L’esperienza del movimento NO-GAS e le lotte per i beni comuni in Terra di Lavoro
di CSOA TEMPO ROSSO
Relazione a cura del Csoa tempo Rosso di Pignataro Maggiore (Caserta) per “Orizzonti meridiani” due giorni di autoformazione tenuti a Pozzacchio del Matese l’1 e il 2 settembre 2012. Il lavoro è un inchiesta sul ciclo di lotte a difesa del comune che hanno attraversato l’agro caleno da metà anni 90 ad oggi, si tratta in ogni caso di una narrazione parziale e particolarmente orientata a sottolineare alcune delle esperienze che si sono date in queste comunità post-rurali dell’alto casertano, tale lavoro di inchiesta va approfondito e ampliato per poter costruire un orizzonte complessivo su tutto questo ciclo di lotte.
…a Michelina Di Cesare
brigantessa di Terra di Lavoro
Abbiamo deciso di procedere in questa narrazione per poterne estrapolare, partendo dalle esperienze reali, gli elementi vitalizzanti ed essenziali nella costruzione di movimenti che sappiano davvero attraversare le comunità emancipandosi dalla dimensione esclusivamente militante e da “ceto politico” per riversarsi nelle strade e nelle piazze dei tanti meridioni che possiamo inchiestare, cercando così da costruire la nostra “cassetta degli attrezzi” sulla base di un reale che si rinnova quotidianamente, ma che porta con sé meccanismi e ingranaggi con i quali i movimenti e le lotte si sono scontrati diverse volte, riuscendo così a delineare con nettezza ambiti di intervento, spinta propositiva, inventiva, in ultima analisi capacità di creazione del comune.
Tracciare con nettezza una narrazione delle lotte a difesa del comune e delle possibili costruzioni di nuove istituzioni in Terra di Lavoro è quanto mai interessante ed importante per poter approfondire come, su territori particolari e particolareggianti dello spaccato meridiano, possano darsi processi seppur lenti e a “macchia di leopardo” dai quali è possibile estrapolare indicazioni, intuizioni e punti di riferimento!
Stiamo parlando della Terra di Lavoro, la provincia di Caserta, passata attraverso una fase di industrializzazione, o meglio, di protoindustrializzazione selvaggia, discontinua e senza alcun tipo di pianificazione che da inizio degli anni ’80 ci ha consegnato un graduale e lento declino verso la destrutturazione e la trasformazione del tessuto produttivo locale, accelerando processi di messa a profitto dei territori grazie all’azione del capitalismo armato locale che ha saputo trasformare questo lembo di Campania in uno snodo fondamentale per lo smaltimento di rifiuti tossici e industriali provenienti da tutta l’Italia; questo per voler subito chiarire che la narrazione sottosviluppista del sud anche in questo caso non calza e va, anzi, riletto un intero periodo storico per capire, contestualizzare ed indagare il reale contemporaneo. Prenderemo in analisi soprattutto il territorio dell’agro caleno dove negli ultimi vent’anni si sono susseguiti numerosi movimenti e focolai a difesa del comune e dove è stato possibile sondare ed indicare anche costruzioni di nuove istituzioni.
Al fine di comprendere meglio gli avvenimenti e la narrazione che ne facciamo crediamo sia utile partire dalle prime esperienze di socialità altra, di fondazione del comune.
Su una cosa bisogna essere chiari: seppur si siano attraversate varie fasi, in cui il livello della partecipazione, della fondazione di nuovo comune siano state alte, complessivamente i movimenti, le comunità, le soggettività politiche non hanno saputo preservare, rinvigorire e riformulare questi meccanismi, anche se dall’altro lato della medaglia è pur vero che in alcuni territori ci si ritrova con un background di conflittualità e di divenire comune delle comunità stesse che resta irriducibile e sempre vivo seppur con carsicità; una consapevolezza delle comunità che sebbene sopita non ha difficoltà a venire fuori, soprattutto sulla difesa dei beni comuni; resta un ulteriore e fondamentale nodo da indagare, e cioè il saper trasferire queste esperienze e questi bagagli nell’ambito della crisi, della precarizzazione della vita e del reddito.
Per indagare complessivamente i fenomeni di resistenza e di creazione di nuovi istituzioni di lotta in Terra di Lavoro e in particolare nell’Agro Caleno, zona in cui il nostro lavoro va avanti da oltre 13 anni, bisogna partire da ancora prima, ovvero dal biennio ’94/’95 che vede il primo campo di battaglia tra le comunità locali e la volontà capitalistica di mettere a profitto il territorio devastandolo e trasformando radicalmente la propria vocazione naturale; è di questo periodo, infatti, il progetto di voler trasferire la raffineria della Q8 di San Giovanni a Teduccio nelle campagne di Pignataro Maggiore. Si tratta del primo vero tavolo di scontro tra le comunità e la politica degli affari; ad onor di cronaca bisogna registrare almeno un ventennio (da metà anni ‘70) di sfruttamento, di sversamenti illegali di rifiuti urbani e soprattutto industriali, che hanno interessato prima le campagne a nord di Napoli, fino a giungere e ad invadere tutto il casertano, la Campania Felix della mozzarella di bufala tanto per intenderci, innescando fenomeni di devastazione e di messa a profitto dei territori che, in realtà, non hanno mai incontrato sul proprio cammino qualche forma di resistenza o di opposizione, tranne casi isolati e poco incisivi nella realtà.
