno dato vita ai comedores populares che hanno ridotto il costo del cibo. Anche negli Usa, le donne hanno un ruolo centrale nel movimento contro la privatizzazione e il furto dell’acqua, per esempio nel Maine da parte di Nestle. Cito poi ancora le forme di risparmio collettivo, non mediato dalle banche, le tontines, tanto significative che hanno motivato la politica del micro-credito. Sono le donne, non per ragioni biologiche ma per ragioni radicate nell’organizzazione della riproduzione, che oggi stanno comunizzando il lavoro riproduttivo, sia per ridurre il costo della riproduzione, sia per avere più forza nei confronti dello stato, delle autorità locali, degli uomini. Non c’è comune se non c’è prima cooperazione. Per questo noi parliamo sempre di commoning. Bisogna partire dal verbo non dalla cosa. È la cooperazione che precede un bene o la riappropriazione di un bene. E ogni processo di riappropriazione avviene solo se c’è un grosso livello di lotta e cooperazione a monte.
Le lotte sul terreno della riproduzione sono in questo senso un esempio efficacissimo. Tuttavia, a fronte di un grande patrimonio di lotte e cooperazione delle donne sul terreno della riproduzione, costruito storicamente e in misura crescente dentro la crisi economica globale, il tema della riproduzione continua ad avere poca attenzione nel dibattito sui commons. Io credo invece che proprio oggi che il comune é divenuto centrale alla valorizzazione capitalistica, si dovrebbe riservare maggiore attenzione al tema della riproduzione. Si è dato molto spazio alle nuove forme di comune, la conoscenza, la rete come bene comune ma non la riproduzione. Eppure le lotte sul terreno della riproduzione sono la “roccia” del comune proprio perché il lavoro riproduttivo è la roccia su cui è costruita la società e su cui ogni modello di organizzazione sociale viene testato. Detto altrimenti le donne sono state storicamente “un comune degli uomini”, ovvero una fonte naturale di ricchezza e servizi che poteva essere liberamente utilizzata e appropriata dagli uomini, nello stesso modo in cui i capitalisti si sono appropriati della ricchezza della natura.
Allora la riluttanza a estendere il discorso del comune alla riproduzione sembra fare il paio con l’accettazione, sopratutto da parte maschile, del lavoro domestico come “attività naturale”.
Dicevi che il lavoro riproduttivo “è la roccia su cui è costruita la società”. In che senso questo aspetto può aiutarci a definire una politica che getti le condizioni in cui il principio del comune diventa fondamento di un programma di radicale trasformazione sociale?
Il lavoro riproduttivo è “la roccia” in due sensi. Anzitutto, è il fondamento di ogni società: esso èun aspetto centrale dell’accumulazione capitalistica in quanto riproduce la forza lavoro, senza la quale il capitalismo non potrebbe operare. Negli anni ’70 le femministe dicevano che non c’è mai stato uno sciopero generale, perché le donne hanno sempre continuato a lavorare in ambito domestico. Infatti quando nel 1975 in Islanda, nella capitale, le donne hanno fatto un giorno di sciopero, la città si è completamente fermata. Intaccare i meccanismi che permettono lo sfruttamento del lavoro riproduttivo (per tenere basso il costo del lavoro, per naturalizzare grosse aree di sfruttamento) ha un forte potenziale trasformativo.
Ma rispetto alla domanda la cosa più importante è che il principio del comune applicato alla riproduzione vuol dire autonomia nei confronti del mercato, riduzione dei costi della riproduzione, fine dell’isolamento in cui il lavoro riproduttivo si è fin qui dato, tenendo conto che la privatizzazione della produzione è stato uno dei principali fattori di “scomposizion” della politica. La riproduzione è il primo terreno su cui affrontare il problema della riappropriazione dei mezzi di sussistenza, casa, spazi, terreni, strumenti per la produzione della conoscenza…
Oggi c’è una grossa sperimentazione in questo campo, non tutta ovviamente di marca antagonista, o non ancora almeno. Però cominciano a proliferare, oltre agli squats, le banche del tempo, gli orti urbani. A New York e in California gruppi di compagni e compagne stanno anche mettendo in piedi strutture di “accountability” cioè reti comunitarie che permettano di non ricorrere alla polizia in casi di abusi, quando per esempio una donna viene picchiata da un uomo. Anche il fenomeno dell’occupazione delle piazze che abbiamo visto da piazza Tahir al Cairo alle acampadas spagnole indica il bisogno/desiderio di una socialità diversa. É un modo diverso di fare politica, più incisivo, perché non solo si occupa il territorio ma si impara a gestire insieme momenti di riproduzione, come la spazzatura, le provvista di cibo e acqua, la collocazione delle tende.
