Esercizi di esodo meridiani
di FRANCESCO FESTA e GIORGIO MARTINICO
Riflessioni a margine dell’incontro “Orizzonti meridiani”, 1-2 settembre 2012
1. É possibile affrontare il nodo dell’identità senza rischiare di restare irretiti nei dispositivi tanto romantici quanto pericolosi del ritorno alla tradizione ipostatizzata?
Detto altrimenti: quando parliamo di Sud Italia si è in grado di mettere a critica e sottrarsi tanto alla tediosa “questione meridionale” e alla rappresentazione del Sud costruita a partire dalla fine dell’Ottocento, dalla corrente economico-politica che va sotto il nome di “meridionalismo”, quanto al rischio di contrapposizione Nord/Sud e alla retorica dello stato assente o del capitalismo accidioso?
L’incontro di autoformazione dal titolo “Orizzonti meridiani” promosso da una costellazione di centri sociali e singolarità meridionali[1] ha scandagliato a partire proprio da queste domande il piano striato e alquanto scivoloso dove si situa il luogo discorsivo del Sud o dei Sud, con l’obiettivo di ribaltare il punto di vista che vuole il Sud rappresentato e narrato in base a determinati significanti storico-politici, che lo vedono con lo sguardo esterno del colonizzatore verso l’Altro. Con Gramsci sappiamo che questo modo di vedere e narrare si costruisce nei discorsi e nelle forme di vita, nel modo di agire lo spazio/tempo del Sud a confronto con l’incalzare di concetti quali civiltà, modernità, sviluppo. A ciò, va aggiunto un supplemento – consapevole o meno – di stereotipi, pregiudizi, distanze, sguardi, diffidenze. Cioè, tutte quelle tattiche che costituiscono la strategia complessiva del dispositivo dell’orientalismo a Sud.
Favoriti dall’isolamento del rifugio montano, in località Pozzacchio del Matese, a 1400 metri di altitudine, lungo le “terre dell’osso” dell’Appennino meridionale, l’incontro si è svolto in due giorni, suddivisi in seminari e assemblee dense di riflessioni e narrazioni. Infatti, la narrazione complessiva è stata un insieme di voci, come dire, una raccolta di narrazioni situate in tempi codificati – quello della modernità prima, della post-modernità poi – e in uno spazio non omogeneo, ma attraversato da fili conduttori intrecciati: tanto attorcigliati da farne una base ruvida di discorso politico, sociale e storico.
Del resto, il luogo della critica è andato definendosi nel corso dei lavori come la prefigurazione di orizzonti comuni su cui intervenire con forme organizzative aperte e rizomatiche. Che la prefigurazione prenda le mosse dall’uscita dalla passività e dal lamento rispetto a cause esterne e invincibili, sta proprio nella capacità di adoperare strumenti di inchiesta e conricerca in grado di criticare, innanzitutto, i modi in cui la subalternità si costruisce nei discorsi e nelle forme di vita degli stessi subalterni. Ne consegue che afferrare l’idea di sviluppo, e del compresente storicismo, significa evitare che il meridione riproduca la sua subalternità all’infinito e rifugga campi enunciativi attraverso cui nell’esprimere se stesso si percepisca come periferico, spezzando non solo i discorsi altrui che lo vogliono tale ma, nondimeno, ogni descrizione di se stesso che accetti un discorso quale proiezione di termini come periferia, marginalità, sottosviluppo.
Senza dubbio tale tentativo è stato perseguito eseguendo un primo profondo scavo tra concetti costruiti e irriflessi della storia politica ed economica del Mezzogiorno, nel tentativo di esercitare un “esodo semantico da parole come crescita economica, modernizzazione, progresso” (Piperno 2008, p. 6) e rendere comunemente condiviso un campo di forze su cui agire nei prossimi mesi.