All’alba di una nuova coscienza del comune
Dicevamo della fase di lotte apertasi nel ’94/’95 a Pignataro Maggiore, quindi ben lontane dalle lotte campane contro le crisi rifiuti degli anni 2000, un evento che pioneristicamente ha rappresentato la fase embrionale di quella che poi sarebbe stata presa come esperienza per la creazione di soggettività politiche autonome e autorganizzate in cui rientra appunto l’esperienza del csoa Tempo Rosso. La zona di Pignataro – che da tempi immemori non viveva sollevazioni popolari e di massa – viene investita da un fermento tutto particolare e per nulla supportato da una visione politica netta e delineata. Tanto per capirci l’autonomia della lotta, il farsi istituzione autonoma e conflittuale, è stato un processo lungo ma del tutto naturale, vista l’età dei militanti che poi avrebbero formato il collettivo del Tempo Rosso, all’epoca poco più che adolescenti e vista la mancanza di una tradizione autonoma precedente in questi lembi sperduti della campagna casertana. Un processo lento, ma che definiremo fisiologico date le contingenze storiche e il nemico contro il quale costruire un fronte di lotta popolare. L’allora amministrazione comunale infatti, guidata dai Ds, risultò essere uno degli sponsor più accreditati dell’istallazione della raffineria, questo da subito portò alla completa esautorazione dell’allora maggioranza comunale: la comunità sapeva bene di non poter delegare, di dover scendere in prima persona, di non potersi fidare. Fu così, per una necessità intrinseca, più che per calcolo politico, che il comitato popolare (dapprima appannaggio di pochi “intellettuali” paesani) si trasformò in una vera e propria nuova istituzione democratica, dal basso, autonoma e di lotta.
É in questa fase che si vede il palazzo municipale, occupato dalla stragrande maggioranza della popolazione, traboccare di gente tutti i giorni fino a notte fonda tra discussioni, cooperazione, cene sociali di massa. È in questa fase che la fino ad allora inviolata autostrada del Sole viene occupata da una intera comunità per quasi dieci ore, sancendo anche una nuova conquista per la comunità stessa: l’autostrada come agorà, luogo fondamentale per momenti di lotta e di confronto sulla difesa del comune, lunghe assemblea tra le corsie autostradali diventeranno pratica diffusa e condivisa dalle comunità di tutto l’agro caleno.
Senza troppo dilungarci su questa fase possiamo ben affermare che il “commissariamento dal basso” del comune, le occupazioni di autostrada, statali e ferrovia, i presidi determinati sotto regione e provincia portano, oltre alla importantissima vittoria del fronte popolare, alla creazione di un sapere collettivo, a una consapevolezza collettiva e diffusa di lotta, di creazione del comune dal basso, in autonomia. Sapere socializzato e assunto dall’intera comunità dell’agrocaleno, che rappresenta un momento essenziale per la formazione di una coscienza che negli anni a venire sarebbe esplosa con maggiore incisività con le vicende legate sia alla lotta contro la Piattaforma per rifiuti industriali tossici e nocivi, che a quelle contro la centrale termoelettrica di Sparanise e della discarica provinciale prima a Pignataro, poi a Carabbottoli. Ma andiamo per gradi!
L’intera vicenda Q8, seppur sempre arginata dai limiti che vivono all’interno delle piccole comunità meridionali, consegna un quadro di consapevolezza e di sperimentazione di cui gli abitanti dell’agro caleno faranno tesoro negli anni a venire, non è un caso che le successive sollevazioni a difesa del comune partiranno seguendo l’esempio di quanto accaduto a Pignataro contro la raffineria.
Piattaforma per rifiuti industriali e centrale a turbogas: quanto può far male un pareggio
Come scritto poc’anzi, è nell’esperienza collettiva di mobilitazione contro la Q8 che troviamo la base per le successive esperienze di lotta delle comunità calene: autonoma, variegata ma costantemente vitale, tale mobilitazione riesce nel biennio 2004/2005 a far riaccendere focolai in tutto il territorio a causa di due grandi fasi di agitazione: una contro l’istallazione di una piattaforma di trattamento per rifiuti tossici e nocivi a Pignataro, l’altra contro la centrale a turbogas a Sparanise.
Due storie parallele, finite con esiti diversi, sintomatiche per dimostrare quanto debole potesse essere ancora la capacità e la capillarità delle strutture organizzate nell’ottica di rendere sempre più saldi i legami interni alle comunità nel tentativo di porre argine e contrattaccare il nemico e le sue strategie: un crogiuolo trasversale a tutto l’arco istituzionale reso coeso dalla forza del capitalismo armato locale.
