La riproduzione del possibile. Oltre il lavoro, oltre la famiglia
Un’intervista a KATHI WEEKS di ANNA CURCIO
Perché il lavoro è così centrale nelle nostre vite? E perché oggi questa centralità cresce mentre la precarietà ridefinisce il nostro rapporto con il lavoro e la crisi colpisce profondamente l’occupazione? E soprattutto, come ripensare dentro la crisi il rapporto con il lavoro e dunque costruire un oltre il lavoro salariato e l’istituzione famiglia che regola il lavoro domestico gratuito?
Ne abbiamo discusso con Kathi Weeks, politologa e femminista, docente a Duke University, autrice di The Problem with Work. Feminism, Marxism, Antiwork Politics and Postwork Immaginaries (Duke University Press 2011, pp. 287). Un’analisi femminista che tuttavia non si limita a ragionare di donne e punta più complessivamente a liberare la vita dal peso invadente del lavoro.
Partiamo dal principio, qual è il problema con il lavoro?
I problemi sono tanti. Se ne possono menzionare almeno tre. Innanzitutto il lavoro monopolizza la nostra vita. Spendiamo nel lavoro una gran quantità di tempo ed energie: per preparare e organizzare il lavoro, per renderlo sicuro e per recuperare le energie spese; non stiamo solo lavorando, diventiamo lavoro! Il secondo problema riguarda la capacità del lavoro di dominare il nostro immaginario politico e sociale. Al lavoro sono legati i diritti e le opportunità di riconoscimento sociale, il modo in cui sviluppiamo la nostra identità, accediamo alle reti sociali e costruiamo la socialità. Negli Stati Uniti il lavoro stabilisce anche il modo in cui si ha accesso ai servizi sanitari. Infine il lavoro, come lavoro salariato, è un problema perché come sistema di redistribuzione del reddito e dell’inclusione sociale non funziona, è incompleto. Come la critica femminista ha evidenziato, ci sono molte forme di produttività sociale che non sono legate al lavoro salariato di cui non si tiene conto nella redistribuzione della ricchezza. E poi c’è il problema dei problemi che è l’etica del lavoro di weberiana memoria. Oggi quest’etica è ancora più centrale perché nelle forme di produzione postfordista c’è un enorme bisogno di lavoratori disposti ad investire soggettivamente e a identificarsi nel lavoro.
Da dove nasce questo bisogno?
In fabbrica esisteva una disciplina. I lavoratori erano accuratamente diretti e controllati e quindi non era un problema se non si identificavano con il lavoro. Ma nel lavoro di cura, nel commercio o nei servizi e in tutte quelle altre forme di lavoro che costellano l’universo postfordista non c’è un analogo modello di controllo e monitoraggio. C’è dunque un fortissimo bisogno di autodisciplina e di lavoratori che mantengono una condotta ineccepibile rispetto al lavoro. Insieme a inclinazioni, emozionalità e lavoro affettivo, ciò che oggi i datori di lavoro ricercano maggiormente è proprio l’etica del lavoro, che diventa uno dei principali dispostivi di assoggettamento.
Nel libro ti soffermi su un’identità del lavoro che nell’esperienza soggettiva entra in relazione con le differenze di classe, razza e genere: cosa vuol dire questo in termini di produzione di soggettività?
Il lavoro è senz’altro lo spazio del divenire classe dei soggetti e della costruzione di identità razzializzate e gendered. Sul terreno del genere questa relazione è particolarmente potente perché esiste ancora una forte divisione sessuale del lavoro, che riguarda indistintamente il lavoro salariato e non salariato. Le statistiche mostrano un’evidente segregazione di genere che interessa, sebbene con gradazioni differenti – colpisce più il business che le professioni – tutti i settori produttivi. È una segregazione occupazionale e dei salari che coincide grosso modo con le attività lavorative che le donne svolgono tradizionalmente in ambito domestico, ma funziona anche come dispositivo di organizzazione del lavoro, ad esempio il lavoro part-time è dominato dalle donne. Tale divisione del lavoro oggi non segue una precisa razionalità di genere, ma funziona in modo random, casuale, così nei fast-food gli uomini lavorano in cucina e le donne in sala, mentre la razionalità di genere potrebbe dire l’opposto.
Possiamo dunque pensare di essere di fronte ad una nuova divisione sessuale del lavoro?