Infatti, i piani di discussione non sono stati posti nei termini di visioni in merito al Sud (cosa è il Sud? Una definizione binaria meramente geografica?). Bensì essi hanno tentato di far dialogare porzioni di Sud d’Italia. E lo hanno fatto, partendo da domande immediate: quanti sono questi Sud? Quante sono le storie, le forme di vita, i processi relazionali e quelli linguistici, le lotte e le forme d’insubordinazione, le resistenze e le alterità che, in quello spazio comunemente definito “meridionale”, si sono date prima, durante e dopo il processo di unificazione nazionale?
Ecco un primo spartiacque fondamentale – imposto, nient’affatto desiderato – : il Risorgimento italiano, la “venuta” dei garibaldini, l’epoca della “guerra al brigante” prima, ai contadini poi e, infine, delle conquiste coloniali. É l’epoca in cui nasce un discorso “sul” Sud piuttosto che “dal” Sud. Si parte dalla conoscenza che le aristocrazie europee rendevano dell’esotico meridionale alla fine ’700 per giungere alla genealogia della questione, per dirla con un famoso libro, “come il Meridione è divenuto una questione” (Petrusewicz 1998). Siamo nella seconda metà dell’800 ed è lì che si forma la “nostra” coscienza storica, se con questa intendiamo quel dispositivo che, come insegna Stuart Hall, si nutre non tanto dell’interrogativo “da dove veniamo”, bensì del “come siamo stati rappresentati” (Hall 2006). Una coscienza storica quindi costruita su un piano che non appartiene al Sud perché al Sud non apparteneva quel “progetto occidentale di modernità” in cui erano iscritti concetti/linee guida che formano i nostri schemi discorsivi. Decostruire questo piano vuol dire perciò, e primariamente, ribaltarne i paradigmi e mostrane la funzionale artificiosità. Ecco quindi che la prima necessaria operazione da compiere se si vuol parlare di Mezzogiorno è quella che definiremo come un coraggioso e irreversibile tentativo di fuga, un esodo semantico in grado di mettere a critica le basi stesse della subalternità meridionale.
2. Il primo obiettivo è stato quello di inscrivere il Mezzogiorno in una complessità più larga e stratificata, una parzialità di un tutto che illumina le forme più avanzate della governance neoliberale (A. Amendola 2008). Con determinazione, si è tentato di condurre sino in fondo la critica alla visione di sviluppo lineare, progressista e omologante, svelandone il ruolo di pilastro ideologico nella costruzione della subalternità meridionale. Anche se il pericolo è sempre in agguato dietro il semplice ribaltamento del termine: nella critica allo sviluppo si annida l’elogio della tradizione nei termini dell’immutabile, del retaggio “antimoderno” o addirittura dei revanscismi. Nulla di tutto ciò! La tradizione non è una corazza d’acciaio. Essa è stupendamente raffigurata in Angelus novus di Paul Klee, quadro di cui Walter Benjamin, nelle Tesi di filosofia della storia, scrive“…un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi” (Benjamin 1940, p. 79). Detto con le parole di un attivista di “Orizzonti meridiani”: “la tradizione è per me la lingua della terra. Le tradizioni musicali sono strumenti per parlare alla gente dello sfruttamento passato e attuale, delle lotte di queste terre per la libertà passate e attuali”.
La tradizione, nel nostro agire politico, è soprattutto la capacità di comunicare direttamente, così come faceva notare lo scrittore Dario Stefano Dell’Aquila, intervenuto sul tema “Come narrare il sud”. É il coraggio di fare inchiesta a partire dagli insegnamenti di Danilo Dolci, Carlo Levi o Goffredo Fofi per raccogliere lo “sguardo meridionale”: uno sguardo diretto su ciò che si vede, senza mediazioni con chi detiene il potere, cercando di dare scrittura a chi non ha voce e, in ultimo ma non da ultimo, comunicando con la bellezza e la semplicità della lotta politica, per dirla con Albert Camus, “c’è la bellezza e ci sono gli oppressi. Voglio essere fedele ad entrambi”.