Queste problematicità hanno, per fortuna, contribuito a produrre anticorpi rispetto alla politica istituzionale e partitica, ormai ridotta all’osso e alle prese con le sue totali contraddizioni. Proprio in questa fase di lotte, ci è stato possibile indagare e inchiestare per poter ribaltare la narrazione del sud povero e marginale e la conseguente rappresentazione che troppo ne viene fatta per convenzione, convenienza e calcolo.
È in particolare la vicenda della centrale a turbogas di Sparanise che ci fornisce tutti gli elementi per poter al meglio delineare quanto siano centrali e funzionali i processi di accumulo del capitale sui territori del mezzogiorno d’Italia, trasformando quest’ultimo in un vero e proprio laboratorio sperimentale di speculazione e profitto sulle periferie, un sistema di accumulo di ricchezza, di riproduzione del capitale e di palesamento dell’inesistente differenza di orizzonti all’interno del quadro politico istituzionale dinanzi agli interessi “di portafoglio”. Veniamo ai fatti.
Prendiamo in esame unitamente queste due vicende non tanto e non solo per la quasi contemporaneità della loro esplosione, ma soprattutto per l’esito differente, scaturito proprio dalla capacità (o non capacità) delle comunità di darsi come istituzione del comune, autonome e dal basso. Inutile dire che nella fattispecie dell’esperienza pignatarese quel background del quale parlavamo sopra sia riesploso in tutta la sua forza, anzi con maggiore maturità e capacità di sintesi sempre in presenza di un fronte popolare variegato e trasversale, ma con alle spalle la capacità della comunità tutta innescare processi costituenti e di agire una conflittualità generalizzata. Tra occupazioni di autostrada, statali e ferrovia, anche questa battaglia viene vinta dalla comunità pignatarese.
E’ in questa fase di lotte che Pignataro vive anche i suoi primi scontri di piazza. L’annunciata visita dell’allora ministro dell’agricoltura Alemanno per la campagna elettorale alle europee suscita l’indignazione popolare, essendo An sostenuta economicamente dalla Waste Italy, cellula italiana della Waste International, che spingeva per la costruzione della piattaforma. L’indignazione fu però accolta solo dai militanti del Tempo Rosso che, in numero esiguo e non preparati allo scontro fisico con le forze dell’ordine, seppero tenere testa a varie cariche durante una intera giornata che trasformò la calma dei vicoli del piccolo centro caleno in un focolaio di guerriglia.
Ci preme sottolineare due cose fondamentali: ancora una volta la centralità d’interesse nell’accumulo capitalistico in questi territori (la Waste inc. è la multinazionale dei rifiuti coinvolta nello smaltimento di rifiuti industriali in Somalia, vicenda alla quale è legata anche la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin); uno snodo fondamentale quindi, seppur periferico e per questo motivo maggiormente passibile di una governance serrata e ineludibile, la scelta di trasferire il business degli sversamenti illegali dalla Somalia, con grossi costi di trasporto e grosse elargizioni ai signori della guerra locali, in una piattaforma “autorizzata” in un contesto sociale e politico di facile controllo e di eventuale facile repressione di ogni tipo di opposizione sociale.
Gli scontri di piazza, seppur praticati in larga parte da militanti autonomi, palesarono ancora una volta la capacità della locale comunità di porsi come soggettività comune, al di là della differenti pratica di piazza, l’opposizione alla visita del ministro Alemanno si palesò con la larga solidarietà della comunità nei confronti dei militanti autonomi: anziani che facevano scudo tra militanti e polizia, donne che bloccavano coi propri corpi le camionette che volevano tradurre i fermati in caserma, esponenti della protezione civile che strappavano letteralmente militanti dalla morsa delle forze dell’ordine, resero palese un qualcosa di inedito e di importante per tutto il territorio che si apprestava a vivere la seconda vittoria a difesa del comune. Tutto questo bagaglio di esperienze, di continua tensione all’autonomia del movimento, alla sintesi non sempre raggiunta con facilità testimoniava che una intera comunità, a prescindere da pratiche differenti nell’azione di contrasto si sapesse ritrovare unita e compatta nei momenti in cui il livello dello scontro diveniva più alto. Ritorneremo in seguito su queste osservazioni, ma passiamo prima all’esperienza concomitante della centrale a turbogas di Sparanise.
Tanto abbiamo detto e scritto in merito alle vicende di Sparanise e riguardo ad essa ma in questo lavoro ci preme segnalare proprio come, in questo frangente storico, il fallimento e la sconfitta del movimento popolare non siano stati derivazione diretta ed univoca del fallimento della sperimentazione di nuove istituzioni autonome, di movimento e di lotta, anzi, possiamo affermare che la narrazione e la memoria che i movimenti hanno saputo sedimentare sono stati l’unico elemento che è rimasto vitale e ancora oggi vivo all’interno della comunità.
Ma l’inciucio trasversale tra Cosentino da un lato e il Pd con le municipalizzate emiliane e l’Hera dall’altro fece in modo che a livello locale, l’amministrazione, guidata dal centrodestra e maggior sponsor della centrale, avesse gioco facile grazie ad una opposizione che faceva il gioco delle parti e che nella materialità della mobilitazione tendeva a spegnare i focolai, a strappare dalle mani della comunità la mobilitazione per rinchiuderla nell’alveo inconsistente ed impotente della istituzionalità.
