Il tempo dei forconi. Per un aggiornamento materialista
di GIORGIO MARTINICO
Giorni di proteste, soprattutto in Sicilia, ci hanno posto la necessità di ragionare e indagare una serie di nodi politici dirimenti al tempo della crisi globale; eccone proposti alcuni.
Abbiamo imparato a conoscerli sotto le sigle di Forconi e di Forza d’urto; sono stati definiti fascisti, mafiosi, leghisti, politicanti, demagoghi, populisti, corporativi e, soprattutto, padroncini. Hanno tenuto in scacco la circolazione delle merci in Sicilia per cinque giorni – e ora tentano lo sbarco continentale; provocato 500 milioni di euro di danni “all’economia dell’isola”; organizzato decine di presidi permanenti; scatenato le più svariate reazioni. Sono ufficialmente agricoltori, piccoli imprenditori terrieri, braccianti, autotrasportatori dipendenti e autonomi, camionisti, pescatori e piccoli artigiani: una trasversalità tale di figure del lavoro da indurre qualcuno ad agitare la bandiera del pericoloso interclassismo di stampo populista ad uso e consumo di soggetti sociali storicamente considerati reazionari.
Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza su una situazione che, a detta di tutti gli opinionisti più o meno casuali, è segnata da ambiguità e ambivalenze, contraddizioni e complessità, partiamo però dal dato, di incontestabile valore a mio avviso, che è quello relativo all’enorme grado/richiesta di partecipazione a cui queste proteste hanno saputo dare immediato sbocco: centinaia di migliaia di siciliani hanno preso parte ai momenti e attraversato gli spazi di questa lotta.
Questo dato, che preso singolarmente può voler dire poco, ci aiuterà a dare sostanza, gambe e fiato, alla nostra ipotesi su cui questo lavoro si andrà costruendo: l’ipotesi secondo cui, attraverso un minuzioso lavoro di decostruzione e analisi, si possa arrivare ad affermare il carattere marcatamente popolare e di massa di quella che i protagonisti si sono affrettati a definire una rivolta.
Il nostro baricentro di lavoro e inchiesta sarà, quindi, la composizione sociale dei presidi che hanno dato vita ai blocchi, in particolare riferimento a quelli costruiti a Palermo tra porto e ingressi autostradali.
Se, infatti, in termini di critica politica, queste proteste potrebbero facilmente condurci a ragionare su un numero elevato di spunti e nodi – dalla “questione meridionale” alle retoriche sottosviluppiste riproposte in salsa più sfacciatamente razzista, dai comportamenti del mainstream a quelli della politica istituzionale, dalle scelte alle prospettive di questo movimento, e via a parlarne all’infinito – ciò che qui mi interessa discutere è la facilità con cui certa sinistra ha bollato queste come le rivolte dei padroncini, dei privilegiati, e quindi, per l’appunto, il nodo della composizione di questa lotta.
Ai presidi – ci dicono – più della metà degli autotrasportatori presenti sono lavoratori autonomi, titolari di ditte più o meno piccole, e che buona parte degli agricoltori, i forconi veri e propri, sono coltivatori diretti, quindi anche braccianti della terra, o al massimo proprietari di piccolissime imprese agricole a gestione familiare; ma ci sono anche i titolari di imprese più grosse – ci dicono.
Ai presidi palermitani, questo è vero, l’anagrafe parla chiaro: la maggior parte dei partecipanti ha una età superiore ai quarant’anni. Ma non è così da altre parti.
Al corteo regionale di mercoledì 25 a Palermo una larghissima fetta di manifestanti sono invece giovani e giovanissimi: molti di questi non erano mai stati in vita loro nel capoluogo della regione; nulla, o quasi, la presenza di universitari fuori sede; alcuni studenti delle scuole; molti lavoratori, molti giovani disoccupati. I blocchi siciliani erano fortemente caratterizzati dalla loro presenza.