Parimenti, essere moderni significa liberare la modernità dall’ideologia dello sviluppo. Significa battere quelle strade del lavoro vivo nel Sud, della sua composizione sociale, come nelle lotte che provano a costruire la resistenza al saccheggio e alla prospettiva di marginalizzazione, che producono uno spazio meridiano sottratto sia all’idea di un Sud periferico, in ritardo e da condurre al progresso e alla modernizzazione, sia all’ipotesi di un Sud inferiore, essenzializzato, naturalizzato e pertanto perduto, destinato tanto ai prelevamenti brutali di risorse quanto alla sperimentazione di dispositivi emergenziali e razzializzanti.
3. Siamo partiti dal “provincializzare l’Europa” e la storia dell’Italia col tentativo di illuminare i dispositivi politici e culturali attraverso cui la molteplicità del Mezzogiorno è stata ricondotta nell’alveo dell’“invenzione della tradizione”, nella costruzione del Sud quale entità omogenea ad uso e consumo dei processi di valorizzazione capitalistica. Oltremodo abbiamo sottoposto a critica serrata il processo d’iscrizione del Sud all’interno dei canoni della modernità, vale a dire un Sud rilevato secondo concezioni lineari dello sviluppo, dove il tempo della crisi viene impiegato per misurarne ancor più la distanza con il resto del paese e dell’Europa attraverso quel “non ancora” che lo staglia negli spazi periferici della dicotomia sviluppo-sottosviluppo. Si badi: tale processo è costitutivamente inconcluso, il “ritardo” giocoforza funge da retroterra politico-culturale su cui vanno innestandosi le pratiche governamentali indispensabili per alimentare i dispositivi di emergenza, per cui va replicandosi nella pubblica amministrazione, nelle burocrazie sindacali e di partito, nelle redazioni dei giornali e delle emittenti televisive, la visione di un Sud che, nelle migliori delle ipotesi, è come un Nord eternamente imperfetto, indisciplinato e impreparato.
Dal suggerimento di Franco Piperno di far seguire un esodo semantico alla “rottura epistemologica” con la modernità capitalistica, è stato inaugurato un cantiere per la scrittura di un “dizionario meridiano”. Un luogo ideale in cui inserire sia keyword che mappe concettuali, con lo scopo di verificare i campi di enunciazione adoperati nelle nostre “pratiche teoriche” (Roggero 2012), talvolta foriere di equivoci o addirittura di comportamenti reazionari o auto-subordinanti, e ridefinirne un uso semantico che sia all’altezza della composizione di classe nelle lotte meridionali. Non si è data, dunque, una separatezza fra il piano dell’elaborazione, quello della teoria e quello della pratica. I risultati delle esperienze di lotta, di quella “pratica teorica” che è la conricerca, sono stati tradotti all’interno del sapere collettivo, dei ritmi della critica, mettendo in luce le linee di frattura o le segmentazione dei conflitti a livello meridionale, effetto talvolta del controllo esercitato dall’alleanza di borghesie politico-criminali territoriali.
Il cantiere ha innanzitutto definito il proprio statuto nell’immanenza radicale del sapere così come emerso dai conflitti a cui hanno partecipato le singolarità presenti all’incontro. Dunque, le voci del dizionario sono state dedotte proprio dai lavori di conricerca e inchiesta. La prima è stata quella presentata dal CSOA Tempo Rosso di Pignataro, “Inchiesta sul ciclo di lotte a difesa del comune che hanno attraversato l’agro caleno da metà anni ‘90 ad oggi”. Nel narrare le lotte in Terra di Lavoro sono tornati alla mente una lunga serie di luoghi e di eventi, di città insorte nel Mezzogiorno (Scanzano, Acerra, Chiaiano, Ariano Irpino, ecc.), in cui i fenomeni di resistenza, secondo la sindrome così cara al mainstream not in my back yard, divengono costituenti di “istituzioni del comune”, provincializzando le proprie claims e rinviando la crisi ecologica a una crisi più generale del sociale, del politico e dell’esistenze. Emergono così i lineamenti di quello che Felix Guattari definisce “movimento ecosofico” che coniuga reinvenzione dell’ambiente, mutamento sociale e creazione di soggettività (Guattari 1996).
