I confini interni del colore
di GISO AMENDOLA
Una recensione a La razza al lavoro (a cura di Anna Curcio e Miguel Mellino, manifestolibri 2012).
Le razze non esistono. Nessuna persona dotata di un minimo di buon senso democratico si sognerebbe oggi di negare quest’affermazione. Così, a lungo si è contrapposta, all’oscurantismo dei razzismi, al loro feroce irrazionalismo, una buona e civile pedagogia antirazzista, che considera la razza un buco nero ideologico, una nozione scientificamente infondata. Basterebbe, secondo questa pedagogia, diffondere gli onesti lumi della ragione, rischiarare le tenebre dell’ignoranza, mostrare una serie irrefutabile di fatti scientifici che rendano evidente a tutti come il dogma dell’ineguaglianza delle razze non sia altro che una balla feroce. Il cosiddetto “paradigma antirazzista dell’Unesco”, sviluppatosi nel secondo dopoguerra, ha concepito appunto la pratica antirazzista come un buon esercizio illuministico di educazione civica.
Uno degli assunti che rendono questo La razza al lavoro (manifestolibri, pp. 172, euro 24), curato da Anna Curcio e Miguel Mellino, un libro intelligentemente provocatorio, capace di mettere in discussione terreni consolidati, e di aprire il campo alla sperimentazione di nuove pratiche politiche nelle lotte antirazziste, è che sia urgente rovesciare questa pedagogia illuministica. La razza non è un residuo irrazionale del passato, curabile attraverso un discorso civico “progressista” e rischiaratore. E che le razze propriamente non esistano, non significa per nulla che siano riducibili a una semplice menzogna ideologica. Contro ogni riduzione “culturalista”, Curcio e Mellino insistono invece sulla dimensione materiale e strutturante del razzismo: il discorso della razza, intrecciato sin dall’inizio al dominio di classe, è un dispositivo di comando centrale di tutte le formazioni capitalistiche moderne.
L’illusione illuminista
Così mancano il bersaglio quelle tendenze che, specie in sociologia e in antropologia, hanno adottato, come strumento di critica della razza e del razzismo, un semplice antiessenzialismo costruttivista. Insistere, ancora una volta, sul fatto che dietro la razza non ci sia nessuna “realtà”, essendo la razza null’altro che una “costruzione sociale”, compie, certo in modo più sofisticato, lo stesso errore della vecchia pedagogia illuminista: confonde “costruzione sociale” con mera “finzione”. Ma il costruttivismo non dovrebbe dimenticare che il fatto che la realtà sia costruita socialmente, non significa che i dispositivi che la costituiscono non siano dispositivi materiali, che agiscono entro specifici rapporti di forza, e che solo da un’analisi materialisticamente radicata possono essere efficacemente criticati e trasformati.
Dal punto di vista politico, poi, la pedagogia illuministica, con la sua illusione di dissolvere razionalisticamente il mito della razza, è stata gravemente controproducente: relegando il razzismo ai margini della modernità capitalista, come elemento secondario e non costitutivo, e riducendolo a fenomeno di rifiuto del progresso, ha finito per assolvere, in larga misura, proprio quella modernità e la sua idea di sviluppo. In questo modo, l’antirazzismo pedagogico ha non solo rivelato la sua stessa natura eurocentrica, ma, soprattutto, è servito agli europei come meccanismo consolatorio e rafforzativo della fiducia nella propria identità antirazzista, come ben sanno gli “italiani brava gente”. Battezzare il razzismo come fenomeno di arretratezza culturale e di mera mistificazione, dispone, per esempio, a credere che esso sia una patologia di cui la cittadinanza come strumento di integrazione sia la cura: tagliando fuori così tutti quegli aspetti per cui la stessa cittadinanza, in realtà, appare piuttosto come un problematico campo di battaglia tra inclusione ed esclusione. A questo proposito, Costanza Margiotta ricorda, indagando la disciplina giuridica delle migrazioni, come il diritto contemporaneo, a partire dalla costruzione stessa della cittadinanza europea, partecipi ampiamente ai processi di razzializzazione in atto in Europa: bene farebbero allora i giuristi a divenire pienamente consapevoli della presenza del discorso della razza nella cultura delle maggiori istituzioni giuridiche.
Usando un termine preso in prestito dalla psicanalisi di Lacan, i curatori sintetizzano la posizione della razza nell’ordine del discorso contemporaneo come una posizione di forclusione: non semplicemente represso o rimosso, il discorso della razza viene escluso dall’ambito del dicibile e del simbolico. Ma, proprio attraverso l’esclusione di quell’elemento “sporco”, il discorso civile e apparentemente antirazzista riesce a garantirsi la stabilità, o almeno una parvenza di compattezza. Ancora una volta, un’esclusione costitutiva, contro la quale lo stesso nominare esplicitamente la persistenza della razza significa mettere all’opera una potente politica della memoria, capace di forzare quella forclusione, e di far emergere quello che non deve essere detto, né pronunciato. Diversi saggi, nel volume, sperimentano nel corpo vivo della storia italiana questa politica della memoria. Davvero forclusa, per esempio, nelle celebrazioni dell’Unità italiana, è risultata la presenza della razza, operante sin dall’origine spuria di quell’Unità; e anche qui, non ai margini, in qualche angolo dell’irrazionalismo reazionario, ma nel positivismo “scientifico” di un Alfredo Niceforo, che, con la teoria delle due razze, “ariana” al Nord e “negroide” al Sud, traduceva nel linguaggio del determinismo biologico le concrete pratiche di produzione di subalternità che avevano caratterizzato l’immediato periodo postunitario. Un positivismo che, come segnala Caterina Miele, avrà non poco ruolo nel costruire in seguito la linea del colore nella colonia italiana.