Gli apparati interni alla sinistra istituzionale infatti tentarono da subito di tagliare le gambe del movimento popolare rifiutandosi di partecipare alle assemblee del comitato e facendo nascere ad hoc un comitato fatto di politici di professione che nulla seppe fare di concreto se non, a centrale realizzata, di andarla ad inaugurare in pompa magna. Da un lato quindi la volontà di frammentare il fronte popolare, dall’altra la macchina repressiva che portò ad almeno due processi per un totale di 48 provvedimenti verso altrettanti militanti, che di fatto misero in piedi, insieme ad ampi strati della comunità locale, le iniziative di conflittualità e di contrasto alla costruzione della centrale.
In questo modo il fronte sfaldato, attaccato da più lati consegnò una delle sconfitte più dure non solo per le strutture politiche autonome che attraversavano quell’esperienza, ma in generale per tutto il movimento, per tutta quella comunità resistente e cooperativa che aveva saputo resistere e vincere per ben due volte nella vicina Pignataro, la cui tradizione non tarderà a palesarsi di nuovo di lì a poco con un’altra pesante vittoria ai tempi della seconda crisi rifiuti campana.
Per quanto riguarda i meccanismi di sabotaggio e di disgregazione del fronte popolare rimandiamo agli approfondimenti in calce soffermandoci qui sulla capacità delle comunità di mettere in piedi un meccanismo autonomo e dal basso sulla condivisione di pratiche di piazza, ma anche sulla capacità di riconoscersi movimento anche al di là della condivisione delle pratiche stesse. In altre parole, li dove la varietà e la multiformità del movimento riusciva a sintetizzarsi in un’unica espressione del comune: dai presidii, alle campagne di controinformazione alle forme più nettamente conflittuali. Era connaturale l’istaurarsi all’interno della comunità di un senso di appartenenza e di “gestione autonoma” ed “extraistituzionale” del percorso di lotta. Nelle lotte di Pignataro, l’ufficialità statale e istituzionale lascia il posto a relazioni informali, autonome e capillari che hanno portato oltre che alle vittorie, importantissime, all’ancora più importante sperimentazione di democrazia diretta e popolare come unica via di uscita dal groviglio della politica e dell’affare che attanagliano queste terre. Sperimentazione di nuove istituzioni che troveremo ancora più forte e determinata per il successivo paragrafo di questa nostra inchiesta e cioè quello relativo al movimento popolare contro la discarica provinciale di Pignataro.
La difesa del comune nella riappropriazione diretta: il presidio di Torre Ortello
Dicevamo quindi di un processo lento, ma continuo che possiamo paragonare alla mitologica goccia d’acqua che, inesorabile, riesce a bucare le rocce. Quello che è avvenuto nell’agro caleno ha trovato il suo acme proprio nella lotta contro la discarica provinciale che avrebbe dovuto fagocitare la seconda crisi rifiuti campana. In quel frangente, ci troviamo a fine 2007, il lavoro di crescita e di auto emancipazione di questi territori ha vissuto la punta di massima consistenza anche se, come vedremo in seguito, anche questa ulteriore vittoria a difesa del comune e per la creazione di nuove istituzioni non ha mancato di produrre e palesare contraddizioni, ma vediamo cosa è successo.
La regione Campania in quel periodo individua in provincia di Caserta almeno 3 siti idonei ad ospitare la discarica provinciale che avrebbe dovuto “salvare” Napoli dalla crisi che era ormai esplosa in tutta la sua devastante purulenza. I siti in questione erano Torre Ortello nel comune di Pignataro, Carabbottoli nel comune di Francolise e Ferrandelle nel comune di Santa Maria la Fossa, rispettivamente distanti, in linea d’aria, pochi km l’uno dall’altro. Tutte e tre le comunità sono attraversate da movimenti a difesa del comune riuscendo persino ad intersecare i percorsi di Carabbottoli e Torre Ortello che, per la contiguità geografica, mettono in piedi una vera e propria sinergia tra i due presidi riuscendo a creare un fronte ampio e fortissimo che è difatti valso due vittorie di portata storica per queste popolazioni.
Logicamente la comunità che più spingeva in questo senso era quella pignatarese, forte di due esperienze già vittoriose, della presenza di una folta comunità di compagni autonomi, insomma di tutti quegli elementi che fecero sì che in poche settimane il movimento popolare si gonfiasse di nuovo come per magia, riuscendo ad occupare per più volte strade statali, autostrade e ferrovie.
