Appunti su razza e meridione
di CATERINA MIELE
Primo e principale obiettivo di questo intervento è “nominare” la razza risalendo alle cause della sua “forclusione”[1] nell’Italia contemporanea. Il diniego del razzismo che caratterizza il nostro Paese e di cui sono manifestazioni evidenti la diffusione e resistenza del mito dell’italiano non xenofobo e la rimozione del passato coloniale è qui visto come risultato di retoriche discorsive radicate nella storia, nelle articolazioni, continuità e discontinuità tra l’incontro etnografico proprio dell’età coloniale e quello contemporaneo conseguenza dei flussi migratori internazionali.
In secondo luogo, si intende contribuire a “de-provincializzare l’Italia”[2], ricostruendo le tappe lungo le quali la storia dell’Italia si inserisce nella vicenda dell’espansione del capitalismo coloniale, per comprendere le modalità in cui il Paese partecipa a questa vicenda e a quella, strettamente interconnessa, della nascita ed evoluzione di un’idea moderna di razza associata all’inclusione differenziale di alcuni soggetti nel processo di produzione e nel mercato del lavoro globale.
Terzo e ultimo obiettivo è dimostrare che, se la storia italiana si integra a pieno titolo nella comune storia europea di crimini e violenza razziale che a partire dalla scoperta dell’America vede l’Occidente elaborare e perfezionare virulente prassi discorsive e politiche di costruzione della differenza finalizzate all’inferiorizzazione, al controllo e al dominio delle classi sociali subalterne[3], è pur vero che le discontinuità del processo di modernizzazione capitalista e i diversi modi e tempi in cui ciascuno Stato ne fece esperienza, determinarono di volta in volta specificità nazionali nelle rappresentazioni culturali della razza, come discorso agito e subito. La mia ipotesi è che, rispetto ad altre realtà del contesto europeo, le radici delle peculiari forme della razzializzazione nella storia italiana vadano ricercate in tre nodi problematici quali il processo di unificazione, la grande emigrazione, l’età coloniale e il modo in cui questi tre eventi si intrecciarono, in particolare nella contiguità tra emigrazione e colonizzazione; nella coevità del processo di unificazione nazionale con l’epoca di massimo sviluppo delle dottrine positiviste e biologiste sulla razza, infine nella strutturalità del razzismo antimeridionale come controcanto del discorso sulla modernizzazione.
La razza nella storia d’Italia: dall’unità alla grande emigrazione
Quando, dopo la scoperta dell’America, le maggiori dinastie europee iniziarono ad imporre la propria presenza al di là dell’Atlantico e nelle Indie orientali, prima con l’invio di mercanti e missionari, poi con l’edificazione di veri e propri imperi, nel quadro di una economia globale che si fondava sulla sottomissione dei popoli indigeni delle Americhe e sulla schiavitù delle popolazioni africane, in quella stessa epoca l’Italia diventava “un possedimento minore degli imperi mondiali della Spagna e della Francia” prima, dell’Impero austroungarico poi, divenendo “l’equivalente austriaco delle colonie olandesi e britanniche delle Indie”. Lo slittamento del centro del potere economico e politico dal Mediterraneo agli Imperi d’Oltremare di fatto determinò per il Paese una condizione geopolitica simile a quella delle colonie del Nuovo Mondo[4].
L’iniziale divergenza dal quadro internazionale non precluse al Paese l’assunzione di un ruolo di primo piano nell’avventura coloniale: l’Italia recuperò il tempo perduto nella costruzione di una cultura coloniale che procedeva in maniera parallela all’elaborazione di un’identità nazionale, all’interno della trasformazione capitalistica europea e di un’economia sempre più mondializzata. Sul nesso tra cultura coloniale e costruzione dell’identità nazionale l’Italia seguì la scia delle altre potenze, in tempi differenti ma recuperando il ritardo con una particolare accentuazione che deve farci considerare “il caso italiano alla stregua di una variante del colonialismo europeo, una formazione specifica e non un esempio arretrato o difettivo” [5].