Le narrazioni di comunità resistenti alla devastazione, allo sfruttamento politico-criminale dell’ambiente, di “gesti pubblici, rivolti alla condizione comune del vivere urbano, dell’abitare un luogo amato perché appropriato alla ‘buona vita’” (Della Corte, Piperno 2008, p. 216), hanno mostrato come le lotte debordino i friabili confini dei beni comuni. Spacchettandone la retorica, esse organizzano il “comune” mediante la rottura dei dispositivi di governance securitaria, facendo emergere forme di autogoverno del territorio. Al contempo, sottraendosi al comando capitalistico, la cooperazione delle lotte fa sì che si sperimentino pratiche di valorizzazione sociale dell’eccedenza produttiva. In esse si delinea proprio la differenza tra “la democrazia come ‘forma’ di governo” e la “democrazia come progetto, praxis democratica, come ‘esercizio comune’, come articolazione della volontà di tutti” (Negri 2008, p. 110). Queste lotte condensano non solo la rivendicazione di una maggiore partecipazione ma anche la costruzione di nuovi istituti della democrazia, oltrepassando le frontiere delle forme tradizionali e formali della democrazia rappresentativa (Caruso 2008).
Narrare queste esperienze, nella loro diversità, ha permesso di introdurre nel dibattito alcuni temi e di affrontare nodi specifici dell’azione militante sui territori. In primo luogo, con particolare riferimento all’esperienza dei Forconi (ma in generale delle insorgenze extraurbane siciliane), l’attenzione si è voluta rivolgere alla problematicità di simili fenomeni, a quelle ambivalenze troppe volte capaci di inibire l’iniziativa politica delle soggettività militanti: ciò che si è sottolineato è la semplice quanto impegnativa costatazione che insorgenze simili a quelle datesi in Sicilia aprono spazi per significativi processi di contro-soggettivazione in grado di superare le ambiguità di questi movimenti e di fornire l’occasione per l’affermazione di un comune costruito sulla cooperazione autonoma e libera di soggettività in lotta. Sporcarsi le mani nei movimenti reali è l’unica possibilità tanto per “cambiare di segno” queste esperienze quanto per individuare, attraverso gli strumenti dell’inchiesta, quei luoghi duri della ricomposizione sociale senza cui sarebbe evanescente ogni progetto di radicale trasformazione dell’esistente. Fare ciò, però, non può significare sposare meccanicamente ogni causa, bensì individuare ove possibile degli elementi nuovi e di rottura. Il caso dei Forconi, per esempio, ci consente di introdurre alcuni concetti imprescindibili per un’analisi sui sud, quali quello di comunità e/o quello di “città rurali”. Quell’esperienza, infatti, si può leggere anche come un ritorno delle città rurali sulla scena politica (come soggetto e come possibile interlocutore). É così, nella ridefinizione del legame con la terra, nel ribaltamento del moderno rapporto (sempre osmotico e mai unilaterale) città-campagna, che una lotta forma comunità resistenti, nuove affermazioni di legami sociali e vincoli solidaristici e antagonistici allo sfruttamento biopolitico capitalista. In questa affermazione, nella capacità o meno di sedimentare queste nuove relazioni tra territorio e comunità, risiede la possibilità di nominare “luoghi ameni, quei luoghi dove si sono dati avvenimenti singolari che hanno trovato il loro compimento come sentimenti, concetti, giudizi – penetrati nel senso comune fino al punto d’abitare ormai quegli stessi luoghi” (Piperno 2008, p. 5). Ma in quel meridione che lo stesso Gramsci vedeva caratterizzato da una irrisolvibile frammentarietà forse il nodo problematico da affrontare è proprio quello della segmentazione di lotte quasi mai portatrici (oltre che di aspro e diretto conflitto, di radicalità di pensiero e azione) anche di processi di sedimentazione. Il caso delle lotte sull’ambiente a Napoli in qualche modo dimostra la consistenza del problema: importanti battaglie a difesa di un “comune ambientale” che eccedeva la semplice difesa dell’ambiente e che invece si traduceva immediatamente in istituzionalità autonoma e costituente. Queste non sono bastate a costruire quell’intreccio tra memoria comune, pratiche di lotta, processi di altra-soggettivazione che fungesse da base per la ri-produzione di nuovi modelli e forme di vita.
