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La scuola che viene. Note sul laboratorio disciplinare, il controllo sociale e la società della conoscenza

 

di GIROLAMO DE MICHELE

I dati sui tagli alla scuola pubblica non lasciano ombra di dubbio: siamo in presenza del più grande licenziamento di massa della storia della repubblica. Il taglio programmato dal governo è di 85.000 posti di lavoro in tre anni, cioè 25/30.000 posti di lavoro in meno ogni anno: ma i dati reali dicono che la situazione è ben più grave. La prima tranche di tagli attuata lo scorso anno scolastico ha portato alla riduzione di quasi 28.000 posti di lavoro (26.500 tra il personale docente), ai quali vanno aggiunti 14.000 posti a tempo determinato (cioè coperti da precari) tra i docenti, e più di 13.000 tra il personale precario non docente. È presumibile che l’entità dei tagli attuati questo anno scolastico siano di pari entità, come lascia supporre l’iscrizione di ben 42.000 precari “storici” rimasti senza lavoro nelle liste dell’inutile “decreto salva-precari” (che in buona sostanza si traduce nella mera possibilità di riscuotere con qualche mese di anticipo l’indennità di disoccupazione). Per avere un punto di riferimento, basta ricordare che i licenziamenti e i collocamenti in cassa integrazione proposti dalla FIAT nel 1980, che scatenarono la più aspra vertenza sindacale dell’ultimo trentennio, erano 24.000. E che nell’anno scolastico 2009-2010, a fronte dei tagli, gli studenti sono aumentati di 36.700 unità (mentre diminuiscono sia le sedi scolastiche che il numero di aule). Persino i dirigenti scolastici sono diminuiti (meno 500, a fronte di 92 scuole in meno)! Stiamo quindi parlando di un taglio reale che in 3 anni potrebbe riguardare il 10% dei lavoratori della scuola.

A questo taglio selvaggio si aggiungono il blocco della contrattazione, che lascia le retribuzioni bloccate al 2008, e i provvedimenti che incidono sulla situazione pensionistica. Se infatti è vero che sembrano essere spuntati (dai “risparmi di spesa” effettuati) i soldi per ripristinare gli scatti di anzianità, è altrettanto vero che resta inalterato l’effetto giuridico del blocco: per cui gli anni 2010-2013 non saranno validi al fine del conteggio dell’età pensionistica. E la trasformazione, passata quasi sotto silenzio, del TFS in TFR a partire dall’agosto 2010 decurta ulteriormente le future pensioni, perché viene a mancare la rivalutazione del 3% che caratterizzava il TFS: in altri termini, è stata attuata nel pubblico impiego – e dunque nel settore dell’istruzione – una nuova riforma delle pensioni («senza un solo giorno di sciopero»).

Ma non è finita. I tagli agli enti locali, e l’obbligo di esternalizzazione dei servizi, colpiscono ulteriormente l’istruzione, dal momento che gli enti locali si fanno carico di una quota rilevante del bilancio delle scuole (circa il 20%): l’esternalizzazione, ad esempio, ha comportato tagli tra i lavoratori delle mense scolastiche, spesso appaltate a cooperative ed associazioni private.