Come osservarono W. E. B. Du Bois e Aimé Césaire, i fascismi europei e l’Olocausto rappresentarono l’importazione per la prima volta nel territorio metropolitano europeo di pratiche già operate da decenni in colonia, nonché del dispositivo che quelle pratiche sosteneva e rendeva possibili, quello che per Hannah Arendt, assieme alla burocrazia, rendeva il sistema coloniale unico nelle sue possibilità di soggezione, ossia il dispositivo di razza inteso come “spiegazione d’emergenza con cui gli europei reagirono all’incontro con esseri umani che essi non potevano comprendere e neppure erano disposti a riconoscere come uomini, come propri simili”[6]. Tale percorso unilineare che passa dalle politiche di genocidio e segregazione razziale in colonia a quelle di simile tenore praticate all’interno dei Paesi europei durante l’ascesa del nazifascismo fu sostanzialmente invertito nella storia italiana: a costo di un’eccessiva semplificazione, si può sostenere che in Italia le pratiche genocidarie e etnocidarie furono sperimentate in primo luogo in patria con la repressione del brigantaggio e solo a distanza di pochi decenni nel teatro coloniale. Con un’analisi meno schematica, si può dire che il dispositivo di razza servì prima di tutto all’inferiorizzazione dell’alterità interna (del meridionale, del brigante), cui seguì quella dei popoli coloniali, poi degli ebrei, per tornare poi ad operare ancora in colonia. Non di percorsi lineari si trattò dunque, bensì di circolazione di discorsi e pratiche che trovarono applicazione su diversi scenari e che seguirono i sentieri lungo i quali la storia del paese si incuneò nella vicenda del capitalismo globale.
La questione meridionale nasce con l’unificazione: se prima i discorsi sulle plebi meridionali partivano per lo più dall’analisi delle località e del folklore, dopo il 1861 lo studio delle particolarità locali cede il passo ad una progressiva semplificazione che vede studiosi e osservatori recidere con un taglio netto l’Italia del Nord da quella del Sud, descrivendo le cause di tale distinzione con accenti diversi che vanno dal paternalismo delle inchieste sociologiche sul degrado del sud al determinismo biologista dell’antropologia criminale di marca lombrosiana. Immediatamente successiva alla guerra al brigantaggio (1861-1869), negli anni ’70 la letteratura meridionalista liberale (di stampo conservatore e illuminista) di Villari, Franchetti, Sonnino, Colajanni, Fortunato e Salvemini, delinea i punti focali della questione meridionale, descrivendo la prostrazione economica, sociale e culturale delle province meridionali all’indomani dell’Unità, l’analfabetismo, la denutrizione, la diffusione della malaria, individuandone le cause nello sfruttamento di queste popolazioni ad opera dei ceti dominanti, latifondisti meridionali e borghesia settentrionale protagonisti del governo della destra storica. Di poco successiva a tale produzione letteraria e sociologica, che fonda in un certo modo il solco epistemologico che separa il mezzogiorno dal resto del Paese, succede la costruzione del meridionale ad opera dell’antropologia positivista ottocentesca. Nel 1876 Lombroso pubblica L’Uomo delinquente studiato in rapporto all’Antropologia, alla Medicina legale e alle discipline carcerarie in cui presenta la teoria del delinquente nato, riconducendo fenomeni come il brigantaggio meridionale, la mafia e la camorra a motivazioni biologiche, fattori ereditari e caratteri atavici delle popolazioni. Nel 1898, nello stesso anno in cui viene ripubblicato il saggio di Lombroso, esce L’Italia barbara contemporanea di Alfredo Niceforo nel quale il giovane studioso organizza in maniera sistematica una serie di indagini prodotte in precedenza per segnalare la diversità di razze presenti nelle due Italie: “Alfredo Niceforo si assume il compito di sostenere con linguaggio diretto posizioni che appartenevano a un sentire abbastanza diffuso tra gli studiosi e che, venivano espresse soltanto in privato”[7].