Già, i presidi: insieme ai blocchi dei tir, pratica fondamentale, anima di questo movimento. Piazze trasversali per età e posizione lavorativa: braccianti agricoli, coltivatori autonomi, operai, disoccupati, studenti e pensionati; e le loro famiglie, anzi, i loro paesi. Paesi resistenti, comunità in lotta – in questo caso lasciatemi passare questa definizione che meriterebbe ben altri approfondimenti ma che sta qui a indicare il senso di un originale rapporto tra lotta e territorio, potere di gestione e controllo – che hanno avuto la capacità di riproporre, capovolgendolo finalmente (!), il rapporto tra imposizione e utilizzo della forza. La pratica dell’imposizione della chiusura degli esercizi commerciali, criminalizzata e bollata come mafiosa in maniera bipartisan nel nome della legalità nella protesta, nonostante sia stata per decenni pratica consolidata del movimento operaio, è stata possibile, e legittimata, proprio per la dimensione comunitaria e generale di quella lotta; è sulla massificazione di pratiche radicali che sono venute pesantemente a galla differenze sia di partecipazione che di conflittualità tra piccoli e grandi centri dell’isola, tra entroterra e metropoli.
Abbiamo visto cortei studenteschi che in piccoli centri dell’isola hanno saputo coinvolgere praticamente tutto il mondo della scuola; abbiamo ascoltato la voce di pensionati e disoccupati a sostegno dei lavoratori del paese; abbiamo visto emergere un inedito tessuto solidaristico: trasversale, generale e massificato.
Arriviamo così a ciò che maggiormente interessa.
Credo si debba analizzare il fenomeno in questione secondo una duplice chiave di lettura: la prima è quella che dà ragione, pur ricollocando il tutto, ai sostenitori di un qualche carattere padronale della protesta e della sua composizione; la seconda relega questa visione in un proscenio temporaneo, secondario, non necessariamente determinante ai fini di un’analisi complessiva della vicenda e del palco su cui essa si è rappresentata.
Prima chiave: effettivamente – come sopra accennato – molti dei manifestanti presenti – forse anche i più politicamente consapevoli – sono titolari di medie-piccole imprese con dipendenti e operai a carico, attorno cui è facile ritagliare la veste di padroncino: in questo caso è effettivamente la logica della preservazione dei propri interessi la molla della rabbia; logica condita dalle consuete retoriche padronali a proposito del comune interesse di lavoratori e datori.
Se questo è un dato incontrovertibile, alcune specifiche vanno comunque proposte a danno di una serie di facilonerie proposte in queste settimane da media e intelligenze sinistroidi. Perché se mi basassi su queste, dipingerei involontariamente un quadro di incredibile concentrazione di potere e ricchezze da un lato, quello degli autotrasportatori, e di storico latifondismo dall’altro, quello del settore agricolo. Noi tutti sappiamo che nessuno dei due modelli regge.
La maggior parte dei lavoratori autonomi del settore del trasporto di merci, animali e generi alimentari, infatti, sono titolari di ditte che non contano più di una decina di dipendenti se non addirittura ditte a gestione familiare, con in dote non più di due o tre camion; molti dei padroni presenti ai presidi sono, da lavoratori autonomi, proprietari di un solo mezzo che, ovviamente, guidano personalmente. Storie come quelle raccontateci in quei giorni confermavano un quadro di enorme sofferenza causata dalla fase di crisi economica, dalla frantumazione e polarizzazione delle filiere commerciali oltreché dall’impossibilità cronica di competere su mercati ormai globali che, seppur – o proprio perché – liberalizzati, vedono il costituirsi di lunghe catene di subappalti e commissioni dall’alto (multinazionali) gestite a piacimento; in queste catene ben poco spazio di imprenditorialità e contrattazione sui prezzi viene lasciato a questi lavoratori autonomi: anzi, il settore dell’autotrasporto è un tipico esempio di un mercato in cui il rischio di impresa è completamente sulle spalle di queste piccole ditte o addirittura del singolo lavoratore autonomo, cioè l’ultimo anello di queste filiere globali.