Era quindi presumibile che questa macelleria sociale suscitasse proteste diffuse. Ed è per questo che una stretta autoritaria si è abbattuta, in forme a volte esplicite, a volte subdole, sul mondo della scuola. Lo scopo è di imporre il bavaglio ai lavoratori dell’istruzione, incidendo in modo esplicito su quei diritti tutelati dallo Statuto dei Lavoratori. È cosa nota che il Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico dell’Emilia-Romagna, Marcello Limina, ha emanato il 27 aprile 2010 una circolare riservata (n. 489/ris.) nella quale si intimava ai dirigenti scolastici di garantire l’astensione dei lavoratori della scuola da «dichiarazioni pubbliche che vanno a detrimento dell’immagine dell’amministrazione», facendosi forte dell’art. 11 del Codice di comportamento dei pubblici dipendenti. Peccato che, con l’inserzione di corsivi e virgolette, il dottor Limina cerchi di far passare la prima parte dell’articolo stesso – «Fatto salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini» – come una generica dichiarazione di principio, e non come un preciso limite (dunque un diritto) al seguente obbligo (cioè un divieto). Pochi hanno però notato che la circolare riservata del dott. Limina corrisponde nei contenuti ad una precedente, pubblica (e più curata nella forma e nell’argomentazione giuridica) circolare dell’Ufficio Scolastico della Regione Veneto (6 novembre 2008), a firma del Direttore generale Carmela Palumbo, nella quale si indicava una linea interpretativa che si è tacitamente generalizzata nelle scuole: il diritto di espressione è confinato «in diversi contesti» (assemblee sindacali e simili), che vanno tenuti distinti dagli organi collegiali, e in particolare dal Collegio Docenti, che «possono deliberare solo in quelle materie di pertinenza e per il raggiungimento di quegli obiettivi connaturati alla funzione loro propria». In altri termini, gli organi collegiali possono solo deliberare, non valutare né esprimere giudizi. Ai dirigenti scolastici è affidato il compito di provvedere in tal senso. In punta di diritto, è degno di nota che il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione (DL 297/94), all’art. 7 comma 2 a)., stabilisce che il Collegio Docenti «cura la programmazione dell’azione educativa» ed «esercita tale potere nel rispetto della libertà di insegnamento garantita a ciascun docente», e dopo un elenco no esaustivo di competenze specifiche riafferma, al punto r)., che il Collegio «si pronuncia su ogni altro argomento attribuito dal presente testo unico, dalle leggi e dai regolamenti, alla sua competenza»: e dunque non si vede come esprimere valutazioni sul merito dell’azione educativa possa essere oggetto di sanzione. Nondimeno, la linea interpretativa Gelmini-Palumbo-Limina è stata sistematicamente attuata in molte scuole dall’inizio dell’anno scolastico, impedendo agli organi collegiali, cioè alle scuole in quanto tali, di esprimersi sulla distruzione in atto dell’istruzione pubblica: i luoghi della scuola sono stati dunque classificati in zone rosse, nelle quali è vietato pensare, e in zone gialle dove, stante l’evidente subordinazione, è ammessa un’attività di discussione e delibera che non trova altro spazio che le lettere di protesta ai giornali, dal momento che anche la diffusione di pareri e opinioni attraverso «documenti o comunicati diretti agli studenti, alle famiglie o ad altri soggetti» è, secondo la circolare-Limina, soggetto a limitazione.

Questa stretta disciplinare ha una precisa sponda giuridica, che eleva la scuola a vero e proprio laboratorio delle conseguenze implicite della legge 30/03 (primo firmatario Maroni) che ha ufficializzato la fuoriuscita del mondo del lavoro dalle garanzie costituzionali. Nel tacito silenzio degli organi di stampa (salvo quelli specializzati), e in controtendenza all’intero settore del pubblico impiego sottoposto a un forzoso blocco triennale della contrattazione, ai dirigenti scolastici è stato rinnovato il contratto di lavoro. Sarà una coincidenza, ma i tempi di questo rinnovo coincidono con l’attuazione del cosiddetto Decreto-Brunetta (in parte recepito dallo stesso contratto dei dirigenti scolastici) attraverso una circolare sulle sanzioni disciplinari (n. 88 dell’8 novembre 2010) che appare regressiva, e non sempre fondata, rispetto allo stesso decreto del 31 ottobre 2009. In sostanza aumenta il potere discrezionale del dirigente in misura proporzionale alla diminuzione della sua autonomia rispetto ai suoi superiori gerarchici; aumenta la casistica dei comportamenti soggetti a provvedimento disciplinare; e si introducono le premesse per il licenziamento dei lavoratori della scuola in seguito ad una “valutazione di insufficiente rendimento”, facendo riferimento ad una procedura che non esiste nel comparto scuola. Particolare inquietudine suscita la constatazione che, in seguito a trattativa sindacale, la posizione dei docenti è stata parzialmente tutelata col riferimento all’articolo 512 del Testo Unico sulla scuola, mentre resta priva di questa tutela la posizione del personale non-docente. Particolare curioso, le sanzioni economiche previste per i dirigenti scolastici agli artt. 15 e 16 del nuovo CCNL coincidono in modo quasi esatto con l’ammontare degli aumenti percepiti col nuovo contratto di lavoro: la sanzione economica massima di 350 euro è equivalente all’aumento mensile lordo, mentre il valore economico della sospensione del servizio per tre mesi coincide di fatto con l’ammontare degli arretrati pagato pronta cassa tra agosto e settembre.