L’antropologia e la psichiatria[8] contribuirono in maniera determinante alla costruzione della razza meridionale e alla diffusione di un approccio razziale alle manifestazioni di malcontento contadino: “I settentrionali prevalenti nel nuovo governo vedevano i disordini contadini attraverso la lente distorta dell’anticlericalismo, dell’entusiasmo per la missione civilizzatrice di una secolare civiltà italiana e della nuova scienza, il darwinismo sociale. Di fronte all’opposizione cattolica e allo scontento contadino, essi condannavano i contadini come esponenti criminali di un popolo di razza inferiore che preferiva la superstizione religiosa alla civiltà italiana”[9]. L’antropologia positivista in particolare tradusse discorsi e pratiche di alterizzazione delle classi subalterne meridionali – come la costruzione della figura del brigante quale temibile nemico interno – le cui radici affondavano nei primissimi anni postunitari.
Un ulteriore elemento della storia post-unitaria il cui ruolo è spesso sottovalutato nella genealogia dei processi di razzializzazione nel nostro Paese è l’esperienza altamente ambivalente della grande emigrazione, solitamente considerata come un evento che forgiò un’identità nazionale non raggiungibile in patria. Meno frequentemente si considera che in alcuni casi si trattò di un processo che accentuò piuttosto che diminuire le precedenti divisioni. Nel cinquantennio della grande emigrazione (1870 – 1920) diverse furono le esperienze migratorie degli italiani e ciascuna di esse furono insieme determinate e determinanti rispetto ai processi di razzializzazione dell’epoca post-unitaria e al differenziale inserimento nel mercato del lavoro degli emigranti italiani.
Se gli emigranti italiani furono oggetto di discriminazione etnica nei paesi di accoglienza, è significativo ad esempio che fu quel processo di autorazzializzazione, proprio della seconda metà dell’Ottocento, a forgiare l’idea dell’italianità sul piano internazionale e a costituire il fondamento dell’integrazione differenziale nel mercato del lavoro globale degli emigranti. Nell’emigrazione dei primi decenni del Novecento dal meridione d’Italia verso l’America settentrionale, la distinzione tra italiani del Nord e italiani del Sud operata nel porto di Ellis Island riprendeva, significativamente, quella teorizzata da Alfredo Niceforo.
Ancor prima di questo modello emigratorio, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento i flussi più consistenti seguivano una diversa direttrice, dal Nord Italia verso l’America del Sud. In questo caso (per lo più rimosso dalla memoria collettiva dell’emigrazione) gli emigranti italiani esperirono modelli insediativi che si potrebbero definire proto-coloniali e furono non solo oggetto ma anche attori di processi di razzializzazione ai danni delle popolazioni native. Nelle regioni dell’America Latina, gli immigrati europei erano utilizzati come “patrimonio tecnico e produttivo” necessario per il processo di modernizzazione, come strumento di selezione etnica, per rendere, cioè, più bianca una popolazione “mista” e, nelle aree di confine, per respingere verso le zone più interne e inaccessibili gli indigeni, la cui presenza impediva il pieno sfruttamento del territorio. In Brasile, ad esempio, dopo l’abolizione della schiavitù nel 1888, gli italiani furono impiegati nei progetti di colonizzazione guidati dalle compagnie private o dal governo, nelle zone di frontiera lontane dai centri urbani e ancora controllate dalle popolazioni native. È degno di nota il rapporto che essi instaurarono con le popolazioni indigene nei cui territori s’insediarono: nei loro confronti gli italiani (insieme ai tedeschi e ai polacchi che li avevano preceduti, al governo portoghese e alle compagnie di colonizzazione) adottarono presto immaginari e pratiche propriamente coloniali, come la distinzione dei “selvaggi” (cioè renitenti alla “civilizzazione” e “pacificazione” europea) dai “civilizzati” o “mansueti”, quelli che offrivano, più o meno coattamente, la loro opera al servizio delle colonie. Ma la violenza razziale si esplicitava anche in atti ben più concreti, ossia in vere e proprie battute di caccia all’indigeno (alcuni coloni italiani sono rimasti famosi per l’efferatezza e per i loro “successi” nella caccia all’indios). La stessa Chiesa concorse in qualche modo a tali pratiche genocide offrendo sostegno morale e materiale agli emigranti contro i “selvaggi”[10].
