Oltre il privato e il pubblico
di MARCO SILVESTRI
Testo dell’intervento per il seminario di Uninomade “Il diritto del comune”.
Torino, 10 marzo 2011
Il povero sa cosa è il privato, quando, ad esempio -lui che non ha casa- chiede un tetto a chi ne ha, perlomeno, due.
Questi concede in locazione il bene dietro un corrispettivo. Il rapporto è regolamentato dalla legge. Se non paga deve tornare sulla strada. Se, al contrario, il bene è inidoneo all’uso convenuto, il proprietario potrà essere costretto ad apportare migliorie, subirà (forse) la riduzione del canone, in ogni caso, un tetto sulla testa lo avrà sempre (anzi due).
Il povero sa anche cosa è il pubblico, quando ad esempio -lui che non ha lavoro- deve andare a cercarlo con l’autobus, autobus che poi userà volta trovato il lavoro.
Deve pagare un biglietto (meglio se un abbonamento) per un (pessimo) servizio che, in fondo, gli dovrebbe essere reso in quanto cittadino (?) e in quanto lavoratore (il servizio è a favore dell’impresa e non del dipendente, in ultima analisi).
Il povero sa che privato e pubblico sono due facce dello stesso limite che il capitale (ci) impone: il limite alla vita.
Il diritto sorge e si sviluppa per perpetuare questo limite.
Attraverso il diritto, i proprietari di merci si riconoscono tra loro e vedono questo rapporto tutelato.
Il diritto cd soggettivo, quale diritto connaturato al soggetto (individuo), lo crea (il soggetto) quale portatore di diritti, tutti connessi alla proprietà (propria o altrui).
Il diritto soggettivo può anche essere visto, sul versante “pubblico” come quel coacervo di facoltà che lo stato riconosce al soggetto all’interno dell’ordinamento.
Anche questa specie di riconoscimento da parte dello stato, peraltro, ripete l’evidenza dell’essere proprietario.
Il capitale, quindi, attribuisce rilevanza -che il diritto concreta- al solo individuo proprietario, a colui che può essere inserito nel processo dello scambio delle merci.
Anche gli enfatici riferimenti del codice all’interesse e alla produzione nazionale, lungi dall’affermare un interesse statale alla produzione (come qualcosa di altro rispetto alla produzione capitalistica di merci), tendono ad eliminare ostacoli a che la produzione (individuale) di merci subisca limitazioni a causa dell’abuso del singolo produttore (e le tenere leggine anticrisi “finanziaria” e gli anatemi contro la malagestio del mercato finanziario non si sottraggono alla pena).
Il pubblico è “stato” al più un carabiniere al servizio del privato, mai un soggetto terzo, un’alternativa reale al potere del capitale.
Il pubblico non è mai esistito.
In effetti mentre la proprietà privata è sacra ed inviolabile (e il ridicolo affannarsi della Corte Costituzionale nella repubblica nata dalla Resistenza per fulminare leggi volte ad affermare il limite -risicatissimo- dell’utilità sociale ne è costante riprova) i beni pubblici sono un elenco contenuto in una norma costantemente modificabile e modificata e privo di ogni carattere vincolante.
Le caserme, le prigioni (orgoglio patrio) possono essere vendute, date in concessione (con l’annesso servizio rieducativo), cave e torbiere utilizzate come veicolo pubblicitario per il potere democristiano (chi si ricorda il metano a Ferrandina?).
Se il capitale ha “creato” lo stato nazionale perchè gli “serviva”, il movimento socialista ha visto nello stato la possibilità di sostituirsi al capitale nella gestione della produzione: di essere un capitalista migliore e più”giusto” di quanto il capitale non fosse.
Il farsi stato del movimento socialista non ha prodotto alcuna modificazione sostanziale nella considerazione del diritto quale veicolo per lo scambio di merci (e la triste sorte di Pasukanis e Stucka ne è riprova, proprio in quanto comminata in ragione del diritto -proprietario- socialista).