Crediamo però che il presidio permanente di Torre Ortello vada indagato come vero elemento di novità , difatti la discarica sarebbe dovuta sorgere in località “100 moggia”, un grande appezzamento di terreno con annessa masseria sequestrati al clan Nuvoletta, dove veniva prodotta l’uva Buton utilizzata per produrre Vecchia Romagna. L’occupazione e la creazione del presidio di Torre Ortello vanno letti nella doppia direttrice, sia di creazione di una vera e propria nuova istituzione, il presidio stesso, che in quanto a capacità organizzativa, ad analisi e a indicazioni di percorso e costruzione delle mosse della comunità surclassava di gran lunga la politica istituzionale e l’ente comune stesso: sindaco, assessori, consiglieri, deputati e politicanti vari giungevano a Torre Ortello per prendere indicazioni, per ascoltare, la nuova istituzione popolare, autonoma, democratica e dal basso era di sicuro più forte e più autorevole della politica istituzionale.
Ma le giornate del presidio a Torre Ortello hanno significato anche molto altro, quel pezzo di terra, gli affari che ci giravano dietro, la ricchezza che quel luogo produceva: beni che erano stati espropriati alla comunità, tornavano nella totale gestione della comunità stessa, altro che la farsa dei beni confiscati che ritornano alle comunità che sventolano Libera et similia. La masseria di Torre Ortello ha conosciuto il suo vero momento di ritorno alla collettività soltanto durante il presidio, si è poi infatti visto che l’assegnazione di quello stabile alle cooperative che gestiscono i beni confiscati non ha fatto altro che riconsegnare quelle terre alla malavita organizzata.
Ma torniamo a quei giorni, il presidio si mostra totalmente in grado di autodifendersi, programmare attività, gestire una mensa aperta tutti i giorni; diventerà così l’esperienza più alta nelle mobilitazioni dell’agro caleno. Il presidio è il punto di partenza da dove all’improvviso prendono corpo e si muovono assembramenti di decine di uomini e donne che si dirigono verso nazionale e autostrada per bloccarle, persino i primissimi tentativi di carotaggi trovano le strade di campagna completamente blindate ed inaccessibili, difese da balle di fieno e animali, inoltre c’è la spola di persone, a piedi e in auto, tra il paese e il presidio.
La vitalità, la democrazia di queste nuove istituzioni è un qualche cosa che oltre a procurare la terza vittoria per i pignataresi, innescherà un senso di appartenenza e di costruzione del comune che ancora oggi sopravvive anche se non sono mancate contraddizioni e storture che in seguito citeremo.
L’intera vicenda vedrà questa sinergia tra Torre Ortello e Carabbottoli resistere sia a Pignataro che a Francolise, dove la mobilitazione dei due presidi e delle due comunità riuscirà a respingere persino le ruspe dell’esercito rappresentando così l’esperienza che più possiamo prendere in considerazione come sperimentazione di nuove istituzioni nella specificità degli entroterra del meridione: snodi essenziali di accumulo e riproduzione del capitale ma che, come è stato dimostrato da queste comunità, possono essere anche possibili laboratori di fondazione di comunità altre che bypassano le istituzioni tradizionali, assolutamente incapaci di gestire e di attraversare queste fasi. L’esperienza di Torre Ortello come dicevamo resta singolare per l’alto grado di condivisione e di riappropriazione dal basso di quanto negli anni era stato tolto, esempio che meriterebbe una analisi ancora più approfondita anche sulla valenza che assumono queste lotte sul piano del reddito in territori specifici e non metropolitani e/o centrali.
La nota stonata che ci tocca registrare, ma che crediamo sia anche essa utile ed essenziale per tracciare ulteriori esperienze, è che parte del movimento popolare, a battaglia vinta, ha preferito piegare questo patrimonio collettivo ad esigenze particolari ed elettoralistiche facendo perdere del tutto quel senso di comunità che si era creato nel presidio di Torre Ortello. La vitalità, la capacità di confronto, la necessità di costruzione del comune, l’intelligenza collettiva di porsi come istituzioni autonome, una volta ricondotte nell’alveo delle istituzioni e della “legalità” hanno fallito miseramente disperdendo in larga parte quel patrimonio costruito collettivamente.[1]
Una generazione che parla di beni comuni e il movimento no-gas
La lotta contro la discarica provinciale ci ha fornito numerose intuizioni da tenere sempre ben presenti: dalla capacità di far uscire una intera comunità dalla sconfitta di Sparanise e dalla morsa repressiva, alla capacità di porsi come istituzione autonoma delle popolazioni locali, ma anche e soprattutto quella di aver formato una nuova generazione di militanti, non più figlia del niente ma di una esperienza alta ed altra di lotta.
Da queste basi ha inizio, su tutto il territorio, il lavoro che porterà poi alla situazione attuale: cominciano a nascere nuovi soggetti sociali, politici e culturali, c’è in generale un fermento che è figlio di quelle lotte, fermento che non esplode nell’immediato ma che riesce a sedimentare una prima bozza di memoria storica condivisa, di punti di riferimento, di esperienze, di saperi socializzati che daranno il via a quella che ad oggi è un’esperienza ancora viva e pulsante all’interno di questi territori.
Sarà grazie al referendum su acqua pubblica e nucleare che questa esperienza, alimentata da varie realtà diverse tra di loro per una serie di fattori (centri sociali, associazioni e singoli), che questo sostrato culturale, storico e soprattutto politico – nella sua accezione più reale – esploderà nell’esperienza della Rete Calena Beni Comuni.