Su questo c’è ancora da scavare.
4. Altro concetto emerso nel corso del dibattito è quello di emergenza o emergenzialità. Nella fase di crisi del capitalismo occidentale, le politiche neoliberali si distinguono per la creazione di zone in cui con strumenti speciali legano la disarticolazione sociale a una forte opera di prelievo delle risorse. Nella genealogia tipica della storia del Mezzogiorno, tale dispositivo diviene “stato d’eccezione permanente”, cioè un insieme di dispositivi formali e informali, discorsivi e codificati attraverso i quali le province meridionali sono imbrigliate dalla perpetuante condizione di specialità. Più complessivamente, la macchina dell’emergenza condensa in sé il controllo biopolitico della popolazione, la cui giustificazione è situata nel contesto storico-politico della costruzione della nazione.
Effettivamente l’emergenzialità è un feticcio che accompagna la storia del Sud Italia. Fin dal suo ingresso nell’Italia unita l’alterità negativa è stato uno dei protagonisti principali del nation building. All’identità italiana è stata funzionale l’immagine di un Sud povero e immobile, “non ancora” collocato nei processi della modernità e in grado di riscattarsi attraverso interventi straordinari, leggi speciali, introdotte nei primi del ‘900 dai governi liberali e perpetuate nel dopoguerra. La Cassa per il Mezzogiorno e la riforma agraria funsero da anestetizzanti della carica eversiva che le lotte esplose nelle campagne avevano manifestato. L’uso del sottosviluppo e l’emigrazione meridionale nel “triangolo industriale” servirono al piano fordista-keynesiano (Ferrari Bravo, Serafini 1972). Come fucina sempre attiva, l’emergenza nel Sud ha lavorato in silenzio e quando ce n’è stato bisogno la classe politica liberale o neoliberale vi ha attinto a piene mani. Il mantra affibbiato al sud è stato quello dell’incapacità di governarsi, del fannullonismo e del lassismo: tipologie di “colpe originali” che in sé giustificano e giustificheranno qualsiasi tipo di intervento “speciale”. Che siano commissariamenti politici, imperiali affermazioni di sovranità o pervasive e violente imposizioni di modelli economici e paradigmi produttivi il leit motiv resta sempre lo stesso. Perfettamente iscritto nell’universalista idea di sviluppo (tempo universale, diritti universali, progresso universale…), questo mantra disegna il Sud come un infante ancora non autosufficente, e magari un po’ stupido, forse incapace anche da grande di reggersi sulle proprie gambe. A chiunque può allora apparire evidente quanto funzionale sia, per le elite capitaliste, questa interpretazione antropologica di un’irreversibile minorità. Il “neoliberalismo come eccezione” (Ong) è un paradigma interpretativo perfettamente adattabile al Mezzogiorno: una dimensione multipiano di prelievo di risorse e imposizione di regimi di sfruttamento “eccezionali”. Nella discussione, si è convenuti nell’analisi che la crisi disegni il Sud come una zona di sfruttamento eccezionale, secondo una lunga tradizione di emergenzialità, inserendo il Sud stesso come elemento di piano nella gestione della crisi. Beninteso, l’impatto della crisi si traduce a Sud in modi devastanti e violenti, nelle forme di perdita del potere d’acquisto dei salari, disoccupazione, distruzione degli ammortizzatori sociali e del welfare anche su base regionale. Oltremodo si presenta nel perseguitare la vita a suon di etica trascendentale per cui la salute, l’ambiente, la ricchezza sociale con le relative differenze sociali e territoriali possono essere sacrificati sull’altare del lavoro, anche se è un lavoro nocivo e costretto dal capitale finanziario e industriale. E quando non serve più, viene chiuso e ridotto a disperazione, oppure a“nuda vita, corpo predisposto al lavoro”, prestato alla propaganda per restare relegato nell’angolo “a leccarsi le ferite in attesa che l’economia riprenda normalmente il suo corso” (Vecchi 2012). L’Ilva e l’Alcoa sono esempi eclatanti.
