Genealogie del futuro – Introduzione
di ADELINO ZANINI e GIGI ROGGERO*
Pubblichiamo l’introduzione al volume “Genealogie del futuro. Sette lezioni per sovvertire il presente” (uscito in questi giorni nella collana UniNomade di ombre corte), che raccoglie il corso di autoformazione Commonware del 2012 “Da Marx all’operaismo”.
Formazione militante. Non è semplice oggi tornare a pronunciare queste parole, ancor meno tradurle in una pratica. Troppo pesante sembrerebbe l’ipoteca delle vecchie “scuole di partito” che su di esse grava. Eppure, questa è la sfida: come ripensare la formazione politica dentro le mutazioni soggettive e le pratiche di movimento contemporanee? È una sfida che UniNomade ha assunto. L’abbiamo chiamata Commonware: è un nome apparentemente criptico e volutamente ironico, scelto per dileggiare i pacchetti didattici delle aziende universitarie, i cosiddetti courseware, rovesciandone il senso dentro la libera cooperazione sociale. Non è un caso, del resto, che le sette lezioni raccolte nel presente volume si siano tenute in sede universitaria (quella di Bologna, nello specifico), simbolicamente e concretamente uno dei principali laboratori dei processi di dequalificazione del sapere critico.
Rifuggiamo però da ogni consunto lamento sull’immiserimento culturale o sulla perdita delle vere conoscenze, tratto caratteristico di un’intellettualità che si sente privata del suo ruolo e, forse, anche dei suoi campi di potere. Il punto è che quel sapere è oggi radicalmente mutato, distrutto nella sua separatezza, immerso senza residui dentro le forme della produzione e dello sfruttamento: oggi, esso è in crisi perché in crisi è il rapporto sociale al cui interno si produce. A questo livello, critica dei saperi significa critica dell’economia politica della conoscenza. La modularizzazione e pillolizzazione dei programmi formativi corrisponde infatti al nuovo ruolo di un’università che ha cessato di essere ascensore per la mobilità sociale, per divenire luogo di produzione di una soggettività precaria e declassata, adeguata alla sconnessione epocale tra il capitalismo e le promesse di progresso individuale. Del resto, la dequalificazione del sapere non solo non contraddice il ruolo della conoscenza ma, al contrario, ne conferma la centralità: nel momento in cui diviene mezzo di produzione, attorno ad essa si gioca la regolazione del valore della forza lavoro e il comando capitalistico. Più il sapere si socializza e s’incorpora nel lavoro vivo, più deve essere frammentato e gerarchizzato.
Per questo, allora, Commonware è dentro e contro l’università della crisi, lo è però in un modo peculiare: estranei a qualsiasi nostalgia per il “pubblico” e per i suoi poteri costituiti, per l’università humboldtiana, collochiamo la sfida formativa su un piano immediatamente costituente, cioè attorno alla nuova organizzazione del sapere. La affrontiamo forti delle esperienze di autoformazione degli ultimi dieci anni, divenute pratica militante dei collettivi di studenti e precari. Eppure, non possiamo nasconderci la frammentarietà che da tempo caratterizza la trasmissione dei saperi negli spazi autonomi di movimento, in quei luoghi, cioè, che costitutivamente si situano oltre la forma-partito.
Da questo punto di vista c’è stato, certamente, un cambiamento nelle figure soggettive della militanza in Italia. Molti di coloro che sono cresciuti politicamente nel “lungo inverno” degli anni Ottanta e Novanta erano spesso sovraccarichi della memoria recente dello straordinario ciclo di lotte dei due decenni precedenti. Ciò ha consentito, a determinati livelli, una continuità intergenerazionale delle conoscenze e ha rafforzato quel bisogno di resistenza che è all’origine, ad esempio, dei centri sociali. D’altro canto, ha spesso procurato una sorta di torcicollo storico, rendendo opaco il presente a vantaggio di un passato irripetibile e anche perciò mitizzato.
Diverso, e per certi versi ribaltato, è il discorso sulla generazione degli anni zero. Non deve più resistere ai colpi della controrivoluzione, perché nasce politicamente dentro le sue convulsioni: è la generazione della fine della spinta “propulsiva” impressa dal neoliberalismo e delle lotte globali contro la globalizzazione capitalistica, di Genova e dei movimenti moltitudinari, della precarietà permanente e della crisi senza fine. A differenza di quanto successo per i militanti con qualche anno in più sulle spalle, il passato tende a sbiadirsi, cessa di essere per tale generazione un’istanza con cui misurarsi necessariamente. Perfino la definizione di “militante” viene spesso sostituita, nei lessici correnti, dal più anglosassone “attivista”.