Non credo che ci sia qualcosa di nuovo. Questa modalità random ha sempre uno presupposto ideologico di naturalità: le donne fanno meglio questo e non quest’altro. È vero che oggi le figure produttive si immergono nei codici di genere ma, nonostante le battaglie femministe, le donne restano le principali responsabili del lavoro domestico non pagato, cosa che influenza fortemente la loro relazione con il lavoro salariato. La cosiddetta femminilizzazione del lavoro, allora, deve essere accompagnata da un discorso sulla profonda gerarchizzazione del lavoro rispetto al genere: si rischia altrimenti di rendere invisibili i modelli di genere e le forme di segregazione occupazionale.
Nel tuo libro ci sono continui rimandi, anche critici, al femminismo marxista degli anni Settanta: in che termini queste analisi hanno influenzato la tua riflessione?
Gran parte del libro è dedicato a reimmaginare e riscrivere alcune delle questioni elaborate in quegli anni. Mi hanno soprattutto ispirato le elaborazione del gruppo “Salario al lavoro domestico”, in particolare il modo in cui hanno incorporato il rifiuto del lavoro nel progetto femminista per il riconoscimento della dimensione produttiva del lavoro domestico, una specificità forte anche all’interno del femminismo marxista degli anni Settanta. Hanno innanzitutto riconosciuto il lavoro domestico come lavoro socialmente necessario senza il quale l’economia del lavoro salariato non potrebbe funzionare, lo hanno reso visibile sottolineando la complementarietà tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo. Oggi che produzione e riproduzione si sovrappongono, questi termini non funzionano più in modo pieno, ma in quegli anni hanno reso possibile la costruzione di un terreno di rivendicazioni molto radicali che ha permesso di mettere in discussione le responsabilità delle donne rispetto al lavoro di riproduzione. In questo senso, hanno produttivamente declinato il discorso sul lavoro domestico come rifiuto di una dimensione moralizzante del lavoro inteso come impegno etico e come lavoro d’amore all’interno della famiglia. Dunque, mentre si impegnavano a rendere visibile il lavoro di riproduzione come immediatamente produttivo, intendevano al contempo combatterlo. Un progetto molto complicato e a tratti anche contradditorio, che resta ancora di estrema attualità.
Perché dici contraddittorio?
Il problema è come riconoscere il lavoro domestico come lavoro socialmente necessario e ripartirlo equamente senza dover sommare al lavoro salariato il tempo per il lavoro domestico. Il tempo di vita non può esaurirsi tra lavoro domestico e lavoro salariato. Né il tempo di lavoro liberato dall’ambito domestico può essere rivendicato per il lavoro salariato o viceversa, si ricadrebbe in quella sopravvalutazione etica del lavoro a cui ho già accennato. Ciononostante anche alcuni discorsi femministi sono caduti in questa contraddizione e hanno riprodotto l’etica del lavoro e della famiglia, tralasciando che il lavoro domestico o salariato domina la nostra vita e va dunque combattuto. Tuttavia, se è chiaro cosa si intende per rifiuto del lavoro salariato, cosa vuol dire rifiutare il lavoro domestico? Vuol dire abbandonare le persone e i propri impegni di cura? Non credo sia possibile. Piuttosto credo si tratti di capire come riorganizzare la cura e ridistribuirla in modo che non occupi completamente la vita delle persone.
Ma oggi che produzione e riproduzione tendono a coincidere, riorganizzare la cura vuol dire anche in qualche misura riorganizzare la produzione. Come possiamo ripensare questo rapporto?
Questa è parte della difficoltà e il “Salario al lavoro domestico” può essere ancora un esempio utile. Rivendicare un salario per le casalinghe è anche una debolezza. Negli anni Settanta, le stesse femministe sottolineavano che le donne non si identificano, almeno non tutte, con la figura della casalinga. Inoltre, nominando il lavoro domestico come lavoro di donne c’era il rischio di rafforzare l’associazione tra genere e lavoro domestico. Nello stesso tempo, però, ciò ha reso visibili le lotte di genere. Oggi la domanda di un salario per il lavoro domestico andrebbe rimpiazzata con una domanda di basic income che è neutro rispetto al genere e non attiene alla mera dimensione domestica, dunque una rivendicazione ancora più potente perché riguarda tutte e tutti. Resta però il problema di come rendere visibile il lavoro domestico svolto dalle donne. Si tratta allora di trovare il modo per conciliare l’analisi femminista di genere con la domanda di basic income: in questo modo diventa possibile porre la vita al centro, come categoria da cui il lavoro salariato dipende per produrre profitto. O, detto altrimenti, riconoscere che i processi di valorizzazione poggiano oggi su soggetti, forme di socialità e temporalità che si trovano al di fuori di tempi, spazi e pratiche del lavoro salariato. Ed è qui che oggi passa la linea del conflitto.