L’esperienza migratoria nell’America del Sud, caratterizzata da una forte violenza razziale nei confronti degli indigeni, fu alla base dell’elaborazione in madrepatria di una sorta di “mito della frontiera” e di un radicale cambiamento di prospettiva sull’emigrazione. Ancora agli inizi del Novecento, nella letteratura italiana l’emigrazione era considerata un “evento luttuoso” (prospettiva che traeva origine dalle posizioni antiemigrazioniste dei ceti agrari che temevano lo spopolamento delle campagne e dalla “componente antropologica” del mondo contadino, protagonista dell’emigrazione)[11]. Negli stessi anni in cui si consuma il passaggio dal liberalismo postrisorgimentale al nazionalismo e in cui i principali paesi di emigrazione emanano leggi di regolamentazione o blocco dell’immigrazione, gli emigranti diventano “italiani all’estero”, termine poi fatto proprio dal fascismo, e l’emigrazione diviene oggetto di pratiche discorsive, analisi scientifica e regolamentazione amministrativa. All’interno delle classi di governo si diffonde il mito della frontiera e del pionierismo che confluiranno poi nel vero e proprio discorso coloniale fondato sulla retorica della fertilità delle terre coloniali, che si volevano vaste, deserte, selvagge e incolte, e sull’idea della superiorità razziale degli italiani, capaci di trasformarle in “giardini” e “colonie fiorenti”. Si insisteva sull’idea che l’obiettivo del colonialismo italiano fosse conquistare nuove terre per le masse rurali diseredate del paese, che l’emigrazione, intesa come esportazione della forza lavoro bianca, potesse divenire la via italiana all’espansione, che il problema demografico potesse trasformarsi nella soluzione demografica, forma di risoluzione culturale al problema del sottosviluppo e dell’arretratezza. Nella cultura borghese italiana di inizio secolo, in molti convergono sull’idea che l’emigrazione avrebbe favorito e accelerato l’ascesa dell’Italia all’esiguo gruppo delle nazioni egemoni capaci di assicurarsi il pieno dominio e sviluppo delle forme più avanzate della produzione capitalistica: perché risultasse fruttuoso al paese, il fenomeno andava però guidato. La regolamentazione del lavoro e la sua rappresentazione culturale è il cardine attorno al quale si costruisce l’identità razziale dell’Italia del primo Novecento. Per contrapporre il lavoro italiano (la mano d’opera bianca), “moderno”, salariato, organizzato, irreggimentato, efficiente a quello dei popoli “non civilizzati” si rendeva necessario l’intervento dello Stato e una presa di coscienza di tutti gli italiani sul problema delle colonie naturali.
In questa fase estremamente critica della storia nazionale, il problema demografico, dunque, si fonde con il tema della modernizzazione del paese, dell’unificazione nazionale e con la necessità di prendere parte alla gara coloniale. Non si comprende il colonialismo italiano senza fare riferimento al nazionalismo, così come non si può capire quest’ultimo senza ricondurlo alla tensione per il processo di sviluppo che avrebbe portato il paese nella modernità capitalistica. Nei primi decenni del secolo, nell’immaginario italiano sull’emigrazione, vista come esportazione della modernità e del progresso tra popoli che ne erano esclusi, si esorcizzavano le tensioni legate ad un ritardato sviluppo. Le concezioni fasciste della supremazia della razza furono, come è evidente, fortemente debitrici di questa connessione concettuale tra identità nazionale ed emigrazione, potenza nazionale e lavoro irreggimentato.