5. Come la storia del capitalismo è segnata dall’esperienza della razza, parimenti la storia d’Italia ha quale traccia impronunciabile quella del razzismo antimeridionale. Della discussione animata dalla relazione di Anna Curcio (“‘Un paradiso abitato da diavoli’: sulla razzializzazione del Mezzogiorno d’Italia”), il tema centrato è stato quello dei dispositivi di razzializzazione e inferiorizzazione che, riverberando le tattiche della “perpetua emergenza”, vengono utilizzati nei confronti dei meridionali. In altre parole, si è tentato di compiere un aggiornamento delle pratiche di criminalizzazione, sfruttamento e discriminazione antimeridionali. Anna Curcio ha definito il campo di forze in cui si muove la nozione di razza, sgomberandolo da richiami biologisti e implicazioni positiviste o neo-positiviste, così strettamente sovrapposte sin dai primi anni dell’unificazione italiana. “Se riconosciamo e mettiamo a tema che la razza ha storicamente funzionato come potente strumento di subordinazione del lavoro e delle relazioni sociali” tale nozione è appunto “lo strumento attraverso cui si costruiscono relazioni sociali gerarchizzate, forme dello sfruttamento e discriminazioni” (Curcio 2012).
Il dibattito franco e produttivo è andato complessificandosi proprio alla luce di tale quadro interpretativo nel tentativo di attualizzare mediante le conricerche e le narrazioni presentate il funzionamento dei meccanismi di razzializzazione nel Mezzogiorno nel tempo della crisi. L’introduzione di gabbie salariali, le graduatorie scolastiche solo per residenti settentrionali, l’aggravamento di misure giudiziarie per i residenti nel Sud, la riconversione a discariche per abbassare i costi di produzione delle imprese del Nord distruggendo e avvelenando sistematicamente molte province del Mezzogiorno, fenomeno interpretato come “razzismo ambientale”, sono alcuni esempi di quanto siano ancora ben oleati i meccanismi di razzializzazione nel Sud. Essi vengono riconvertiti in nuove misure e forme per soddisfare le diverse esigenze della valorizzazione e dello sfruttamento capitalistico. Paradigmatica è la resa in schiavitù di province o regioni pur di evitare la chiusura o la delocalizzazione di interi comparti produttivi, come se questa fosse l’unica strada. La Fiat a Melfi, Termini Imerese, Pomigliano d’Arco ha bleffato, giocando sull’assenza di lavoro, mentre la classe politica e sindacale ha svenduto territorio, diversità produttiva, ricchezza ambientale; e in tale opera, negli ultimi vent’anni, ha inserito anche i Fondi Europei di Sviluppo per il Meridione povero e classificato come “Obiettivo 1”, destinandoli nelle casse della Fiat. Mutatis mutandis, la lezione di Ferrari Bravo e Serafini sulla funzione di sviluppo e sottosviluppo nel Mezzogiorno coglie ancora nel segno.