Inclusione escludente
Antimeridionalismo e colonialismo strutturano in profondità la stessa costituzione materiale dell’Unità italiana: così, la razza riemergerà prepotente come dispositivo di gestione delle migrazioni interne del secondo dopoguerra, quando la costruzione apertamente razzista dell’“alterità” dei meridionali diventerà strumento fondamentale per il controllo dei flussi di una forza lavoro mai semplicemente bloccata, perché necessaria, ma allo stesso tempo costantemente inferiorizzata, perché sempre temuta. E temuta a buona ragione, in quanto sempre capace di scagliarsi contro i dispositivi di sfruttamento, come le lotte degli anni Sessanta, protagonisti i giovani meridionali, mostreranno (si veda l’attenta analisi delle migrazioni interne di Enrica Capussotti). E così oggi, in vario modo, la razza continua a funzionare come dispositivo di controllo e gestione della forza lavoro. Vero “supplemento interno nella costruzione del mercato del lavoro” (Queirolo Palmas), certo non divide linearmente gli esclusi dagli inclusi e si articola piuttosto su processi di gestione complessi e stratificati, nel segno di un’inclusione escludente. La complessità dei dispositivi di razzializzazione è oramai tale, anzi, da appropriarsi spesso dello stesso discorso egualitario: come accade ai discorsi sull’uguaglianza di genere e di orientamento sessuale, ritradotti non poche volte in chiave razzistica e nazionalista, come sottolinea Chiara Bonfiglioli, ricordando le ricerche femministe in tema di omonazionalismo. Ma questa governance contemporanea continua pur sempre a trovare nella razza non un semplice supplemento psicologico o una copertura ideologica, ma un concreto dispositivo di creazione di subordinazione e di sfruttamento.
Il libro, però, non si limita a mappare il ruolo della razza nella sua lunga durata, seguendolo sino agli sbarchi di Lampedusa, dove, quasi a sintetizzare la storia italiana della razza, antimeridionale e coloniale, si è visto all’opera un vero e proprio doppio razzismo, verso i migranti internazionali e verso i meridionali, rappresentati come “incapaci” a contenerli (Gatta). La razzializzazione non è riducibile a una esclusiva e lineare dimensione di sfruttamento e dominio: piuttosto, è un campo di battaglia, attraversato continuamente da lotte che sanno anche ribaltare il significante razza, sino a trasformarlo da dispositivo di assoggettamento a dispositivo di soggettivazione. La razza è anche resistenza, e, come insegna l’approccio post-coloniale, attraverso la resistenza sa inscrivere una libertà insopprimibile nel cuore degli stessi processi di razzializzazione. Non solo quindi un uso decostruttivo e critico della razza: una possibilità di rovesciamento certo non priva di rischi, e nel libro c’è infatti chi, come Renate Siebert, non nasconde la sua posizione critica verso un potenzialmente pericoloso uso in positivo del significante razza.
Rovesciamenti paradossali
I conflitti hanno insegnato, per esempio, come l’uso dell’esibizione dello stereotipo per far saltare lo stereotipo stesso sia una delle armi ironiche più produttive per evidenziare i processi di razzializzazione e minarli dall’interno: come il “Django Unchained” del regista Quentin Tarantino che ci sbatte in faccia, portandola all’estremo e rovesciandola paradossalmente, tutta la sua “razza”. Ma, anche al di là degli usi ironici, sta di fatto che il significante razza muove le lotte, le colloca in una specifica differenza, in una parzialità concreta, critica di ogni universalismo astratto e di qualsiasi tipo di ricaduta nelle retoriche dell’integrazione (Grappi). La sfida autentica consiste allora nell’orientare questi movimenti, queste pratiche di soggettivazione – come scrivono i curatori – non verso una “semplice rivendicazione della differenza”, ma “verso la produzione del comune”. Questo è il cruciale problema di un antirazzismo non retorico e non pedagogico: coniugare insieme la specificità delle soggettivazioni migranti, con l’articolazione di “nuove configurazioni di uguaglianza e libertà” (Mezzadra). Si tratterebbe di imparare a leggere la parzialità insopprimibile delle lotte di subalterni e razzializzati, non come un significato chiuso e identitario, ma come un significante aperto, segno dell’eterogeneità del lavoro vivo contemporaneo, ma anche motore della sua possibile ricomposizione.