La razza nell’età coloniale
Quando l’Italia comincia la sua avventura coloniale, i processi di razzializzazione interna ed esterna alla metropoli erano dunque già arrivati ad una buona fase di elaborazione. Il colonialismo italiano, si è detto, seppure iniziato in ritardo, non fu secondo a nessuno in quanto a violenza. La violenza e l’istituzionalizzazione della linea del colore furono inequivocabili strumenti della dominazione coloniale italiana. Violenza prima di tutto materiale, come attestano episodi non ancora del tutto noti benché particolarmente efferati: la presa di Tripoli, realizzata con il triste primato del primo bombardamento aereo della storia operato dall’aviazione italiana; l’utilizzo, in Etiopia, di armi chimiche messe al bando dal Protocollo di Ginevra; il “genocidio” delle popolazioni cirenaiche nella feroce repressione della resistenza anticoloniale guidata dal senusso Omar al Mukhtar, le sommarie esecuzioni che seguivano le campagne di “pacificazione” in colonia. Violenza epistemologica, in secondo luogo, implicita in quella tensione comparativa, classificatoria e gerarchizzante dei tipi umani che fu propria del positivismo novecentesco. La scuola di antropologia criminale di Cesare Lombroso e la scienza sociale italiana del primo Novecento contribuirono a fare del razzismo il principio fondante della legittimazione delle conquiste territoriali, della rapina coloniale e dell’asservimento delle popolazioni da parte dell’imperialismo capitalista, oltrepassando di gran lunga la relazione di connivenza con il potere coloniale che caratterizza gli albori delle scienze sociali. In nessun altro paese l’antropologia diede un contributo comparabile a quello delle tesi di Lidio Cipriani (autore di un articolo significativamente intitolato L’antropologia in difesa dell’Impero, apparso sul “Corriere della Sera” il 16 giugno 1936) all’istituzionalizzazione di un sistema di potere coloniale fondato sulla segregazione razziale.
In colonia, le teorie sull’inferiorità dei “meridionali”, si intrecciano all’istituzione della linea del colore. La questione meridionale venne esorcizzata nelle politiche razziali dell’Impero[12], pur continuando ad interferire nell’elaborazione nazionale di discorsi sulla razza. L’ambivalente combinazione di alterità coloniale e alterità interna venne riarticolata con la proclamazione delle cosiddette leggi razziali. Uno degli articoli del Manifesto della razza del 1938 recita: “È necessario fare una netta distinzione fra i mediterranei d’Europa (occidentali) da una parte e gli orientali e gli africani dall’altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili”. Nelle leggi razziali le due correnti del razzismo fascista, coloniale e antisemita, e le procedure di inferiorizzazione di rom, slavi, omosessuali e disabili, si fusero in un costrutto ideologico coerente il cui fine era la persecuzione e segregazione della categorie razzializzate da un lato, la tutela del corpo sociale della nazione italiana, dall’altro. Protonatalismo, igienismo ed altre misure di “tutela” della razza bianca si iscrivevano nella “presa in carico della vita da parte del potere” di quella parte della popolazione i cui processi vitali il potere stesso ambiva a gestire e potenziare. Tali dispositivi biopolitici marcavano la distinzione tra le categorie razzializzate e quella parte della corpo sociale cui era riconosciuto il “diritto di vivere”[13]. Il razzismo di Stato e le diverse forme che assunse la peculiare “statalizzazione del biologico”[14] del fascismo miravano alla creazione di un senso di solidarietà interclassista fondato sull’identità razziale e al controllo della conflittualità sociale in un momento critico come quello che attraversava il paese all’alba del nuovo conflitto mondiale.
I primi effetti dell’accelerazione in senso razzista del regime riguardarono proprio la scena coloniale: nel 1937 viene proibito il madamato (mabruchismo in Libia), ovvero la convivenza e la relazione affettiva fra un italiano e una donna indigena; furono adottate misure atte ad impedire la nascita dei “meticci”; si impose ai bianchi per “ragioni di ordine pubblico e di igiene” di risiedere in quartieri diversi da quelli indigeni e si adottarono altre misure che imponevano la separazione delle razze nelle attività sociali, educative, sportive e ricreative (come le sale cinematografiche riservate a bianchi o indigeni). Dopo l’adozione, nel 1938, di una serie di provvedimenti persecutori e discriminatori nei confronti degli ebrei, l’acme dei provvedimenti razziali venne raggiunto ancora nelle colonie africane, nel 1939 con l’introduzione di una nuova figura di reato, quella di “lesione del prestigio di razza”, che colpiva chiunque, bianco o indigeno, agisse in modo da sminuire o ledere quello della razza “dominatrice”.