Esperienza che subito dopo la fine del referendum si interrogherà sulla necessità di mantenere vivo e saldo il circuito di sperimentazioni e di condivisioni, non disperdendo questo patrimonio di crescita collettivo che, partendo dalla difesa del comune, fosse capace di ergersi a nuova istituzione. La nascita della rete vede subito concentrare il proprio lavoro per scongiurare l’apertura di una centrale a biomasse, anche questa sul territorio di Pignataro Maggiore. Ma l’intuizione vera della rete sta nella “Mappa del danno – topografia Critica di Terra di Lavoro”[2], un live-document, in continuo aggiornamento, dove una cartina topografica viene tematizzata introducendo nella legenda i simboli dell’attacco ai territori (discariche, impianti, cave, liquami, scorie nucleari) : il risultato è spaventoso. La mappa regala un quadro allarmante, mai nessuno aveva pensato di mettere visivamente su una carta topografica il quadro completo del disastro subito da queste terre, l’intento della mappa non è solo divulgativo-didascalico, anzi, il lavoro nasce con l’esigenza di connettere pezzi delle comunità e delle soggettività presenti in questa zona grazie al meccanismo di redazione della mappa stessa che è basato sull’interazione, nasce quindi sia per inchiestare il territorio, ma soprattutto per far sì che la partecipazione orizzontale e libera alla stesura della mappa risulti essere snodo di confronto e di ulteriore allargamento.
Con questi presupposti si incontrano e si fondono le esperienze di chi aveva vissuto in prima persona l’intero ciclo di lotte precedenti con le nuove sensibilità che cominciano a muovere i primi passi, tracciando un orizzonte molto ampio, ma sapendo al contempo dare una sintesi condivisa tramite il lavoro di inchiesta della mappa e della relativa relazione (a breve in uscita), lavoro che, partito dalla specificità dei beni comuni, si sta avviando ad esondare per invadere il terreno della crisi, del reddito e della riappropriazione, che in realtà sono complementari e strettamente legati alla messa a profitto dei territori. Non nascondiamo che la capacità di sintesi sia più volte stata messa alla prova soprattutto per ingerenze esterne al territorio stesso e cioè per il tentativo di soggettività istituzionali o in via di istituzionalizzazione di assorbire questo esperimento all’interno della propria sfera, tutti tentativi che sono stati rispediti al mittente non tanto per chiusura preconcetta (anzi bisogna riconoscere a questi movimenti un’apertura ampissima) quanto per l’aver fatto tesoro di quei saperi collettivi e di quelle esperienze (sia quelle vincenti che quelle fallimentari) che erano state attraversate ed avevano attraversato il territorio. Con questo bagaglio di sperimentazione continua, di volontà costante nel tracciare orizzonti sempre più ampi all’interno della sfera del comune, comincia anche il percorso che sta vedendo i movimenti ancora una volta capaci di divenire istituzione autonoma e dal basso, imponendo a numerose amministrazioni locali la scelta del riciclo e il riuso completo della materia in merito alla gestione dei rifiuti, anche in questo caso non facendosi abbagliare dalle sirene di cordate o di avere l’esigenza di aderire a cordate politiche o pseudo tali: questa, quella dell’autonomia dei movimenti e delle lotte, resta la costante vincente e caratterizzante di questa esperienza e di quelle passate, costante che, nelle congiunture in cui è venuta a mancare (e parliamo del livello delle comunità complessivamente) ha portato alla disfatta e al dissolvimento delle esperienze di emancipazione che pure erano state costruite.
Nel momento in cui questo meccanismo cresceva e diventava sempre più solido e collaudato scoppiava a pochi chilometri di distanza la vicenda del gassificatore di Capua, lotta che sta ora entrando in una fase delicata e definitiva. Il progetto del gassificatore (un inceneritore) è una vera e propria anomalia nel panorama campano in quanto l’impianto non è contemplato nel piano regionale per i rifiuti (che pure va riscritto) ma è invece un progetto spinto dal presidente della provincia Zinzi, in quota Udc, insieme al sindaco di Capua Antropoli e al comitato scientifico della SUN (Seconda Università di Napoli), in particolare della professoressa Mastellone (che è anche assessore all’ambiente della provincia) e del preside della facoltà di ingegneria Di Natale (costui è anche commissario “ad acta” per il progetto delgassificatore). Una vicenda insomma fumosa e oscura dove a farla da padrone è il gioco di potere tutto interno al centrodestra sulla gestione dei rifiuti: da un lato la vecchia guardia di Cosentino & co., dall’altro “gli emergenti” Zinzi e Antropoli, uno scontro che non si esaurisce nei palazzi del potere ma che è vivo all’interno delle fazioni del capitalismo armato della malavita manageriale locale, uno scontro quindi sia politico ma soprattutto economico e anche nella sua fase più recrudescente, militare.