Ripensando alla rivolta dei lavoratori africani di Rosarno del 2008 e al modo in cui in quel caso furono italiani meridionali – e di classi non agiate – ad attuare pratiche di estrema violenza razziale genocide, Caterina Miele nel suo “Un’archeologia del discorso razzista in Italia” ha parlato dei rischi di divenire noi stessi “attori” di razzializzazione: “quanto sia necessaria, ai fini della costruzione di un originale pensiero meridiano, non solo il rovesciamento di categorie orientalizzanti imposte al nostro meridione, ma anche l’assunzione di una postura riflessiva e autocritica su noi stessi”. Della cassetta degli attrezzi di W. E. B. Du Bois, ha utilizzato la categoria di “salario simbolico” (“retribuzione pubblica e psicologica che, in un contesto di violenza e gerarchizzazione razziale, costituiva una sorta di ricompensa al proletariato bianco per il suo modesto salario [cioè quel] “salario simbolico” che il potere coloniale accordava al proletariato bianco per assicurarsene il controllo”) per leggere gli eventi del 2008, laddove le autorità riconobbero una rivendicazione implicita dei cittadini di Rosarno di esercitare un loro diritto alla violenza e alla rivolta che, invece, i lavoratori extracomunitari stavano in qualche modo rivendicando per sé (Miele 2012).
Con buona pace della sinistra neoliberale dal fascino socialdemocratico, Giso Amendola poneva l’attenzione ai meccanismi coevi di razzializzazione il cui scopo è quello di concimare l’arido terreno del lavorismo. Nel suo contributo “La fabbrica della strategia. Come costruire un movimento per il reddito nel Sud”, mostrava quanta vicinanza ci fosse tra il pensiero di socialisti come Niceforo e Lombroso, padri della scuola Antropologica criminale, e quello del ministro Fornero “Non si può dare il salario minimo agli italiani, o si siederebbero a prendere il sole e mangiare pasta al pomodoro”; più prosaicamente, “meridionali perdigiorno”. Il modello etico a cui il Sud deve guardare è l’etica della prestazione, l’inseguire quei modelli del neoliberalismo all’italiana, l’imprenditore di sé e l’individuo proprietario, rappresentati dal Nord operoso oppure più a nord, alla Germania dell’efficienza, del rigore e dell’austerity. Liberarsi di questi dispositivi tristi significa rispedire al mittente una cittadinanza edificata sui modelli lavoristi, laddove i dispositivi di esclusione ed inclusione agiscono nei sud attraverso il moltiplicarsi dell’inclusione nei circuiti infernali di sfruttamento del lavoro vivo e – per chi desiderasse sfuggire a tale morsa – nell’esclusione dai cicli classici dell’emigrazione lavorativa. Va rilevato che il fenomeno dell’emigrazione di ritorno si presenta o nei termini di ricollocazioni forzate, e dunque ancorata all’unico sostegno ancor funzionante, ossia il welfare familiare, oppure nel desiderio di recupero dei luoghi e delle tradizioni. A tale scopo, la scommessa è di reinventare la tradizione, capovolgerla in arma di riconnessione delle soggettività e dei luoghi: dare forma e organizzazione alle soggettività mobili, rendere i luoghi e la pluralità ambientale “possibilità generale di ricchezza” come produzione di soggettività e attività.