Già in epoca liberale le differenziazioni di natura culturale o biologica costituivano la base stessa del diritto coloniale italiano, fondato sulla ricomparsa dello Jus singulare, ossia di un diritto fondato sul privilegio di pochi, la cui caratteristica era appunto l’eccezionalità delle sue disposizioni rispetto alle regole dell’ordinamento positivo. Nei confronti delle popolazioni indigene veniva esercitato un diffuso potere regolamentare, “un diritto d’eccezione permanente”[15].
Vorrei qui fornire alcuni esempi del modo in cui il diritto coloniale riformulava discorsi rivolti alle “plebi” meridionali agendo all’incrocio dei dispositivi di razza e burocrazia.
Nel progetto di codice penale eritreo nel giudicare i reati commessi da indigeni, i magistrati italiani in Africa ritennero di dover tenere conto nella decisione della pena di “una particolare situazione oggettiva che influiva sulla loro imputabilità” e che era “intrinseca all’agente perché strettamente connessa con le condizioni specialissime di soggettività morale del giudicabile” ovvero la “sopravvivenza negli indigeni di manifestazioni proprie dell’infantilismo etnico”. In colonia, aggravanti e attenuanti della pena dovevano essere stabilite in considerazione dello stadio inferiore nel processo di civilizzazione in cui si trovava l’indigeno. Il crimine dell’indigeno era il risultato di “cause etniche oggettive”, di incoscienza e barbarie. Simili convinzioni di ordine razziale furono alla base di norme e prassi giuridiche che prefiguravano un netto regresso rispetto all’ordinamento giuridico italiano e al codice Zanardelli del 1889, come la reintroduzione della pena di morte per i sudditi coloniali, il ritorno all’indeterminatezza della pena, a misure punitive quali la fustigazione, la relegazione o il lavoro coatto negli stabilimenti penali[16]. Come il diritto coloniale ricordava il modo in cui erano immaginati i meridionali, razza inferiore e degenerata e quindi caratterizzata da strutture biologiche che lo inducevano al crimine, così le pratiche di repressione delle rivolte coloniali furono forgiate sul modello della lotta al brigantaggio meridionale. Le sentenze nei tribunali di guerra in Libia durante la rivolta araba negli anni 1914-1915, fondate sul mero presupposto di colpevolezza, sono emblematiche di un “metodo di gestione dell’ordine coloniale che segue una linea di continuità dalla legge Pica del 1863 e dalla repressione dei reati di brigantaggio, alla tutela dell’ordine pubblico attraverso il ricorso agli stati di assedio ed alla giustizia militare di fine Ottocento, per poi essere sperimentata con caratteristiche proprie anche nei confronti dei colonizzati”[17].