Ciò che andrebbe ripensato è piuttosto il grado di sfruttamento sistemico al momento della circolazione delle merci per provare così a ridisegnare le gerarchie del comando e, per l’appunto, dello sfruttamento in questo campo di lavoro. Nascono, invece, da qui le istanze anti-globalizzazione portate sul palco della rivolta cui stiamo assistendo.
Diviene difficile così – se non fuorviante – generalizzare questo complesso ed eterogeneo mondo, in cui meno di 1/3 delle imprese posseggono praticamente tutti i mezzi attualmente in circolazione a livello nazionale e le altre non più di tre camion cadauna, sotto l’etichetta di padroncini; diviene difficile che C. (trentenne autotrasportatore autonomo, proprietario di un solo camion da lui guidato), giorno e notte presente in uno dei presidi palermitani, accetti di buon grado che qualcuno a sinistra lo definisca in tal modo; stesso discorso vale per il signor M. (sessantenne titolare di un’impresa che conta tre camion a disposizione ma che gestisce col giovane figlio) che, all’occorrenza assume temporaneamente un qualche lavoratore dipendente pescato direttamente nel suo paesino, Altofonte.
Quest’ultimo cenno mi offre l’occasione di ricordare rapidamente un particolare aspetto: e cioè che questi titolari di ditte non agiscono tendenzialmente in un contesto di puro libero mercato in cui attingere liberamente a quei serbatoi di forza lavoro sempre utili all’abbattimento di costi. Il lavoro, nei nostri contesti di riferimento, risponde infatti a regole sociali non ancora degradate: il titolare di una ditta di Partinico i suoi dipendenti li cerca sempre e comunque all’interno di certe sfere di contiguità (familiare, sociale, geografica) e non in un generico mercato del lavoro libero da limiti. Ciò si riflette su quei vincoli solidaristici (dall’alto verso il basso e viceversa) a cui sopra si faceva velocemente riferimento.
Discorso simile vale, anche se in proporzioni diverse e con alcune asimmetrie, per il mondo del lavoro agricolo. Anche lì molti imprenditori, ma soprattutto tanti coltivatori diretti titolari di imprese a gestione familiare.
Gli interessi in ballo restano simili a quelli che in precedenza si associavano agli autotrasportatori: impossibilità di competere su un mercato ormai globale per il bassissimo rendimento economico dei prodotti. Anche lì le catene e gli stadi vedono come ultimo anello una grande distribuzione in grado di controllare i prezzi in maniera tale che il contadino – ma discorso che vale anche per il pescatore, di cui non abbiamo finora parlato nonostante l’enorme protagonismo di questa figura – non riesca, se non aiutato dai vari finanziamenti europei ormai irreperibili, a vivere del proprio lavoro.
Ovviamente, e questo non può essere taciuto, in alcuni contesti territoriali (sud-est) alla mobilitazione hanno, in qualche modo, partecipato anche quegli imprenditori agricoli che più di tanti altri, a livello europeo e globale, sfruttano con tecniche da antico caporalato il lavoro migrante secondo indiscutibili logiche padronali, anzi servili.
Insomma, credo – mi scuso se mi ripeto – non si possa considerare minimamente esaustiva la categorizzazione delle proteste siciliane come la rivolta di padroni e padroncini perché non tiene minimamente in conto le trasformazioni del lavoro – che potremmo qui definire frantumato –, nonostante sia innegabile un certo tipo di caratterizzazione interclassista che ha portato inevitabilmente alla confusione di linguaggi, prospettive e rivendicazioni che gli stessi manifestanti desideravano più sociali e legati ai principi di una generale redistribuzione della ricchezza.
Seconda chiave di lettura, o meglio seconda prospettiva analitica: chi pensa che la sostanza delle mobilitazioni siciliane fosse esclusivamente legata al mondo del lavoro autonomo e/o imprenditoriale ha evidentemente preso una cantonata.
Anche a Palermo (potremmo qui trascrivere le testimonianze concesseci da ben altri rappresentanti dell’attuale mondo del lavoro) ma soprattutto nei centri di più piccole dimensioni, negozianti, disoccupati, lavoratori dipendenti e persino operai e braccianti agricoli hanno riempito di nuovi e più vasti significati le giornate dei forconi.