La questione è come collegare tra loro queste realtà e fare sì che siano generalizzabili, che non rimangano isole, ma diventino zone liberate capaci di dare maggiore autonomia ai soggetti nei confronti dello stato e del mercato del lavoro e anche di creare maggiore cooperazione e un superamento delle divisioni su base di genere, età, etnicità.
In che modo le donne si sono impegnate a rendere collettiva la riproduzione come strumento/terreno di resistenza alla povertà e alla violenza maschile e dello Stato?
La maggior parte degli esempi in questo senso vengono dal “sud”, ma molte pratiche si stanno diffondendo anche in Europa e negli Stati Uniti. Ho già parlato dei comedores populares in varie parti dell’America Latina e delle tontines in alcuni paesi asiatici così come nelle comunità immigrate degli Stati Uniti. Si può poi aggiungere che le donne sono le principali protagoniste della lotta contro la deforestazione e per la riforestazione. Vorrei inoltre citare il centro messo in piedi a La Paz in Bolivia da Mujeres Creando, un organizzazione femminista autonoma che si è formata negli anni ’80. Il centro, che una compagna ha definito “una macchina riproduttrice”, comprende un asilo nido, una struttura di supporto legale per le donne vittime di abusi e violenze, una radio a gestione mista con trasmissioni di cronaca politica e culturale, una “scuola” per l’alfabetizzazione radiofonica e un ristorante. Il centro pubblica anche un giornale, ha costruito un archivio di materiali, promuove la diffusione di libri e ricerche come la sponsorizzazione di un rapporto sulla politica del micro-credito in Bolivia e la lotta delle donne contro il debito. Il centro è un piccolo villaggio attraverso cui ogni giorno passano decine di donne, e in cui la produzione materiale va di pari passo con la produzione delle conoscenze, degli affetti, dei rapporti sociali, inseparabilmente. Va aggiunto che Mujeres Creando fa anche un grossa opera di demistificazione culturale e politica (per esempio nei confronti della politica indigenista del governo considerata ipocrita e patriarcale) e ha una grossa presenza nel territorio.
C’è da notare comunque che oggi non solo sono le donne a cercare di costruire nuove forme di riproduzione collettiva/comune. A New York come già ho accennato ci sono collettivi misti e alcuni formati soprattutto da uomini che lavorano in questo senso. Uno di questi è il collettivo Regeneracion che organizza un servizio di child care per genitori gay, o di colore, o carcerati, ovvero per quanti faticano a utilizzare le strutture – carenti come sono, e discriminanti – che si occupano della cura dei bambini.
Ci sembra di capire che la cooperazione tra le donne o più in generale sul terreno della riproduzione può condurre alla costruzione di una nuova realtà o quantomeno può costituire un antidoto alle forme del controllo con le quali ci confrontiamo. Ciò – scrivi – genera “forme di identità collettiva, costituisce un contro-potere in casa e nella comunità, e apre un processo di auto-valorizzazione e di autodeterminazione, da cui possiamo imparare molte cose”. Sostieni inoltre che ciò costituisce la prima linea di resistenza ad una vita di schiavitù, “condizione per la costruzione di spazi autonomi dall’interno del ruolo che il capitalismo pretende di avere sulle nostre vite”. Eppure ci sono esempi che ci fanno pensare, al contrario, che le donne finiscano – dentro il ricatto della precarietà, tra le sirene degli immaginari che fanno di loro “un bacino strategico” per il capitale. Finiscano, insomma, per dimenticare, oggi, questa memoria, “cambiando di specie”. D’altro lato, anche noi scommettiamo su una sorta di “eccedenza” delle donne rispetto alle forme del controllo odierno del capitale, ma le contraddizioni, le tensioni, le trasformazioni sono tante e complesse. Cosa puoi dirci al riguardo?
Certo le contraddizioni sono tante e non si può generalizzare soprattutto in questa fase di frammentazione dei rapporti produttivi/sociali.