Nel tracciare connessioni e articolazione tra la razzializzazione del meridione e quella delle popolazioni colonizzate e nel riconoscere gli echi delle teorie antropologiche che accomunavano le “plebi” meridionali con quelle nordafricane bisogna considerare, poi, quanto i bianchi poveri in colonia fossero avvertiti come una minaccia. Nel Discorso di Trieste, pronunciato il 18 settembre 1937, lo stesso Mussolini sottolineò quanto il problema razziale fosse in relazione con la conquista dell’Impero, che andava conquistato con le armi e tenuto con il prestigio, ossia con chiara coscienza razziale che stabilisse “non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime”. L’edificazione dell’Impero aveva reso urgente la politica razziale, poiché le emigrazioni dalla madrepatria non facevano che aumentare le possibilità di “contagio razziale”, che era di ordine biologico, ma anche di ordine spirituale. Il rischio non si poneva tanto sul piano militare delle ribellioni armate, ma dalle “insidie dell’isolamento” e del contatto quotidiano con le popolazioni dominate che rischiava di recidere il legame spirituale e culturale con la madrepatria, di rendere più scottante il pericolo dell’”Insabbiamento”, termine con cui nel gergo coloniale si descriveva “il progressivo spegnersi delle idee e delle forme di vita che il colono ha portato con sé da oltremare e il graduale subentrare di concezioni e di abitudini indigene”. La possibile degenerazione della razza andava evitata non solo vietando il contatto fisico e il “meticciamento”, ma anche sul “terreno spirituale”, del contatto culturale[18]. La commistione di argomenti biologici e culturali nella definizione della gerarchia razziale e nell’immaginazione della colonia esplicitava le problematiche del colonialismo di popolamento, aggravate nel caso italiano dalla diffusione in madrepatria della frattura su base razziale Nord/Sud che reiterava, nel quadro postunitario, la differenziazione tra masse rurali contadine, simbolo di arretratezza, e abitanti delle città. La natura polimorfa del razzismo italiano, in cui si fondevano una componente biologista (rappresentata da quelli che, come Cipriani, intravedevano un rapporto di interdipendenza irreversibile tra caratteri somatici e sviluppo mentale) e un determinismo non biologico (che superava il problema dell’eterogeneità fisica delle popolazioni della penisola per esaltarne la superiorità nella retorica nazionale dei miti imperiali)[19] nasce dall’intersecarsi di quelle diverse direttrici della linea del colore[20].
Alcune riflessioni conclusive
Leggere la pratiche di razzializzazione nel nostro paese, a partire dall’analisi del modo in cui esso fece esperienza della modernità, in un’ottica transnazionale, significa anche rileggere l’area mediterranea, considerata margine dell’Europa, intravedendone piuttosto la centralità, propria di tutte le frontiere che, come ha osservato Etienne Balibar, costituiscono laboratori politici in cui si sperimentano nuovi processi di soggettivazione.
Leggere le pratiche di costruzione della razza e analizzare la circolazione di discorsi intorno a questo dispositivo di costruzione dell’inferiorizzazione e gerarchizzazione dei gruppi umani significa anche ripensare la mappa dei sud e intravedere le molte ambivalenze del processo di modernizzazione. Tra il XIX e il XX secolo, il “ritardo” italiano, la sua condizione di arretratezza, nel quadro della gara coloniale come in quello dell’espansione del capitalismo mondiale, influirono sul suo peculiare percorso di elaborazione dell’idea di razza, parallelamente alla costruzione di una precipua idea di modernità e progresso. Nell’incontro coloniale furono proiettati discorsi e pratiche di cui furono oggetto per primi emigranti e classi meridionali, e la storia dell’Italia fu iscritta, dalle sue stesse classi dirigenti, all’interno di quella che lo storico Dipesh Chakrabarty definisce “una narrazione della transizione” in cui la condizione del paese veniva letta nei termini di una “mancanza” o “inadeguatezza” e il soggetto nazionale appariva sdoppiato tra élite modernizzanti e masse rurali premoderne. L’Impero fascista raccoglieva l’eredità del dibattito e dell’humus politico-culturale italiano degli inizi del Novecento i cui echi si riversavano nel discorso coloniale italiano.
Un’altra riflessione che deriva dall’analisi svolta è che non è mai esistita, in senso puro, un’idea di razza esclusivamente in senso biologico. Nemmeno nel momento di massimo sviluppo del determinismo positivista, le idee della razza in madrepatria e colonia sono state scevre da una forma di “culturalismo” con cui si superava l’immagine della frattura razziale interna e si evidenziava il tema dell’esportazione del “lavoro bianco” come strumento di civilizzazione. Sarebbe interessante, in via di un’attualizzazione dell’analisi, comprendere come questo si declini oggi, nei più recenti scenari di guerra di cui l’Italia è stata protagonista, nella figura del soldato meridionale con la stessa propensione al sacrificio e al lavoro umile e quotidiano quale “fardello” specificamente nazionale di una nuova “missione di civiltà”.