Il fatto che la tutela fosse accordata alla produzione socialista anzichè al libero sviluppo del singolo imprenditore, non muta la questione: il povero doveva pagare la casa al proprietario e il biglietto dell’autobus al gestore del servizio (come e quanto non importa).
Il diritto ha funzionato (al di là dell’aspetto coercitivo e comunque di tutela) quale metro di valutazione dei beni, e ciò accordando il ricorso alla magistratura (non si dimentichi che l’azione è stata considerata il diritto soggettivo per eccellenza).
Ogni qualvolta si è riconosciuto il “diritto” a rivolgersi ad un giudice per un preteso torto subito, ebbene, si è verificato da parte dell’ordinamento (capitale) la considerazione del soggetto portatore di quella specifica posizione degna di tutela.
Quella posizione è stata così misurata, valutata, VALORIZZATA dal capitale.
La posizione è stata reificata, la lesione riferita ad uno specifico bene.
Se nel capitalismo industriale tale procedere era connaturato allo scopo della produzione di merci, cosicchè il diritto si dipanava nella cura del valore, assegnando ad ogni attività, ad ogni esistenza, ad ogni prestazione un valore, attraverso la tutela avverso la turbativa del processo di valutazione, sostanzialmente assorbendo ogni censura, tanto che il diritto unico era quello “del padrone” (pubblico o privato) nel capitalismo cognitivo, con la supremazia della produzione immateriale, il diritto quale valorizzatore non risponde più alla sua funzione.
La singolarità, immediatamente produttiva, non riesce ad essere completamente appresa dal capitale. Il diritto volto alla considerazione del proprietario di merci non comprende appieno le soggettività che si pongono dentro ma anche oltre il diritto stesso.
Il diritto (del capitale) non può comprendere le singolarità che si fanno moltitudine, nè può “obbligarle”(la produzione biopolitica mette il bios al lavoro senza consumarlo).
Il capitale può buttare a mare lo stato nazione, darsi una norma valida per tutti i mercati, ma non può recintare del tutto l’essere umano che ormai è esso stesso impresa ma anche negazione (in quanto superamento) della medesima.
Quanto della vita di ciascuno di cui il capitale non appropria, l’eccedenza che tracima della desolazione, eccedenza che è provocata proprio dall’attività lavorativa che il capitale ci impone e quindi non può essere rinunciata, si costituisce in modelli comportamentali, in possibilità di soddisfare esigenze o passioni che sono in immediato costitutivi di “norme”.
Quando si decide di non pagare il biglietto dell’autobus (come è successo in questi giorni a Genova, il “violare” la norma -insussistente, ma invocata dalla controparte- dell’incedibilità del biglietto orario), di occupare una casa sfitta, di contrarre un mutuo nella consapevolezza che non si potranno pagare le rate di ammortamento, di portare allo sconto effetti inesistenti (prassi comune ai microimprenditori, autodefinentisi partite iva) la singolarità istituisce concretamente ed immediatamente il proprio agire operativo che si può definire “diritto” poichè rappresentativo di atti irrinunciabili anche per il capitale (che non può fare a meno della nostra esistenza e del nostro lavoro/vita) e come atta a costituirsi in norma da osservare e fare osservare.
Si potrebbe pensare al farsi moltitudine quale magistratura “rivoluzionaria” che deduce i propri poteri arricchendoli dalla funzione imprescindibile di ausilio a sè medesima, contro atti del governo , vessatori e sgraditi. Si procede dal potere di veto (no ad uno sgombero, per restare negli esempi di prima) che indipendentemente dal valore giuridico riveste efficacia politica considerevolissima per assumere competenza positiva, andando a tracciare istituzioni che procedano dalla resistenza e dal riconoscimento dell’altro e quindi dal “comune” inteso quale insieme delle forze resistenti/costituenti che si costruiscono come innovazione ontologia del legame sociale.