Tali opportunità possono essere perseguite attraverso un esercizio di sottrazione dai modelli del fallimento, dell’impotenza, del “ritardo” e del “mancato sviluppo”, tanto introiettati nella storia del Mezzogiorno dal “pensiero meridionalista”, la cui immediata conseguenza è stata l’intervento per mezzo di misure straordinarie, dispositivi di emergenza, leggi speciali, commissariamenti politico-militari, così da superare l’incapacità di governarsi, tipica dei meridionali, facendogli compiere il salto hic et nunc verso la modernità. Cortocircuitare la gestione governamentale a Sud significa rendere reversibili i dispositivi di emergenza attraverso la pratica dell’obiettivo. Per dirla tutta: la pratica dell’obiettivo è la presa di parola da parte dei movimenti che si appropriano della ricchezza sociale senza che tale azione venga normativizzata; un processo di valorizzazione della “prassi” dell’eccedenza piuttosto che di riconoscimento del diritto. Il collettivo dei subaltern studies ci insegna che tale spazio “altro”, lo spazio dell’eccedenza, resta fuori o ai margini del diritto e della “società civile”, anche se è ragione della sua esistenza. Dunque, l’azione dei subalterni si muove proprio all’interno delle contraddizioni dell’attività dei gruppi dominanti, negli interstizi fra la sovranità e la governamentalità, dove si possono produrre spazi di resistenza, autonomia, comune. Del resto, la subordinazione come norma deve giocoforza riconoscere il fatto dell’insubordinazione. Ma quest’ultima deve essere ricondotta all’interno dello spazio dell’eccezione dove, nella sospensione della norma, s’incuneano forme multiple di controllo e sicurezza rivolto a specifici gruppi di popolazione (Chatterjee 2006). Vanno qui ricordate le storie frammentarie e disomogenee delle insorgenze in difesa dell’ambiente che dal piano della resistenza sono giunte ad attaccare e a sottrarsi all’istituto del commissariamento e, al contempo, ad esercitare forme di autogoverno; così come, i movimenti dei precari e dei disoccupati che, curvando i dispositivi delle politiche d’emergenza al cui sfondo lavora la razzializzazione, sono riusciti ad appropriarsi di reddito; oppure i movimenti degli occupanti casa in grado di convertire in organizzazione la retorica dei beni comuni, cioè di sottrarre il patrimonio comunale alla sovranità pubblico-privata e di organizzarne un’altra gestione. Certo, la governance della classe politico-criminale risponde col recupero sul terreno della negoziazione e della frantumazione delle istanze col fine di depotenziare i movimenti. Eppure le lotte sul reddito sono un esempio di come far tesoro dei rischi di riassorbimento nell’alveo della norma e del pubblico istituzionale della potenza dei movimenti. Dopotutto, il tema del reddito all’interno dell’incontro è stato alquanto dibattuto e affrontato in maniera franca. Da una parte, i diversi lustri di mobilitazioni accumulati sul piano del reddito e, dall’altra, le lotte inaugurate dai lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale rispetto all’uso o ai mezzi stessi di produzione, consentono di interrogarci sulla traduzione del reddito come strumento per produrre autonomia, come mezzo in grado di dare forma e sostanza alla cooperazione del lavoro vivo, come veicolo per liberare la ricchezza sociale che afferisce ai percorsi di lotta in cui siamo inseriti. A questa altezza, il ragionamento ovviamente riguarda le battaglie per l’uso civico delle terre, appunto nei termini di mezzi di produzione e riproduzione del lavoro vivo. Il piano del reddito va articolandosi, in questo modo, secondo multipiani di interventi sociali, all’interno dei quali incontriamo molteplici processi di soggettivazione legati, ad esempio, alla riappropriazione della dimensione abitativa, della formazione, della cultura, dei trasporti, dei servizi sociali e sanitari. Soltanto su vari livelli i movimenti per il reddito al Sud possono sottrarsi all’emergenza, alla razzializzazione, all’etica lavorista e mortifera, ai dispositivi tristi dell’austerity – o anche dell’alzare la testa guardando in alto ai modelli tristi del neoliberismo mitteleuropeo. Soltanto sperimentando i mille plateaux dei conflitti del lavoro vivo sul reddito possiamo aprire una processualità di movimento in grado di scrivere una nuova stagione di lotta per la rivendicazione di un reddito incondizionato. Altrimenti resteremmo nel limbo del reclamare un reddito di base a un principe tanto trascendentale da non riuscire ad afferrargli nemmeno il lembo del mantello azzurro.
Bibliografia
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- G. Roggero, Universali comuni, prefazione ad A. Negri, Il comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte, Verona, Ombre Corte, 2012.
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- B. Vecchi, L’elogio reazionario della rude razza pagana, Uninomade 2.0, 2012: https://uninomade.org/elogio-reazionario-della-rude-razza-pagana/
[1] Promosso da Bancarotta (Napoli), CSA Bastian Contrari (Salerno), CSA Depistaggio (Benevento), CSOA Tempo Rosso (Pignataro Maggiore), Zona di Esperienze Ribelli – Zer081 Occupato (Napoli).