Infine, parlare di mediterraneo postcoloniale significa riflettere sulla continuità delle forme di dominio coloniale (discorsi e pratiche), dei suoi effetti di epidermizzazione della differenza per seguire Frantz Fanon, ma anche delle forme di resistenza come delle continuità del razzismo agito. I bianchi poveri in colonia erano oggetto di discorsi e politiche di razzializzazione, ma insieme godevano, nella scala della gerarchia razziale, di una posizione di netta superiorità nei confronti dell’indigeno. Il prestigio della razza veniva così a costituire, in quella scena coloniale che fu teatro di sperimentazione della modernità capitalistica, il “salario simbolico” che il potere coloniale accordava al proletariato bianco per assicurarsene il controllo. In altri termini, il rispetto che gli indigeni dovevano riconoscere ai lavoratori bianchi costituiva per questi ultimi quella che Du Bois ha definito la «retribuzione pubblica e piscologica» che, in un contesto di violenza e gerarchizzazione razziale, costituiva una sorta di ricompensa al proletariato bianco per il suo modesto salario[21]. Ripensando alla rivolta dei lavoratori africani di Rosarno del 2008 e al modo in cui in quel caso furono italiani meridionali (e di classi non agiate) ad attuare pratiche di estrema violenza razziale genocide, verrebbe da pensare che in quel caso il “salario simbolico” fu il riconoscimento fatto dalle autorità della rivendicazione implicita da parte dei cittadini di Rosarno del loro diritto alla violenza e alla rivolta che i lavoratori extracomunitari stavano in qualche modo rivendicando per sé. Quest’ultima considerazione per sottolineare quanto sia necessaria, ai fini della costruzione di un originale pensiero meridiano, non solo il rovesciamento di categorie orientalizzanti imposte al nostro meridione, ma anche l’assunzione di una postura riflessiva e autocritica su noi stessi.
[1] M. Mellino, De-provincializzare l’Italia. Note su colonialità, razza e razzismo in Italia e in Europa, 2011.
[2] Ibidem.
[3] A. Quijano cit. in Mellino, op. cit.
[4] D. Gabaccia, Emigranti. Le diaspore degli italiani dal Medioevo a oggi, Einaudi, Torino, 2003.
[5] M. Nani, Ai confini della nazione. Stampa e razzismo nell’Italia di fine Ottocento, Carocci, Roma, 2006, p. 95.
[6] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009, p. 258.
[7] V. Teti, La razza maledetta. Alle origini del pregiudizio antimeridionale, Manifestolibri, Roma, 2011.
[8] P. F. Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza, Ombrecorte, Verona, 2008.
[9] Gabaccia, op. cit.
[10] P. Brunello, Pionieri: gli italiani in Brasile e il mito della frontiera, Donzelli, Roma 1994.
[11] S. Martelli, Dal vecchio mondo al sogno americano. Realtà e immaginario dell’emigrazione nella letteratura italiana in P. Bevilacqua; P. A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Donzelli, Roma 2001, pp. 433-87
[12] M. Nani, op. cit.
[13] M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 206-27.
[14] Ibidem.
[15] L. Martone, Diritto d’Oltremare. Legge e Ordine per le Colonie del Regno d’Italia, Giuffré, Milano 2008, pp. 1-3.
[16] Ivi, p. 63.
[17] Ibidem.
[18] Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Nozioni coloniali per gli iscritti alle organizzazioni del PNF in L. Goglia; F. Grassi (a cura di), Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Laterza, Bari-Roma, 1993, pp. 402-4.
[19] V. De Grazia, S. Luzzato (a cura di), Dizionario del fascismo, Einaudi, Torino, 2005.
[20] M. Martone, op. cit., p. 175.
[21] W. E. B. Du Bois, Black Reconstruction in America, 1860-1880, Oxford University Press, New York, 2007.