È vero che nel Nord in particolare le illusioni sono tante, specialmente tra le donne delle nuove generazioni. Però questi spazi si stanno restringendo sempre di più. Mi ha colpito vedere in Italia ragazze giovani che guardano al matrimonio come a una soluzione, chiaramente valutando che le alternative sono scarse. Mi hanno colpito anche i casi non rari di donne che uccidono i loro bambini, o genitori che li dimenticano in macchina, casi una volta impensabili che rivelano il livello di stress e disperazione in cui molte donne e molte famiglie si trovano oggi. D’altra parte anche le stesse che oggi pensano di poter ignorare la questione della riproduzione perché, dicono, sono lesbiche, o hanno deciso di non fare figli, di non sposarsi o convivere con un uomo, sono costrette ad accorgersi, nello spazio di pochi anni, che il lavoro domestico prima o poi le aspetta dietro all’angolo, quando i genitori invecchiano, le amiche si ammalano, e sempre più le strutture di assistenza sono carenti o evanescenti.
Riguardo all’ “eccedenza” delle donne rispetto alle forme del controllo odierno del capitale, voglio citare la mobilitazione delle madri giapponesi (vedi su questo anche un recente articolo del Wall Street Journal) contro la politica del governo dopo i fatti di Fukushima e il loro rifiuto del discorso cinico e opportunista che richiamava la popolazione al patriottismo per convincerli a mangiare i prodotti dell’area contaminata, e rifiutava il monitoraggio della radioattività, oltre che l’evacuazione dalla zone colpite. Questo non vuole dire che si debba ricorrere al biologismo per spiegare perché le donne/le madri, per esempio, sono spesso le prime, nei momenti di pericolo più forte, a resistere, a opporsi, anche a politiche statali violentissime. Vedi il caso delle Madri della Plaza de Mayo, che in un momento in cui l’argentina viveva nel terrore e ogni opposizione sembrava impossibile, si sono organizza e sono uscite allo scoperto anche se non avevano alcuna preparazione politica, ma solo mettendo in comune la loro disperazione. Non occorre ricorrere al biologismo, che non ha senso. Esiste invece una maggiore responsabilizzazione nei confronti della riproduzione che ha radici storiche, ma tuttora molto radicate nella realtà del lavoro domestico. È la responsabilizzazione per cui – a livello internazionale – si è notato in questi anni che le donne immigrate sono quelle che, anno dopo anno, mandano a casa le rimesse, mentre per esempio molti uomini dopo qualche anno si allontano, dimenticano, si fanno un’altra famiglia.
Ma la cosa forse più importante da notare – a proposito dell’“eccedenza” delle donne rispetto al controllo dello stato – è che il lavoro di riproduzione ha un duplice carattere, nel senso che include una preparazione per il mercato del lavoro, rispondente quindi a norme, criteri imposti dall’esterno, ma è anche valorizzazione, resistenza, produzione di valori e logiche alternative. Ovviamente la linea divisoria non è sempre netta. Spesso solo sul lungo periodo si vede quali pratiche hanno avuto una potenzialità anti-capitalistica. Non è da trascurare che il capitalismo si nutre della nostra creatività. Questo duplice aspetto del lavoro riproduttivo è importante, non solo perché aiuta a superare i sensi di colpa nei confronti del rifiuto di certi aspetti del lavoro domestico, ma anche perché dimostra che esiste un terreno, percorso da rapporti antagonistici, per niente “naturale.”
Ritorniamo al comune. Notavamo che il tema del comune e dei beni comuni è oggi ampiamente abusato anche nelle retoriche governative (di beni comuni parlano pure Tremonti e l’Economist – che tu citi in quell’articolo). Il problema diventa quello di marcare la distanza tra il nostro discorso e le costruzioni ideologiche neoliberali a cui non è estranea anche una certa declinazione contemporanea del “femminismo” – “la politica delle donne”. Che cosa ne pensi?
Stato e capitale (per esempio la Banca Mondiale) abusano il concetto di comune per varie ragioni. Si cerca di ricuperarlo, nel timore che un programma neoliberista portato alle estreme conseguenza, come la monetarizzazione di tutti i rapporti lavorativi e sociali sia contro-produttivo. Gli odierni seguaci di Polanyi amano dire che anche l’economia di mercato si fonda su rapporti di fiducia e di gift economies (con cui intendono il lavoro non pagato). Riconoscono anche che non sempre la privatizzazione è il modo più efficace di gestire i beni comuni e la gestione comunitaria non sempre è in contraddizione con l’economia di mercato. Per esempio, esistono tra gli agricoltori, forme di gestione comunitaria dell’irrigazione. La discriminante sta in una domanda ulteriore, ovvero se il comune può darci maggior potere di rifiutare lo sfruttamento, il lavoro salariato, se può produrre una ricomposizione politica di classe, nuove forme di cooperazione sociale capaci di costruire un alternative al capitalismo.
