Tunisia: rilanciare la rivoluzione senza centro
29 / 08 / 2012
di KHALED GHARBI BEN AMMAR e SANDRO CHIGNOLA
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La vicenda può apparire marginale. Che cosa sta succedendo a El Hencha cittadina agricola vicino a Sfax la seconda città della Tunisia? Il 20 agosto è stata convocata una riunione dell’Agenzia governativa per lo sviluppo con lo scopo di predisporre l’anagrafe dei cittadini cui assegnare i fondi nazionali per l’agricoltura. Piccolo problema, gli inivitati alla riunione erano solo le clientele del partito islamico Ennahda, che attraverso questo meccanismo aveva lo scopo di gestire in modo vincente le elezioni politiche nazionali previste per il mese di marzo dell’anno prossimo. La riunione predisponeva le condizioni per un classico voto di scambio.
A quella riunione, ancorché non invitati, si sono però presentati militanti politici, studenti e disoccupati – i protagonisti della Rivoluzione tunisina – chiedendo ragione dell’esclusione e radicalizzando in senso politico la propria, in questo caso letteralmente irruente, richiesta di democrazia. La polizia, inviata dal prefetto, esponente di Ennahda, li ha allontanati con la forza. Da subito, la risposta è stata decisa: alcune macchine della polizia e alcuni mezzi privati sono stati incendiati. Ma è stato quanto è successo immediatamente dopo, che ha scatenato la rivolta dei giorni 23, 24 e 25. Una spedizione punitiva organizzata da Ennahda con l’accoltellamento di uno dei protagonisti degli scontri del 20 e l’arresto di quest’ultimo mentre sporgeva denuncia hanno prodotto una sollevazione dirompente e un’altrettanto feroce repressione: l’attacco al commissariato di El Hencha, scontri, rastrellamenti.
Nella notte del 25 le forze di polizia tunisine si sono prodotte in un’autentica caccia all’uomo casa per casa. Le cronache parlano di lancio di lacrimogeni all’interno delle abitazioni per costringere la gente a uscire, di botte e di torture, di medici picchiati mentre tentavano di assistere i feriti, di donne, protagoniste della rivolta, inseguite dalla polizia. E di più di 65 arresti tra i militanti del Partito dei patrioti democratici, l’organizzazione attorno alla quale si sta ricomponendo la sinistra tunisina dopo le elezioni che hanno portato al governo gli islamici di Ennahda. Mentre scriviamo queste note, ancora non sappiamo come evolverà la situazione, al momento al centro dell’attenzione pubblica in Tunisia.
Una vicenda marginale? Non lo pensiamo. Essa ci sembra, piuttosto, alquanto significativa in relazione all’evoluzione delle Rivoluzioni arabe dopo il 2010-2011. Quanto accade a El Hencha, cittadina tutt’altro che periferica rispetto alle mobilitazioni degli anni ’80 e ’90, è lo scontro tra una richiesta di democrazia radicale che eccede i perimetri della rappresentanza e il dispositivo di cattura messo al lavoro dopo la Rivoluzione. Da un lato la prosecuzione della rivendicazione di libertà, diritti sociali e partecipazione sui territori, un processo di soggettivazione politica che sconfina dalle piazze di Tunisi, dall’altro il tentativo di riscrivere la costituzione sulla testa delle donne, un potere patriarcale e islamista che pone in opera meccanismi di governance clientelare e usa la legittimità elettorale e rappresentativa come arma per far arretrare di secoli la civiltà politica in Tunisia.
Le interviste presenti sul web ai cittadini di El Hencha lo indicano chiaramente: con la Rivoluzione sarebbe dovuto arrivare ciò che non è arrivato. Ospedali, scuole, servizi sociali. Diritti e partecipazione. Con la Rivoluzione arrivano invece – e non è affatto necessario, ma è l’esito di un provvisorio e revocabile ordine imposto dalle elezioni – oscurantismo, clientelismo, autoreferenzialità del sistema politico.
Perché riteniamo che quella di El Hencha sia una vicenda esemplare? Da un lato per la particolare composizione sociale espressa da questa rivolta. Militanti di un partito alternativo a quello di governo, una sinistra di base che ha trainato in Tunisia le mobilitazioni degli ultimi ventanni, ma che non ha saputo capitalizzare il processo della primavera araba, aprendosi al desiderio di libertà e giustizia che lo ispirava e che ha finito con l’arroccarsi su posizioni evidentemente arretrate, ma anche, e soprattutto, donne, disoccupati, studenti, i protagonisti di una dinamica letteralmente incontenibile nei canali della rappresentanza politica e che non intendono esprimersi attraverso le elezioni.
La rivolta di El Hencha è scoppiata grazie al passaparola. Alla notizia di una riunione che avrebbe escluso dalla partecipazione i soggetti non addomesticati alla disciplina islamica intercettata per caso e fatta immediatamente circolare attraverso quegli stessi canali informali di comunicazione che hanno alimentato le mobilitazioni per la destituzione di Ben Ali. Una mobilitazione locale, ma probabimente portata a generalizzarsi così come successe nel 2010-2011, quando solo lo sguardo occidentale si affaticava a trovare risposte concentrandosi esclusivamente su quanto accadeva a Tunisi. Questa vicenda ci appare inoltre estremamente rilevante per un secondo motivo. Si tratta del suo portare all’evidenza l’inceppo che affligge, non solo questa, ma molte delle più avanzate sperimentazioni sul terreno del rapporto tra movimenti sociali e istituzioni. Le insurrezioni del XXI secolo si dimostrano intraducibli nello schema classico del rapporto tra potere costituente e potere costituito ed evidenziano la ricerca di una nuova grammatica istituzionale.
Non si fanno le rivolte per prendere il potere, ma per tenere aperto un processo di incitamento e di confronto con la funzione di governo. Il meccanismo per mezzo del quale il partito islamico Ennahda azzera il confronto con i governati – escludendoli dalla decisone, rafforzando i processi identitari, giocandosi la carta di un imbrigliamento delle dinamiche di soggettivazione per mezzo di un culturalismo che mima il riscatto anticoloniale – è un meccanismo arcaico e moderno al tempo stesso. Moderno, perché agito in buona parte del Medioriente; arcaico, perché innestato a retoriche e funzionalità destinate ad essere sconfitte dallo smottamente del terreno sul quale esse si reggono: una composizione sociale nuova, irriducibile, pronta a muoversi su tutti i terreni e a sfidare i dispositivi di cattura che la inseguono.
Questa composizione sociale non cerca una traduzione istituzionale per mezzo dei filtri della rappresentanza. Non cede il proprio protagonismo. Al contrario, insegue la funzione di governo sin nelle più microfisiche pieghe della decisione amministrativa, denuncia il teatro della rappresentanza e i circuiti clientelari che lo rinsaldano, impone agende e bisogni la cui materialità non può essere dissolta con il ricorso all’alchimia elettorale.
Si tratta di rilanciare la Rivoluzione dalle periferie, e di far sì che quelle periferie non siano più le periferie di alcun centro. Di moltiplicare le prese di parola. Di non indirizzare al potere e a chi lo detiene delle petizioni, ma di organizzarle come forme di una nuova istituzionalità in cui la funzione di governo venga mantenuta aperta e costretta al confronto con i governati. Di questo ci parla la sollevazione di El Hencha. Ci sembra abbastanza perché se ne parli.
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