Possiamo allora dire che fuori dal lavoro salariato la linea del conflitto passa per la famiglia?
Senz’altro. Nel libro, discutendo le lotte per la riduzione dell’orario di lavoro, ho provato a immaginare un’alternativa all’idea diffusa di ridurre l’orario lavorativo per avere “più tempo per la famiglia”. Il movimento per la giornata lavorativa negli Stati Uniti chiedeva “otto ore per lavorare, otto ore per riposare e otto ore per quello che vogliamo”. Io sono particolarmente interessata a questa idea del “quello che vogliamo” che lascia aperto lo spazio del possibile: del lavoro cooperativo e delle relazioni fuori dal lavoro salariato e dalla famiglia intesa come istituzione sociale che regola il lavoro domestico gratuito e le relazioni di potere, e che dunque va messa in discussione almeno quanto il lavoro salariato. Insomma, ciò di cui abbiamo bisogno e di cui rivendichiamo il diritto è l’idea di un oltre la famiglia e oltre il lavoro salariato: lo spazio in cui inventare altre forme e possibilità delle relazioni sociali che mettono profondamente a critica l’idea di lavoro quale fondamento razionale dell’accumulazione capitalistica.
Tra produzione e riproduzione, dunque, prende forma uno spazio diciamo “altro” che si declina come ciò che definisci “un’idea espansiva della riproduzione sociale”: puoi approfondire?
La dimensione espansiva della riproduzione sociale è una categoria che utilizzo per proporre in modo differente l’antagonismo tra accumulazione capitalistica e riproduzione sociale. Invece di pensare il lavoro salariato da una parte e la famiglia e il lavoro domestico gratuito dall’altra, riprendendo il lavoro delle femministe degli anni Settanta, rifletto sui conflitti che intercorrono tra questi due ambiti. Soffermarsi solo sul lavoro domestico e ragionare esclusivamente di riproduzione offre una soluzione al problema che non mi convince. Diventa l’idea di una serie di servizi che possono essere acquistati: un processo di mercificazione della cura che funziona per alcuni – chi può acquistare – ma non per tutti. Credo invece che la critica all’organizzazione del lavoro domestico vada fatta tout court, puntando alla costruzione di nuove forme di relazione e di cooperazione sociale dentro e fuori la famiglia.
Credi che la crisi possa essere un’occasione ulteriore per la costruzione di queste nuove forme di relazione?
Non lo so. Di certo negli Stati Uniti la crisi ha sviluppato un nuovo modo di rapportarsi ai consumi. Questo è interessante perché interrompe i processi di mercificazione, ma ha a che fare più con la possibilità di gestire diversamente il tuo tempo che non con il lavoro e la sua organizzazione. Potrebbe senz’altro essere una possibilità per ripensare in modo più cooperativo la propria vita, le forme della riproduzione e della distribuzione della ricchezza, ma non so quanto questo sia oggi una realtà, almeno negli Stati Uniti il lavoro resta centrale. Dentro la crisi è la lotta per il basic income che mi pare assuma una particolare connotazione come alternativa e spazio di possibilità per una trasformazione radicale.
Quando invece la mercificazione prevale sulla cooperazione è come se l’etica del lavoro si imponesse sul rifiuto del lavoro, come se ciò che chiami la “work society” avesse la meglio sull’immaginario post-lavorista che poni come orizzonte politico del tuo libro…
L’idea del post-work è intenzionalmente una piccola parte dei temi che discuto nel libro. È come la possibilità utopica di diffondere un immaginario e delle forme di vita possibili che non sono strettamente subordinate al lavoro, che pongono il lavoro come una parte della vita ma non come tutta la vita, e questo sia per quanto riguarda la gestione del tempo, la produzione delle identità, l’assunzione dei nostri impegni politici e sociali. Detto altrimenti, il lavoro non è e non può essere qualcosa che i cittadini hanno il dovere di realizzare.