Ci tocca dover sottolineare la centralità che ha in merito a questa vicenda il sistema di incentivazione statale dei Cip6, nati per incentivare le fonti rinnovabili, poi passati a incentivare anche l’energia prodotta da fonti “assimilabili”, per citare l’artificio lessicale utilizzato nel decreto di legge. Nel termine “assimilabili” è finito l’incenerimento, la gassificazione, le centrali a biomassa, garantendo a questi impianti grossi ricavi (che a volte raggiungono il 20% annuo di utile sul capitale investito), garantiti dallo stato e detassati. In questo modo grandi porzioni di economia “sotterranea” vengono reinvestite nell’impiantistica che ne garantisce un ritorno economico pulito e soprattutto garantito dallo stesso stato. Va colta la differenziazione del business dei rifiuti dagli anni 80, con le discariche nelle quali venivano sversati illegalmente i rifiuti industriali del nord, al periodo attuale post ’90 con l’affaire dell’impiantistica che, oltre a poter bruciare i rifiuti illegali, consente di guadagnare dalle commesse “regolari”, a cui vanno aggiunti i grandi utili che garantiscono i Cip6.
Anche la nascita del movimento No-Gas ha conosciuto una fase di gestazione molto lunga a causa sia di queste implicazioni che si sono palesate con più chiarezza solo al momento del rogo doloso della Ilside (deposito di stoccaggio industriale) di Bellona, rogo che ha messo i movimenti e le soggettività ad inchiestare sul territorio per capire a quale livello di scontro fosse arrivato il gioco di potere a discapito delle comunità, sia per il contesto sociale di Capua stessa, finora mai attraversata da movimenti popolari ed autonomi e questa è stata la prima vera difficoltà.
Ancora una volta infatti ci si scontra con l’inadeguatezza e la fragilità di un comitato cittadino fatto da politici di professione e con un ottica esclusivamente legalitaristica e istituzionale. Questo comitato, poco attraversato perché visto con sospetto dalla comunità stessa, rende difficili anche i tentativi sinergici a causa proprio della sua impermeabilità. E’ da qui che nasce l’esigenza di costruire in città un vero e proprio movimento trasversale, popolare e allargato, capace di rompere la cappa di omertà da un lato e quella dell’appiattimento istituzionale dall’altro: non è stato e non è semplice.
Il percorso è lento, ci si confronta con le associazioni e i comitati di quartiere, con gli studenti, il clima in città è opprimente, non si sono mai avuti movimenti e la supremazia della giunta è quasi bulgara, il sindaco è stato eletto con il 90% dei voti. Si punta a mettere in primo piano il background di esperienze maturate negli anni nell’agro caleno: l’autonomia e l’indipendenza del movimento, la condivisione delle pratiche, l’orizzontalità delle decisioni, la costruzione e il confronto dal basso. I risultati non arrivano immediatamente, la costruzione e la nascita del movimento No-Gas si palesa all’esterno in tutta la sua potenzialità mobilitativa e comunicativa durante il primo consiglio comunale aperto sul gassificatore, in cui la massiccia partecipazione del movimento impedisce lo svolgimento del consiglio che viene rimandato di 15 giorni. Alla nuova convocazione il movimento è ancora più numeroso e dopo essere intervenuto in consiglio comunale i movimenti lasciano l’aula consiliare muovendosi in corteo serale tra le strade cittadine, nasce di fatto il movimento No-gas. La costante resta quella dell’autonomia del movimento, della ricerca e della condivisione di pratiche, cercando di rompere l’immobilismo e di allargare il raggio del movimento, non a caso la prima esigenza è quella di non rinchiudere la vicenda in una dimensione prettamente cittadina ma di allargare il movimento a tutta la zona e a tutta la provincia, in questa direzione si sta lavorando con la carovana No-gas, una serie di incontri divulgativi e di informazione su tutto il territorio provinciale. Al corteo spontaneo originatosi dopo il consiglio comunale di Capua, segue una festa popolare che porterà al primo vero corteo contro il gassificatore del 30 giugno 2012, corteo che sotto un sole cocente, con le scuole chiuse, riesce comunque ad invadere le vie cittadine palesando un movimento ancora in embrione ma capace di comunicare e soprattutto di mobilitare. Inutile dire che a fronte di una comunità non ancora pronta e preparata a uno scontro simile, anche la controparte istituzionale per un buon periodo ha arrancato incapace di contrastare le iniziative del movimento. Solo la pausa agostana ha dato spazio a qualche iniziativa istituzionale, ci si prepara quindi ad un autunno di forte conflittualità sociale cercando di non disperdere il patrimonio collettivo che anche in questo caso si sta costruendo. Fondamentale resta comunque l’apporto di quelle comunità (soprattutto dell’agro caleno) con una maggiore coscienza e maggiori saperi collettivi e di mobilitazione, una sfida che quindi oltre al lato puramente di lotta ci consegna un campo di inchiesta e di indagine da agire nell’ottica della sperimentazione comunitaria, autonoma, dal basso. Il movimento No-gas tranciando le reti della caratterizzazione localistica e nymbista della vicenda ha già apportato una fondamentale innovazione e un sicuro punto di forza, una leva da agire per allargare e costruire nuove istituzioni. Certo anche in questa circostanza non sono mancate e non mancheranno contraddizioni, tentativi di monopolizzazione e/o di sabotaggio dei movimenti e per questo motivo la centralità delle assemblee aperte, democratiche e dal basso resta l’unica formula plausibile e percorribile rispetto a comitati impermeabili, cabine di regia o comunque la volontà di dare una direzione dall’alto alle lotte che risulta in ogni caso fallimentare e disgregante. Il campo di scontro apertosi sul gassificatore di Capua esula la lotta a difesa dei beni comuni tout court per calarsi definitivamente e completamente nella lotta di emancipazione per la costruzione di un comune autonomo, libero, democratico e realmente partecipato.