È del tutto evidente che questi provvedimenti mirano a realizzare un clima disciplinare che reintroduce una visione della scuola come luogo apolitico e acritico («a scuola non si fa politica: chi vuol fare politica si candidi alle elezioni», dichiara il ministro Gelmini), all’interno di un processo di fascistizzazione della scuola  e della società. Un processo che ha come obiettivo non la reintroduzione istituzionale o giuridica del regime fascista: piuttosto, la progressiva inserzione, all’interno di istituzioni formalmente democratiche, di elementi caratterizzanti del fascismo, che permanevano nel mondo del lavoro e dell’istruzione negli anno Cinquanta. Il tentativo di Marchionne di forzare la mano sul piano dei rapporti di produzione a Pomigliano è emblematico tanto quanto la stretta autoritaria che cerca di riportare il mondo della scuola ad una esplicita dimensione pre-Sessantotto; il manifesto ideologico di Tremonti contro le leggi sulla sicurezza sul lavoro che «non ci possiamo più permettere» trova nella scuole un laboratorio di sperimentazione, grazie alle circolari di Gelmini sul numero degli alunni per classe, con conseguenti accorpamenti, tagli di cattedre, formazione di classi-pollaio, e sospensione di fatto delle norme previste dalla 626/94. In questo modo la crisi diviene il pretesto per una radicale, e preventiva, ristrutturazione sociale, nel momento in cui il dispiegarsi delle potenzialità insite nella società della conoscenza rischia di allargare le maglie del controllo sociale.

Per comprendere appieno la portata di questi processi basta leggere quanto previsto da uno degli scenari della ricerca What School for the Future (2001) che ho tradotto nel mio La scuola è di tutti (pp. 177-183). Si tratta di uno scenario definito “meltdown”, che prevede il progressivo avvitamento del sistema scolastico pubblico causato dall’interazione di: (a) una crisi di identità del corpo docente; (b) una crescente difficoltà di reclutare personale motivato a causa del peggioramento delle condizioni di lavoro; (c) la creazione di ampie differenze tra le diverse aree del paese. «Accade così che vengano progressivamente erose le relazioni contrattuali e lavorative finora garantite dai contratti di lavoro e dalle organizzazioni sindacali. In questo scenario, caratterizzato anche da un clima culturale di crescente conflittualità, si allargano sempre più le disuguaglianze tra aree e gruppi sociali; le famiglie residenti nelle aree più disagiate si orientano verso le alternative private, desertificando il sistema pubblico; nella società declina il senso di solidarietà e si generalizzano le risposte di tipo protezionistico. Sul breve periodo questa crisi rafforza il potere delle autorità politiche nazionali, mentre sul lungo periodo la crisi resta senza soluzioni. Il senso della crisi si acuisce nelle aree più depresse, mentre le comunità locali dotate di migliori sistemi educativi “cercano di proteggersi e di estendere la propria autonomia dall’autorità nazionale”. Si intensifica, infine, l’interesse privato nel mercato dell’istruzione» (p. 180).

Uno scenario che, nell’arco del decennio trascorso dalla sua pubblicazione, ha smesso di essere, quantomeno nel nostro paese, una ipotesi teorica e si sta configurando come una reale possibilità. È vero che questo scenario contrasta con le potenzialità – anche dal punto di vista del capitale globale – offerte dalla possibilità di tradurre in forme immediate la conoscenza in valore, e potrebbe apparire miope da un punto di vista banalmente riformista o keynesiano. Ma è altrettanto vero che il profitto è una delle due gambe sulle quale poggia il sistema capitalistico di organizzazione delle merci e degli uomini: l’altra è quella del controllo sociale, che storicamente è stata privilegiata dal “capitalismo pigro” italiano. E un sistema di istruzione e conoscenza a bassa intensità consente una più forte presa su quei settori “fordisti” del lavoro – dall’edilizia alla piccola e media impresa, ai servizi – che tutt’ora esistono, e che sono sottoposti a fibrillazione sociale per effetto dell’ingresso di nuove soggettività, in buona parte (ma non solo) migranti, o derivanti dall’incrocio tra la crisi e la tradizionale rigidità sociale che caratterizza la nostra società: soggettività, precari, migranti e figli di migranti per le quali sarebbe pericoloso acquisire strumenti critici di conoscenza. Tanto quanto lo era, ai tempi di don Milani, insegnare ai figli dei contadini a leggere il contratto nazionale dei metalmeccanici.

Questa è la posta in palio: e davvero nessuno può dire di non sapere.

Questa è, per noi, la battaglia da combattere: con ogni mezzo necessario.

Link:

Circolare Limina
http://3.flcgil.stgy.it/files/pdf/20100521/nota-usr-emilia-romagna-4730981.pdf

Circolare Palumbo
http://www.istruzioneveneto.it/uploads/File/Ruolo_e_competenze_organi_scolastici.pdf

Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione (DL 297/94)
http://www.edscuola.it/archivio/norme/decreti/dlvo297_94.html

Codice di comportamento dei pubblici dipendenti
http://www.dirittoeconomia.it/codice_di_comportamento_dei_dipe.htm

Circolare Ministeriale 88/2010
http://www.edscuola.eu/wordpress/?p=4651

 

 

 

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