Nel complesso si tratta tuttavia di un processo ambivalente e come tale va assunto: se da un lato marca l’irriducibile distanza dalle forme di organizzazione rappresentativa, dall’altro rischia però di smarrire – insieme alle stucchevoli malinconie identitarie – anche il senso della determinazione storica del pensiero e delle pratiche (parallelamente cancellato dalle recenti riforme universitarie). In breve, del bagaglio di ricchezze di cui farsi innovativamente continuatori e degli errori da non ripetere. Nostalgia delle radici e assenza di genealogie sono rischi alla fin fine speculari, solitamente si rafforzano per reciproca reazione.
Una “pedagogia” militante deve quindi porsi un duplice obiettivo: la messa in comune dei saperi e il loro ripensamento collettivo. Abbiamo titolato la prima esperienza di questo programma didattico del pensiero rivoluzionario Da Marx all’operaismo. Le lezioni (di cui abbiamo qui volutamente mantenuto la struttura originaria, al fine di non perderne la diretta efficacia e l’immediata fruibilità) sono state seguite in modo continuativo da parecchie persone, giovani e meno giovani, studenti e militanti; molti altri, diverse centinaia per ogni appuntamento, hanno scaricato i video dal sito di UniNomade.
Il titolo scelto è molto chiaro, forse troppo per non aver bisogno di almeno un paio di precisazioni. Innanzitutto, non si vuole in questo modo confinare dentro uno stretto recinto un’unica conoscenza indispensabile all’agire politico, né tanto meno fare della rilettura marxiana proposta dall’operaismo ciò che – ontologicamente, verrebbe da dire – non è mai stata, cioè un’ortodossia o una scuola. Da Marx all’operaismo significa, piuttosto, fissare i fondamentali, condividere un metodo, aprire quella straordinaria eredità alla verifica del presente. Quanto alla seconda precisazione, essa può essere tratta da quanto scrive Lenin all’inizio di Stato e rivoluzione, ove si ricorda – riferendosi alla dottrina di Marx – come le classi dominanti abbiano sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, perseguitandoli implacabilmente durante il corso della loro vita, salvo poi, dopo morti, trasformarli in icone inoffensive, canonizzandoli.
Accade, appunto, che mentre nell’università italiana Marx viene rimosso e la tradizione di ricerca dell’operaismo, già perseguitata, cancellata, nel modello aziendale anglosassone si tenti di ridurre il primo a questione filologica, la seconda a “Italian theory”, disincarnando entrambi dalla materialità di lotte, composizioni di classe e genealogie storiche. Frullati in questa macchina di depoliticizzazione, tenuti a distanza di sicurezza dall’azione sul presente e privati della loro irriducibile parzialità, ovvero del loro essere strumento di organizzazione di parte, non ne resta che un vuoto codice teorico, attorno a cui recintare nuovi campi di micropotere accademico dopo la crisi delle discipline storiche. Insomma, la canonizzazione è la continuazione della persecuzione con altri mezzi; o, per dirla altrimenti, interviene proprio laddove non può arrivare la persecuzione.
I concetti a cui i testi qui raccolti ci introducono sono invece corpi vivi, elementi dinamici di trasformazione, espressioni della potenza creativa delle lotte. Questa è la prima lezione che abbiamo imparato da Marx e dall’operaismo. Sono sufficienti? Evidentemente no. È lampante, e lo ripetiamo da molto tempo, che la critica dell’economia politica di Marx (qui analizzata da Adelino Zanini) debba essere aggiornata e perfino ripensata dentro le trasformazioni produttive degli ultimi decenni; oppure, che il concetto di composizione di classe – per come è perfettamente presentato da Sergio Bologna, forgiato dentro le coordinate del rapporto tra fabbrica taylorista e società fordista, tra capitale fisso e capitale variabile, tra produzione e riproduzione – vada oggi messo a verifica e in buona misura rielaborato. Ma questa inquietudine della ricerca è implicita in ogni movimento di pensiero sovversivo, dichiaratamente ostile all’ossificazione in una scuola.