C’e poi il discorso dei global commons varati dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale che vengono usati direttamente, esplicitamente, come strumento di privatizzazione. L’appropriazione del tema dei beni comuni da parte della Banca Mondiale è dovuta alla resistenza che essa ha incontrato nel tentativo di privatizzare le terre comunali, sopratutto in Africa. Per ovviare a questo problema ha sostenuto la creazione di comuni fittizi, cioè di gruppi comunitari composti da elite politiche e economiche che hanno la facoltà di alienare le terre a compagnie estere, nell’ambito di joint ventures.
Alla luce di questo è chiaro che il tema del common è un terreno minato. Bisogna avere chiare delle discriminati che vengono fuori man mano che le cose si costruiscono. Allora: common cosa vuol dire? Dentro quali condizioni? Quali sono i requisisti necessari? Per esempio la cooperazione, che rapporto si dà questo commoning nei confronti del capitale? Aumenta o diminuisce le possibilità di autonomia? È autonomia reale o no? Queste sono cose che si definiscono politicamente e che non puoi definire una volta per tutte ma devi vederle nei contesti specifici.
Per tutto questo è importante, sopra ogni cosa, distinguere il comune dal pubblico, che è ancora una forma di privatizzazione, stabilita dallo stato o da istituzioni varie a vario titolo. E c’è da mettere in campo un discorso sulle nuove istituzioni. Ad esempio in Bolivia, dopo le lotte sull’acqua, avevano cominciato a pensare alla creazione di momenti costituenti e di istituzioni popolari che governassero l’acqua. E questo discorso non è completamente sparito, anche se Morales ha fatto da freno. Analogamente credo che questa sia una delle questioni che il movimento in difesa dei beni comuni in Italia, a cominciare dall’acqua, sta già affrontando.
Si tende, come tu stessa dici, a un processo di privatizzazione della riproduzione, un processo che finisce per “distruggere la nostra vita”. La crisi economica/finanziaria amplifica questa tendenza che deve, viceversa, essere invertita. Tu scrivi che “il momento attuale è propizio per tale progetto”. In che senso e in che modi?
Sì, il momento è propizio perché la crisi rompe gli schemi e le strutture consolidate sul terreno della riproduzione. Per questo mi interessa, per esempio, l’esperienza delle tendopoli che si sono formate negli Usa dopo il crollo dei mutui, che ha fatto perdere la casa a milioni di persone (si parla di tre, quattro milioni di persone, e l’esproprio non è ancora finito…). Non voglio proporre la tendopoli come modello del comune, ma imparare da quest’esperienza, voglio capire come oggi la gente si riorganizza di fronte allo sconvolgimento dei propri ritmi quotidiani.
Le strutture riproduttive della maggior parte delle famiglie proletarie stanno già subendo una tensione intollerabile. Negli Usa ci sono famiglie che si incontrano solo al sabato per il breakfast, perché durante la settimana tutti i membri lavorano sempre e con orari diversi, perché c’è chi lavora di giorno, chi fa i turni di notte, tenendo conto che ormai occorre avere anche più di un solo lavoro. Ci sono i ragazzini che vanno a fare le iniezioni ai nonni malati durante gli intervalli della scuola, perché in casa non c’è più nessuno durante il giorno e non ci sono i soldi per un’infermiera. Ci sono donne (ma anche uomini) che devono abbandonare il posto di lavoro perché i loro genitori si ammalano e hanno bisogno di assistenza continua e nessuna struttura li aiuta. Quindi la necessità di collettivizzare la riproduzione è sempre più urgente, e corrisponde anche a un desiderio, un bisogno di nuova socialità. Mancano gli asili nido? Allora perché non portare i bambini a scuola, o in altri posti di lavoro, come si faceva all’inizio del movimento femminista? Perché non organizzarsi sui posti di lavoro, riguardo la riproduzione? Io credo che il problema della riproduzione vada portato in ogni spazio lavorativo e sociale.