Sono le storie di chi si mobilita in difesa di parenti allevatori; del posto di lavoro nell’azienda del vicino di casa; sono i lavoratori di una ditta del ragusano che, contro ogni volere padronale, decidono lo stesso di fermare i camion contenenti generi alimentari facendo perdere la commissione all’impresa; sono eccedenze di questo movimento! Sono ciò che ha dato a questa mobilitazione un carattere di massa, anti-categoriale e anti-corporativo. Sono stati la posta in gioco di una mobilitazione che ha avuto la necessità di costruirsi un sostegno popolare ma che aveva in esso, al contempo, il suo unico possibile contrappeso interno alle svolte vertenzialistiche da vertice.
I due piani analitici proposti, a mio avviso, si intrecciano e trovano terreni comuni tanto sul piano della lotta alla crisi (i redditi medi non sono da dirigente) e al debito, non soltanto l’odio generalizzato verso Equitalia e Serit, ma, più in generale, contro un paradigma economico che vede tutti dover pagare aumenti dei carburanti e dei costi dei servizi nella perversa forma/arma del debito, quanto su un più ideologico, attaccamento comunitario e, in forme originali – qualcuno si mostrava addirittura convinto di doversi adeguare ad una sorta di fase preinsurrezionale – spirito resistente.
Tra queste due diverse composizioni restano comunque determinanti differenze da sottolineare, una in particolare: è infatti chiaro a tutti come a diversa posizione lavorativa corrisponda anche un diverso approccio alla politica. Se, infatti, è stato proprio e condiviso dalla maggioranza dei rivoltosi un approccio irrimediabilmente contrappositivo nei confronti della politica ufficiale (partiti, sindacati) – atteggiamento che ha condotto i detrattori verso l’accusa di qualunquismo apolitico – è importante sottolineare come ad esso vada affiancata una endemica predisposizione ideologica alla ricerca di capipopolo che finisce, ovviamente, per riportare alla ribalta quella piccola fetta di classe dirigente che si ricicla continuamente in questo tipo di dinamiche di massa; una vecchia classe di politici in grado di esercitare peso (individuale, non certo di tradizioni partitiche) rendendo meno evidenti scollamenti e contraddizioni tra base e vertici, ma anche con sempre meno potere contrattuale con gli “istituti del grande capitale”.
Ancora una volta, pare emergere un irriducibile conflitto, una determinante discrepanza tra una composizione tecnica ricca di interessanti fermenti ed una composizione politica di questo movimento che limita, blocca e riduce le potenzialità di antagonismo proprie di questi conflitti.
Nell’ambivalenza di ognuno dei fattori citati in questo contributo, e a giorni dall’apice toccato da queste mobilitazioni, resta comunque forte l’interesse per una dinamica sociale in grado di arricchire i nostri strumenti analitici sulle diverse risposte materiali alla crisi e come esse si traducono, per l’appunto, sul piano sociale, produttivo e politico. Così come forte resta la sensazione di avere assistito ad un originale ribaltamento di recenti modelli movimentisti che hanno finito per cristallizzare certe analisi materialistiche sulla fase e sulle evoluzioni del corpo sociale in relazione alle trasformazioni sistemiche; non è infatti casuale, né purtroppo di scarsa rilevanza, che proprio da sinistra ci siano stati forniti paradigmi interpretativi arcaici nei presupposti, rigidi nelle analisi, metafisici nell’intendere l’azione politica rivoluzionaria come una sorta di attesa messianica di movimenti sociali perfetti e guidati da soggetti eletti.
Mobilitazioni incubate in alto, fatte esplodere in basso, diffusesi in orizzontale in maniera così capillare che è stato, e sarà, difficoltoso recuperarne tutti i pezzi.
Questo è quel che vi ho visto.
Questa è la crisi!
* Giorgio Martinico fa parte del Collettivo Universitario Autonomo di Palermo