Avanguardismo simbolico, pratiche di lotta, diritto all’insolvenza: appunti per un dibattito
di GIGI ROGGERO
Il simbolico è morto. Poco conta che prenda le forme solitarie dell’azione pacifica o pirotecnica, dell’esibizione identitaria di creatività o di durezza. Questo è il punto da cui dobbiamo partire se vogliamo interrogarci collettivamente sulle nuove pratiche di lotta, tema divenuto abituale nei dibattiti degli ultimi mesi e, in Italia, frenetico dopo il 15 ottobre. Attenzione: non stiamo parlando di una nefasta restaurazione dell’esausta dicotomia tra simbolico e reale. Stupidaggini, perché oggi il simbolico è maledettamente reale, ovvero è completamente interno ai rapporti di produzione. Proprio per questo, allora, stiamo parlando della morte della separatezza del simbolico, della sua funzione di sostituzione, esonero e maschera, cioè del suo ruolo di rappresentanza. Le lotte oggi sono irrappresentabili anche da questo punto di vista.
Lo abbiamo visto di recente in Italia. Alcuni gruppi, avendo annusato ma non afferrato la potenza della rete, hanno provato a riprodurre sui social network nomi, lessici e pratiche che in Spagna o negli Stati Uniti hanno avviato straordinari processi di mobilitazione, disincarnandoli dalla loro dimensione moltitudinaria per poterli rappresentare e gestire. Il risultato è un flop. Per questo funziona Occupy Wall Street e falliscono altre occupazioni davanti alle banche. E lo stesso si può dire dei tentativi di importare le acampadas nella penisola, senza però i soggetti che si accampano. La spiegazione è semplice: è finito il tempo in cui qualche decina di attivisti compie un’azione simbolica a nome del precariato, o degli studenti, o dei migranti, o delle donne. E adesso degli indignati oppure del 99%. Intendiamoci, non è un problema di onestà: semplicemente, l’avanguardismo simbolico non funziona. E non funziona perché ciò presuppone il movimento in quanto opinione pubblica: un flusso carsico, da sempre esistente e che sempre esisterà, argilla impastata dagli eventi e a cui i gruppi che si definiscono di movimento donano forma e sostanza. Le lotte nella crisi dell’ultimo anno ci dicono esattamente il contrario. Il movimento non è un dato a priori, ma ciò che viene prodotto dentro un processo di soggettivazione, conflitto e organizzazione. Non esiste in natura, ma si fa.
Non vi è, qui, nessun affidamento alla spontaneità. Il punto è che il problema delle pratiche di lotta – tema evidentemente centrale, in questa fase più che mai negli ultimi anni – non può essere affrontato solo dal punto di vista della creatività degli attivisti. É sempre ciò che appartiene a una composizione di classe storicamente determinata e alle sue forme di soggettivazione. Alle forme, cioè, in cui diviene soggetto politico. Il fatto che gli attivisti siano completamente interni alla composizione del lavoro vivo oggi, non significa che ne siano i rappresentanti. Prendiamo, ad esempio, quella che si è affermata come la principale pratica di lotta degli ultimi mesi, dalla Casbah e Tahrir fino a Puerta del Sol e Zuccotti Park: l’occupazione degli spazi della metropoli. Non è una protesta, non ci sono domande da indirizzare al governo, non vi è nulla di simbolico né ricerca di visibilità rispetto a una supposta opinione pubblica. Migliaia e migliaia di persone occupano non per lanciare un messaggio, semplicemente perché il destinatario non esiste. Occupazione significa allora creazione di un nuovo spazio, un’embrionale forma di produzione metropolitana e di organizzazione della vita in comune. Piazze e rete cessano così di essere lo spazio pubblico sognato da Habermas, per divenire spazio comune: comunicazione e decisione sono unificati dalla potenza costituente della moltitudine. Quando si tolgono le tende non si torna a casa, perché non c’è una casa a cui tornare: si occupano gli ospedali, le scuole, le università, le istituzioni del welfare per strapparle alle mani del pubblico-privato e organizzarle in comune.
Se assumiamo questi presupposti, possiamo affrontare su solide basi materiali il nostro problema. Prendiamo ad esempio quello che emerge come il terreno di lotta centrale, il debito. Il diritto all’insolvenza si sta affermando come una parola d’ordine comune: bene, ma ciò non è sufficiente. Innanzitutto, anche in questo caso, non si tratta di una trovata suggestiva: prima di essere tradotto su volantini e striscioni, il diritto all’insolvenza è la prassi di milioni e milioni di lavoratori precari e impoveriti che, in tutto il mondo, si sottraggono al ricatto di banche e finanziarie spalleggiate dallo Stato per esercitare i bisogni sociali collettivamente conquistati. Ora, il problema è non disincarnare una pratica moltitudinaria. Come contribuiamo a dare forma organizzata al diritto all’insolvenza? Occupare temporaneamente una banca per esporre uno striscione e andare via è legittimo, i media locali sicuramente ne terranno conto per qualche ora, ma proprio per questo è inutile. Come rendiamo la banca una controparte politica della rivendicazione di reddito e nuovo welfare, come trasformiamo il dato di fatto del non ripianamento del debito in una minaccia collettiva, come realizziamo nuove forme di conflitto e vertenzialità autonoma? Ecco il punto. Servono inchiesta e programma, perché non esiste inchiesta militante se non nella costruzione di programma politico. Organizzarsi per il non pagamento e l’autoriduzione degli affitti, delle bollette, delle merci alimentari e culturali, delle tasse universitarie, dei biglietti di bus e treni; rivendicare la moratoria generalizzata per i debiti non pagati e l’accesso al credito senza garanzie per gli studenti, i migranti, i lavoratori impoveriti; impedire l’esecuzione degli sfratti e dei pignoramenti, bloccare concretamente Equitalia e cancellare i documenti che – dagli scaffali e negli archivi software degli ufficiali giudiziari – quotidianamente perseguitano migliaia di precari. Fare tutto ciò non come soggetti separati, ma dentro la diffusione, ambivalenza e frammentarietà delle forme in cui tutto ciò già avviene, per estendere l’insubordinazione, trasformarla in spazio collettivo, organizzarci nel comune.
Insomma, più che declamare la fine della forma-corteo, sarebbe utile ipotizzare cosa inizia. E contribuire a dare a questo qualcosa forma e forza, nella capillarità delle iniziative, nella molteplicità delle espressioni collettive, nell’individuazione dei punti di applicazione della forza. Se nel 2008 gridavamo “noi la crisi non la paghiamo”, ora il compito politico è capire come concretamente smettiamo di pagarla. Al di fuori di questa tensione che ci viene indicata dai movimenti del lavoro vivo, il dibattito sulle pratiche di lotta rischia di scivolare nel cielo della metafisica o negli inferi dell’opportunismo, cose che non sono poi molto diverse.