È un momento propizio anche perché la crisi finanziaria e le sue ripercussioni sul lavoro hanno creato dei terreni comuni. Come ho detto, prima tra altri c’è la questione del debito, un terreno che oggi accomuna studenti, sfrattati, indebitati con le carte di credito. Inoltre la crisi ha completamente screditato la classe politica. In questo momento quindi può essere più facile mettere tutto in discussione, introdurre pratiche che ieri suscitavano indifferenza e oggi invece riscuotono un maggiore interesse.
A proposito degli spazi che si aprono con la crisi, ho fatto spesso accenno alle pratiche degli hobo men, negli Usa degli anni ‘30, durante la Grande Depressione, i quali hanno comunizzato le ferrovia, saltando sui treni e viaggiando gratis da un capo all’altro del paese, creando hobo jungles, accampamenti agli incroci ferroviari, con le loro regole, in cui fermarsi, rifocillarsi, socializzare, prima di riprendere il viaggio. Oggi ci sono le comunità migranti transnazionali, che permettono a migliaia di giovani di spostarsi di paese in paese, abolendo in pratica i confini, sia pure con grandi problemi correlati.
Il femminismo italiano degli anni settanta scelse di parlare di lavoro domestico sia perché era un destino “comune” delle donne, sia perché aveva un valore, un’importanza per la produzione. In questo contesto, promuoveva anche un modello di donna che fosse prodotto autonomamente da soggetti femminili e pertanto che rispondesse a quelle che erano le autentiche esigenze delle donne. Oggi il discorso è cambiato: nella modificazione del paradigma economico è cambiato anche il mondo del lavoro. Oggi per molte (tutte) le donne lavorare è una necessità. E se da un lato lavorare consente di essere inserite nella vita pubblica, dall’altro il lavoro è precario e questo implica molte insidie. E molte difficoltà a seguire quelli che sono davvero i desideri, i veri (verosimili) desideri delle donne (per esempio sul tema della maternità…).
Tu che cosa ne pensi di questa trasformazione, dei nuovi sforzi di analisi e di resistenza che implica? C’è una continuità possibile di discorso, o le modificazioni e i cambiamenti generazionali portano con sé rotture e novità?
Penso che esista una continuità, pur tenendo conto dei cambiamenti che sono intervenuti nel rapporto donne-lavoro, con tutte le sue contraddizioni e pur nella situazione delle nuove generazioni. La continuità si fonda sul fatto che i grossi problemi riguardanti il lavoro riproduttivo non sono stati risolti. Oggi il lavoro riproduttivo non viene erogato solo nell’ambito della casa, ma in molte articolazioni della fabbrica sociale, Tuttavia, il lavoro di riproduzione, sopratutto il lavoro domestico, continua a essere svalutato, continua a essere in gran parte lavoro non pagato, lavoro non considerato come facente parte dell’ economia, e questo significa per la gran parte delle donne un doppio carico di lavoro, con una settimana lavorativa che in molti casi arriva alle 70 ore settimanali. Va aggiunto che l’assenza di un movimento femminista, come quello che, con tutti i suoi limiti, esisteva negli anni ’70, ha voluto dire che le nuove generazioni di donne affrontano molti dei loro problemi in un mode individuale, spoliticizzato. Mentre i rapporti “personali” – rapporti con gli uomini, sessualità, maternità – erano oggetto di intense discussioni e sperimentazione collettive, oggi molte giovani si trovano a affrontarli in modo individuale, e nella fluidità e precarietà generale dei rapporti di lavoro diventa difficile decidere quali scelte fare. Che cosa ci si può o ci si deve aspettare dai rapporti amorosi con uomini e/o donne? Ha senso cercare rapporti a lunga durata? Come conciliare lavoro e famiglia? A che cosa dare priorità? Come vivere e costruire la propria autonomia, economica, emotiva, intellettuale? Quale scala di valori, quali logiche occorre adottare, come conciliare nella pratica il bisogno di solidarietà e cooperazione nella riproduzione con il bisogno di autonomia? Questi non sono problemi insolubili. Ma mi sembra che ci sia oggi molta più confusione e disorientamento rispetto alle risposte da cercare, proprio a causa dei cambiamenti che hanno a che fare con il rapporto con il lavoro. Da un lato le donne di oggi hanno più potere di quanto ne avessero quelle della mia generazione negli anni ’70, ma allo stesso tempo non hanno un movimento politico con cui affrontare i vari problemi. Mi sembra, a questo proposito, che oggi una richiesta di femminismo, almeno negli Usa, venga proprio dalle ragazze più giovani, che avendo partecipato a vari movimenti (no global, movimento studentesco…) hanno verificato i limiti di un punto di vista politico universalizzante. Questo dopo anni in cui si è ripetuto che il femminismo è morto, o irrecuperabile e che la categoria “donne” analiticamente non significava più nulla.