A partire da quell’atto di volontà originario dell’“andiamo alle fabbriche”, per usare le parole di Toni Negri, l’operaismo costruì un pensiero e una pratica rivoluzionaria, ritornando a Marx in radicale rottura con il marxismo, per condurlo cioè di fronte ai cancelli di Mirafiori e al petrolchimico di Porto Marghera, per farne uno strumento di organizzazione dell’autonomia operaia. Il rovesciamento del punto di vista – secondo l’adagio “prima le lotte, poi il capitale” – costituiva lo sguardo con cui l’operaismo stesso osservava il mondo, e con cui noi continuiamo a guardare per trasformarlo. È lo sguardo che ci ha permesso di far agire la duplicità delle categorie marxiane, perché questa è la determinazione che opera nel rapporto sociale capitalistico: duplicità vuol dire antagonismo, rapporto di forza, irriducibilità del punto di vista di parte, possibilità della rottura rivoluzionaria. Da allora abbiamo definitivamente dato l’addio a Mr Socialism. Quel movimento di pensiero, lungi dal rivendicare una sterile linearità di percorso, ha saputo anticipare i mutamenti del lavoro vivo, anche attraverso salti e rotture, incontrando altri movimenti di pensiero, dalla critica femminista (di cui parla Alisa Del Re) al post-strutturalismo, sino agli studi postcoloniali.
Studiare l’oggetto – la realtà storica concreta del capitalismo – esattamente per distruggerlo, si scriveva un tempo. E tuttavia, per ripensare a fondo, perfino da capo, concetti e categorie è necessario possederli interamente. Com’è possibile, ad esempio, combattere i processi di finanziarizzazione senza conoscerne le radici materiali illustrate da Christian Marazzi? Oppure, come non rischiare di ricadere nella nostalgia di una “forma” costituzione già interamente destrutturata, quando non si identifichi – come fa Sandro Chignola – la sua matrice in quel “semplice oggetto d’odio” che è lo Stato?
L’inapplicabilità o perfino la nocività di modelli del passato, dicevamo. Il problema è “che fare”, ora. La libertà di sperimentazione, un nietzscheano elogio dell’assenza di memoria, divengono infatti produttivi solo se si indirizzano alla ricerca di nuove forme di organizzazione basate sulle trasformazioni della composizione di classe. Diventano però caricaturali se coincidono con l’idea che di quello che sta alle nostre spalle sia possibile disfarsene senza comprenderlo. Il salto in avanti non ha infatti nulla a che vedere con la rimozione: per rompere bisogna conoscere. Commonware è perciò un machiavelliano ritorno ai princìpi, un metodo comune che diviene prassi trasformativa. Questa prassi continuiamo a chiamarla conricerca, nei termini in cui è spiegata da Federico Chicchi e Salvatore Cominu. Oggi non andiamo più alle fabbriche, perché è la fabbrica stessa a essere esplosa mettendo al lavoro la società e l’intera vita. È la fine della tradizionale separatezza ed esternità tra militanti e operai: intellettualismo e anti-intellettualismo, ancora così presenti nei movimenti, sono due lati della stessa incapacità di comprendere la completa internità del lavoro cognitivo alla composizione di classe, dunque il suo ruolo di soggetto delle lotte e dello sfruttamento.
Allora, qual è la formazione militante adeguata al divenire classe del general intellect? Come UniNomade abbiamo iniziato a farci carico di questa domanda, ben sapendo che questa ricerca o è comune oppure non è. D’altro canto, riappropriazione del sapere significa nuova istituzione di una potenza comune immanente alla produzione di soggettività e continuamente frammentata dal comando capitalistico. Per cominciare a muoverci in questa direzione, con Commonware stiamo creando quella che, usando un’immagine tanto efficace quanto abusata, possiamo definire una cassetta degli attrezzi. Queste lezioni vanno perciò intese come arnesi, da usare e riprodurre creativamente, per attrezzare il pensiero e dirigere la pratica politica. Arnesi di parte, da trasformare in macchine – macchine da guerra nomadiche, se vogliamo dirla con i maestri francesi. Non abbiamo modelli di riferimento per una formazione del comune, certo, ma questa non può più essere una giustificazione: iniziare a costruirli, sperimentando per prova ed errore, è il nostro compito. La talpa non ha mai smesso di scavare – e forse mai come oggi scalpita, giovane e inquieta.
* Stefano Casulli, Salvatore Cifaldi, Marilena Fioravanti, Piero Lunetto, Simone Santorso, Jacopo Sermasi hanno attivamente partecipato al laboratorio di Commonware e si sono occupati della trascrizione delle lezioni: un grazie per il loro paziente e decisivo lavoro.