Se il debito è “comune” il debitore è comunista?
di BURANELLO
Qualche ottimista improvvido ha gioito per la recente decisione della consulta che ha dichiarato l’incostituzionalità della norma, inserita nel “mille proroghe 2011” (art. 2 c.61 L. 10/2011) che prevedeva la prescrizione decennale dell’azione di ripetizione dell’indebito, per il caso di annotazioni sul conto corrente illegittime, dalla singola operazione e non come riteneva la giurisprudenza (peraltro si registrano voci discordanti e anche la Cass. SU nel 2010 aveva ben registrato l’apparentemente monolitico incedere) dalla chiusura del conto. La norma subito denominata (l’ennesima, i beppegrillo non hanno molta fantasia) “salvabanche”, mirava a definire il contenzioso sorto verso la fine degli anni novanta (quelli della finanza creativa ossequiata dal gotha della politica nostrana da D’Alema a Tremonti) allorquando venne definitivamente riconosciuta la nullità delle clausole che prevedevano la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori (cd. anatocismo).
Dal fatidico ’99, gli imprenditori “fuffa”. che traevano le loro rendite dal debito bancario. sfornarono vagonate di azioni giudiziarie volte ad ottenere la restituzione di quanto, a loro dire, indebitamente corrisposto per interessi capitalizzati.
Cause durano a tutt’oggi e sempre nuove se ne incardinano.
L’imprenditore/ladrone, dopo avere sfruttato per anni (magari grazie a funzionari compiacenti) gli istituti di credito, allorquando il peso della crisi si fa sentire, anziché mettere mano al portafoglio come ogni essere umano e pagare, mette le pile nuove alla cotonata presidente di categoria, assolda schiere di comitati schiamazzanti di vario colore e lignaggio, pone in cassa integrazione e/o licenzia i dipendenti (tanto c’è l’INPS) e introduce cause a ripetizione contro le banche “ladrone” (in realtà creditrici incontestabili), onde mascherare la propria insolvenza. Prima porta gli affidamenti “a tappo”, poi ricorre a giudici fin troppo zelanti, convinti anch’essi della “cattiveria” delle banche.
Il senso dell’operazione?
La società non fallisce, si affitta l’azienda e si prosegue nella captazione di vita e nella socializzazione delle perdite.
Da questi brevissimi cenni, si comprende come la sentenza che si commenta non sia, in alcun caso, volta a porre un freno al capitale finanziario e alle sue storture, quanto a preservare l’imprenditore “nulla”, che del capitalismo finanziario è miserabile cardine.
Ma allora perché gioire della decisione, povero precario-impresa sfruttato proprio da quelle imprese che si giovano, al contrario di te dei sussulti della magistratura?
-) Il precario non può andare in rosso, quindi, caro precario mai subirai la capitalizzazione degli interessi a debito.
-) Al precario non erogano finanziamenti quindi della sentenza del Tribunale di Rutigliano che, sempre (e male) procedendo dal divieto di anatocismo, dichiara la nullità del sistema di ammortamento alla francese (un po’ come il french kiss, o la french manicure) ti ci puoi fare il brodo.
-) Se le banche non recuperano, stringono i cordoni della borsa e allora ti scordi il finanziamento per mandare il figlio al’università (sì, perché ci sono anche precari vintage e con figli).
-) Il perpetuare l’esistenza di imprese decotte, per le quali lavori è certezza di mancata retribuzione.
La verità è che la banca quale erogatrice del credito è soggetto spazzato via dalla storia come il regista di film neorealisti e il mediano metodista.
Le banche (intese come protagoniste della finanza) traggono altrove la loro rendita e le ritorsioni dei tronfi imprenditori sono esclusivamente il pizzo che debbono pagare per realizzare la mera parvenza di un’economia produttiva che risulta difficile addirittura ravvisare (vi immaginate Mr. Ford che propone a Sir. Bentley di calmierare la produzione di autoveicoli come propone Sergio “maglione” Marchionne?).
L’immersione nel magico mondo del debito è totale per le banche, l’impresa e il precario. Le banche e l’impresa hanno dimostrato di saperlo e di conoscere i mezzi per prosperare.
E il precario?
Il debito è “comune”, nel senso che accomuna i precari e costituisce il loro unico patrimonio. Ma l’essere debitore è anche costitutivo del “comune” perché pone le condizioni per la cooperazione dei debitori (meglio, degli unici reali debitori; i precari infatti – forse con gli stati nazione- sono gli unici chiamati a pagare i debiti senza difese né governative, né togate, né di sindacati e/o patronati).
Le banche non pagano i loro debiti, li contabilizzano.
Le imprese delocalizzano, esportano capitali, si aggiudicano appalti per grandi opere, percependo acconti e penali senza avere fatto nulla…
E tu precario… PAGHI, caro e tutto.
Questa condizione di sfruttamento è comune e come tale accomuna figure diverse ma che condividono la messa al lavoro della propria vita attraverso il debito, che è pur sempre maligna eccedenza che trascende la mera condizione debitoria e procede a sottrarre utilità al capitale.
Liberarsi dal debito, attraverso politiche “sobrie”, non è soluzione perché comporterebbe scelte di privazione e depotenzianti. Non si perderebbe la soggezione al capitale, anzi, la riduzione della “comunanza” riprodurrebbe istanze individuali completamente assorbite.
L’incuranza verso il debito, nei confronti del senso di impotenza e pena che il capitale evoca per quadrare il cerchio della captazione è differente e migliore soluzione.
Rivendicare credito deve essere il senso di qualsiasi richiesta; trasformare la sudditanza in pretesa di accedere alla ricchezza direttamente, rifiutando ogni redistribuzione di ciò si è prodotto ed è stato sottratto.
L’aumento del debito è irrilevante se il debito non si paga o si può perpetuarlo al pari del godimento di beni e servizi.
La realizzazione di una condizione di relativo benessere e sicurezza permetterà di liberare l’eccedenza prodotta dalle singolarità, moltitudini debitrici incuranti dell’ormai inefficace ricatto dell’onore e del diritto.