C’é tuttavia un grosso lavoro di critica da fare perché è assolutamente vero che in tanti si sono appropriati del femminismo all’ingrosso, a livello istituzionale – per esempio le Nazioni Unite e la Banca Mondiale, che ne hanno fatto uno strumento di per giustificare politiche di liberalizzazione economica – con la conseguenza che i sui aspetti più rivoluzionari sono stati obliterati.
L’ultima domanda rappresenta per noi una ricerca, che non pensiamo di poter sciogliere con pochi passaggi: come si pone il rapporto classe e genere oggi che la femminilizzazione del lavoro e il tema del post-genere si stanno facendo strada e che la precarietà rende più difficile e complessa l’individuazione della classe?
“Classe” è un concetto politico, definito in base a rapporti antagonisti e al riconoscimento/costruzione di un interesse e progetto comune. La precarizzazione del lavoro non ha scalzato questo rapporto, caso mai lo ha allargato. D’altra parte, il movimento femminista, almeno quella parte del movimento a cui ho partecipato, ha sempre rifiutato un concetto di classe ridotto al proletariato di fabbrica. Abbiamo sempre detto che la classe andava al di là della fabbrica, nel “sociale”, che per esempio le mogli degli operai e dei minatori erano parte della classe operaia, nel senso molto specifico che la loro vita era comandata dalla fabbrica, dagli stessi orari e ritmi dalle sue condizioni di lavoro. Anche alle mogli dei minatori, per esempio, venivano una serie di malattie ai polmoni dovendo lavare le tute che i mariti indossavano. Quanto al rapporto genere e classe il punto di partenza sta nel vedere che la differenza di genere struttura ancora l’organizzazione del lavoro, pagato o meno, a livello globale. Non c’e dubbio che a livello mondiale sono le donne che svolgono la maggior parte del lavoro di riproduzione e del lavoro non pagato. Dire donna vuol dire un tipo di lavoro, un tipo di salario, un tipo di abusi (tipo sexual harassment sul lavoro), vuol dire un trattamento diverso in prigione (ampiamente documentato), un particolare rapporto con lo stato sul terreno della procreazione (dall’ aborto, al controllo delle nascite, alla sterilizzazione, alle nuove leggi riguardanti la gravidanza), strettamente connesso al controllo statale sul mercato del lavoro, sulla formazione della forza lavoro, che si traduce in controllo sul corpo delle donne e la loro vita sessuale e capacità riproduttiva.
Quindi se è vero che il progetto politico è quello di costruire un mondo più androgino – al di là delle differenze di genere intese in senso esclusivo/binario – è altrettanto vero che accantonare il genere come uno strumento inservibile a livello analitico e organizzativo rischia di rendere di nuovo invisibili tutta un area di sfruttamento e di lotte che i movimenti femministi sono riusciti a portare allo scoperto.
Se guardiamo in ogni caso alle trasformazioni che sono avvenute nell’organizzazione del lavoro nel corso degli ultimi quarant’anni vediamo che mentre centinaia di migliaia di donne, hanno assunto sul lavoro molti (non tutti però) comportamenti maschili, allo stesso tempo molte altre, nei paesi dell’Est o in Africa, perdevano i loro posti di lavoro che avevano nel pubblico impiego, nelle industrie, negli uffici e si trasformavano in lavoratrici domestiche, badanti, lavoratrici del sesso, nella prostituzione o nella pornografia. Ciò conferma che la divisione sessuale del lavoro permane. Io credo che le differenze di genere, o più precisamente le gerarchie di genere continueranno a strutturare l’organizzazione del lavoro fino a che la riproduzione della vita degli individui verrà subordinata alla produzione per il mercato, all’accumulazione, finché il lavoro di riproduzione continuerà essere strumentale alla produzione di forza lavoro. Quindi si deve stare attente a dichiarare che il “patriarcato è finito” e che la divisione sessuale del lavoro – con tutto ciò che comporta – non esiste più. Si dovrebbe poi fare un discorso sui bambini e le bambine, come lavoratori e lavoratrici, in ogni settore, inclusa la riproduzione. Questa è stata un’altra carenza dei movimenti: non aver riconosciuto l’importanza dei bambini/e come produttori e soggetti politici.