Ciononostante però il lavoro, come domanda di lavoro, resta centrale soprattutto per i precari che hanno difficoltà a rifiutare il lavoro perché con il lavoro hanno sempre e solo avuto un rapporto discontinuo, incerto e provvisorio. Insomma paradossalmente la precarietà produce una rinnovata domanda di lavoro…
La domanda di lavoro può ancora far parte dell’agenda politica, soprattutto per quanto riguarda le donne che non godono ancora di un eguale e incondizionato accesso al lavoro e al reddito. Ma anche la rivendicazione per un lavoro migliore fa parte dell’agenda politica delle donne e ha soprattutto a che fare con il “doppio sfruttamento” a casa e sul lavoro e con la rivendicazione di un’eguale distribuzione tra uomini e donne di questo lavoro. C’è però nello stesso tempo anche una domanda per lavorare meno, ed è davvero difficile combinare tutte queste cose insieme in un percorso politico e di lotta. Meno lavoro, più lavoro e migliore lavoro sono cose tra loro contraddittorie, tuttavia le domande politiche prendono forma nei concreti processi di lotta. Queste restano dunque prospettive politiche tutte valide da intendere come progetti aperti. Più in generale la mia impressione è che la lotta politica si colleghi maggiormente ad una politica anti-lavorista che non ad un immaginario post-lavorista. Si tratta cioè di una la lotta contro il lavoro, la sua etica e i suoi valori.
Dunque le lotte sono contro il lavoro e il post-work resta un orizzonte utopico…
Esatto, ed è per questo che sono interessata al basic income e alla riduzione dell’orario di lavoro. Almeno nel contesto americano c’è davvero poco spazio per questo genere di rivendicazioni che per questo pongo come rivendicazioni utopiche di una società post-lavorista. Io credo che sia importante produrre un immaginario, anche se utopico, che permetta di pensare un oltre al lavoro, anche semplicemente nei discorsi. Si tratta cioè di far circolare una diversa idea del lavoro che ci permette di ripensare in modo sistematico il lavoro come sistema di redistribuzione e di sottoporlo a critica. In questo senso la domanda di basic income e per la riduzione dell’orario di lavoro possono essere considerate richieste insieme post-work e anti-work, un nuovo modo di pensare il lavoro e la sua organizzazione.
È un progetto al contempo critico e “visionario”…
Si, rifiuto del lavoro ed elaborazione di un immaginario possibile sono due momenti che intendo come complementari. Nel senso che il rifiuto del lavoro è una politica anti-lavorista che ha a che fare con un immaginario post-lavorista. In particolare mi interessa la dimensione utopica, dove per utopia intendo pratiche discorsive che ci spingono ad allargare il nostro immaginario, a produrre in questo caso un differente rapporto con il lavoro e la sua etica. Inoltre, nella critica che muovo al lavoro mi interessa anche affiancare il tema dell’uguaglianza, ovvero di un diseguale sfruttamento sul lavoro, a quello della libertà, marxianamente intesa come possibilità di creare collettivamente il mondo in cui viviamo: le relazioni, le istituzioni e i beni che produciamo. L’immaginario che propongo ha dunque anche a che fare con il potere che i soggetti sono in grado di esercitare sulla creazione collettiva di tempi e spazi del mondo sociale. In questo senso credo che la libertà vada intesa come creazione più che come distribuzione. Il problema con il lavoro e il motivo del suo rifiuto non è solo riferito allo sfruttamento ma riguarda anche il controllo che viene esercitato sui contenuti e i tempi del tuo lavoro, sulle relazioni che instauri con gli altri. Andando dunque oltre la giustizia economica in senso stretto, mi soffermo in particolare sulla politica del lavoro e considero più complessivamente la produzione della forza lavoro. Aggiungere il discorso sulla libertà a quello dell’eguaglianza non vuol dire solo aggiungere altri problemi al lavoro ma anche aprire altri spazi di possibilità che non hanno solo a che fare con il reddito ma, nel solco aperto dalle lotte per il salario al lavoro domestico, richiamano la possibilità di vivere un’altra socialità e altre forme di cooperazione e produttività.
L’ultima questione che vorrei discutere ci riporta all’inizio di questa chiacchierata. Abbiamo posto l’etica del lavoro come uno dei principali dispostivi di assoggettamento del lavoro contemporaneo, vorrei adesso considerare l’altra faccia della produzione di soggettività e riflettere sull’infedeltà che alcune analisi hanno individuato quale strategia di resistenza e autovalorizzazione del lavoro precario…
Credo che l’infedeltà si riferisca ad un preciso datore di lavoro e non necessariamente al lavoro in sé; ha più a che fare con la flessibilità che con il rifiuto del lavoro. Ciononostante, come la tradizione del femminismo operaista e il movimento di lotta per il welfare negli Stati Uniti hanno mostrato, c’è sempre un’opposizione all’etica del lavoro e figure del lavoro che resistono e si propongono di sovvertire quest’etica. Anche per questo motivo allora riflettere sul tema del lavoro può rivelarsi un esercizio importante, soprattutto se lo si considera come fenomeno politico piuttosto che meramente economico.