La lotta tra i poteri del capitalismo locale, con le sue due accezione, quella istituzionale da un lato e quella mafioso-manageriale dall’altro, e le comunità che spingono verso nuove istituzioni, rappresenta un terreno di scontro che non si esaurisce nella lotta contro la costruzione del gassificatore ma che si interseca con la volontà di riappropriazione del tempo e dell’accumulo di ricchezze perpetrate ai danni del territorio e delle comunità, si pone in definitiva come una trincea reale di scontro tra oppressori ed oppressi con inedite e sbalorditive intuizioni in questa terra che dai più è considerata come prona alle volontà dei poteri forti. Le lotte degli anni passati e la lotta al gassificatore stanno dimostrando che all’interno dello scontro per i beni comuni si legge uno scontro generale e di classe che va ad alimentare le pulsioni autonome sui territori; certo si tratta di processi in divenire e che necessitano dei tempi fisiologici di sviluppo, ma che in definitiva ci forniscono, così come è stato in passato, gli strumenti adatti, le relazioni all’interno delle comunità per costruire percorsi di emancipazione e di riappropriazione nel tempo e nei luoghi della crisi. Tradurre queste esperienze e queste forze, queste relazioni, questi saperi collettivi e comunitari anche sul piano della lotta alla crisi del debito, alla volontà/necessità insolvente delle popolazioni che solo in autonomia e tramite la democrazia diretta e dal basso possono incamminarsi su percorsi di reale contropotere per la creazione di rapporti di forza che possono auspicare a conquiste sempre maggiori.
Per questo riteniamo essenziale estrapolare da questa nostra narrazione l’indispensabile autonomia dei movimenti per la loro reale incisività, la condivisione delle pratiche e la capacità di tracciare un ventaglio di pratiche condivise ed assunte anche nelle differenze intrinseche a questi movimenti, la necessità di repellere qualsiasi tentativo di istituzionalizzazione in quanto l’appiattirsi nell’alveo legale-istituzionale significa l’abisso per i movimenti, la possibilità di una maggiore governance e repressione sistemica degli stessi, nonché la sostanziale debolezza che ne produrrebbe solo uno sfibramento lento ed inesorabile come già si è avuto modo di sperimentare in altre occasioni, sia in Campania che in generale in Italia, dove la volontà di portare i movimenti nei palazzi del potere ha sancito di fatto la morte dei movimenti stessi.
Ripartire quindi da un meridione, o meglio dai molteplici sud, da un mediterraneo che sappia connettere le esperienze e i saperi in una dimensione prima Europea, ma soprattutto transnazionale, sulla base della quotidianità delle esperienze, delle lotte e delle nuove costruzioni del comune che vengono dal basso, dai quartieri, dalle periferie, dalle comunità, in definitiva fuori dai palazzi e dentro le strade.
—-
MATERIALE PER L’APPROFONDIMENTO:
La provincia di Caserta laboratorio dell’attacco ai Beni Comuni
http://temporosso.org/2011/12/08/provincia-di-caserta-laboratorio-dellattacco-ai-beni-comuni/
la leggenda di O Mericano
http://www.globalproject.info/it/in_movimento/La-leggenda-di-OMericano/2824
Giggino Nicola e noi
http://temporosso.org/2012/01/14/giggino-nicola-e-noi-considerazioni-a-freddo-sul-mancato-arresto-del-politico-casalese/
sparanise: cronologia di un disastro:
http://retecalenabenicomuni.org/2012/08/02/sparanise-cronologia-di-un-disastro/
la vitalita’ dei movimenti e il nulla delle istituzioni:
http://temporosso.org/2012/04/13/laboratorio-caleno-la-vitalita-dei-movimenti-e-il-nulla-delle-istituzioni/
mappa del danno:
http://retecalenabenicomuni.org/documenti/
Video – Pignataro mal’armata
http://www.youtube.com/watch?v=LDon_Ytr9Ek
Video – Corteo No-Gas a cura del collettivo latrones
http://www.youtube.com/watch?v=0IcIPwsMdTw&feature=related
[1] A tal proposito si veda ( crediamo sia utile rimandare) il nostro documento “La vitalità dei movimenti e il nulla delle istituzioni” che analizza proprio l’incapacità’ non tanto delle persone, bensì dei metodi e dei luoghi a saper accogliere le istanze di autonomia e auto emancipazione delle comunità stesse.
[2] http://retecalenabenicomuni.org/documenti/