I luoghi della lotta di classe: per fare conricerca
di COLLETTIVO UNINOMADE
1) In un recente intervento su “il manifesto” Mario Tronti riconosceva all’esecutivo Monti il “merito” di “riaprire la questione sociale”. A differenza del precedente, questo governo “pratica l’obiettivo” in una cristallina logica di classe, guadagnando il plauso di stakeholder per niente occulti e di chi, accecato dai fin troppo esibiti curricula di ministre e ministri, tralascia di valutare il segno delle riforme adottate e in cantiere.
Se il lascito della lunga fase di destrutturazione del “capitalismo organizzato”, apertasi negli anni ’70 del secolo scorso, è l’immane redistribuzione di ricchezza e potere dai subalterni alle classi dominanti, la continuità del governo Monti con le dottrine e le pratiche neoliberali degli ultimi trent’anni sono alla luce del sole. Il salto di qualità nell’attacco sferrato al salario differito (pensioni) e a quello socializzato nel welfare e nei servizi collettivi (bersaglio dell’austerity istituzionalizzata nella stabilità finanziaria delle amministrazioni), si salda senza soluzione di continuità con la “modernizzazione” del mercato del lavoro. Che a scanso di equivoci, c’informano, vale duecento punti di spread, assunto esplicativo delle sinergie tra finanza e mitologica “economia reale” (il cambiamento delle regole su licenziamenti e contrattazione collettiva, prima che prescrizione dei mercati, è un claim di Confindustria). Alla ristrutturazione e aggiustamento delle norme regolanti i rapporti di produzione occorrerà dedicare analisi meno episodiche, in grado di esplicitarne disegno ed effetti materiali. Basti qui evidenziare che, lungi dal distinguersi per innovazione, l’esecutivo interpreta alla lettera prescrizioni da tempo diffuse dai think tank neoliberali e filoaziendali.
É qui e ora, dunque, che occorre riaprire il cantiere della ricerca militante sul capitalismo e sulle soggettività del conflitto. Nel capitalismo cognitivo, finanziario e globale, il conflitto si dà nell’eterogeneo campo dell’espropriazione del comune, sul territorio prima che nelle imprese. E tuttavia, sono anche i limiti incontrati dalle lotte del 2011 (in termini di forza vulnerante) a porre all’ordine del giorno un surplus di conoscenza “situata” sui modi in cui si realizzano, e di come cambiano nella crisi, produzione e cattura della ricchezza sociale, e per converso dei possibili punti di rottura dei dispositivi di espropriazione. Detto altrimenti, l’analisi di come “lavora il capitale” e di come si lavora contro di esso, a partire dai bacini che condensano e raccolgono il valore (le imprese).
Il discorso sull’impresa, per la sinistra politica e per il sindacato, appare attestato da una parte sulla critica degli eccessi della finanza contro l’economia reale, e dall’altra sul venire meno dei patti neocorporativi degli anni ’70 e della concertazione degli anni ’90. Specularmente, sul versante del lavoro, il discorso oscilla tra l’acritica “difesa dell’occupazione” e la richiesta di una diversa regolazione della flessibilità, che mitighi l’impatto degli impieghi a termine (con questo, va da sé, non intendiamo sminuire la resistenza Fiom nelle industrie metalmeccaniche). Ora, è innegabile che il ricatto dell’exit della produzione diretta e quello della precarietà siano aspetti cruciali per attrezzare un campo in cui il “lavoro” sia costretto a inseguire il “capitale”. Questa visione, oltre che politicamente ridotta al richiamo morale a inesistenti forze progressive, appare tuttavia interna al paradigma, irrimediabilmente in crisi ma del quale si auspica nondimeno il ripristino, basato sul nesso tra profitti e produzione di ricchezza sociale che sottostava al capitalismo industriale. E che è stato destrutturato dalle rivolte operaie, dalle donne e dalle nuove generazioni non più disposte a subire la divisione sociale e di genere del lavoro che sorreggeva il fordismo.
É intuitivo, con queste premesse, comprendere perché in questi anni sia stato e sia tuttora necessario calcare l’attenzione sulle nuove coordinate metropolitane del conflitto del lavoro cognitivo e sulla strutturale eccedenza della produzione rispetto ai suoi tradizionali luoghi di organizzazione. Non si è trattato di negare la permanenza di forme niente affatto innovative di sfruttamento (anche del lavoro intellettuale), né di stilizzare una schematica distinzione tra lavoro industriale e postfordista. Si è trattato piuttosto di porre al centro del discorso non la subordinazione ma la potenza del lavoro vivo cooperante nel nuovo capitalismo, dentro e fuori l’impresa. Una potenza che risiede nella rilevanza assunta, nell’accumulazione cognitiva, dalle qualità inalienabili del lavoro (il sapere, l’esperienza, le abilità, l’affettività, la capacità di cooperare, comunicare, immaginare). Nel capitalismo contemporaneo convivono e si alimentano reciprocamente, sebbene non senza “conflitti interni”, forme di accumulazione finanziaria, cognitiva e industriale (e finanche proto-industriale) che sono da indagare nella loro compresenza, ma anche nella loro articolazione gerarchica. Enunciare la compresenza senza cogliere relazioni di potere, implica infatti la rinuncia a individuare punti di crisi e centri di comando, tutt’altro che diluiti in un capitalismo liquido e orizzontale.
Da qui l’attualità dell’inchiesta sulle forme della produzione/valorizzazione e sulla soggettività del lavoro vivo. Per noi l’impresa non può essere pensata come baluardo contro la finanziarizzazione dell’economia, né d’altra parte esclusivamente come forma convenzionale del comando sul lavoro. L’impresa, nel nuovo capitalismo, è anzitutto una forma di generazione e di corruzione del comune, per citare Commonwealth. Il punto ci sembra importante: per molte persone le imprese sono i soli luoghi ove cooperare con altri e partecipare a progetti collettivi, sfuggendo dall’isolamento. Più precisamente, “gli unici spazi che permettono un accesso, ancorché distorto, al comune”.
2) Ma cosa sono oggi le imprese reali? Oltrepassate da una nuova economia del tempo (che abolisce le frontiere tra vita e lavoro) e dello spazio (con la messa in produzione della metropoli e dei territori), dal confondersi di profitto e rendita, come dalla proliferazione delle lotte nell’esaurimento politico del nesso fabbrica-società, l’impresa sembra dissolversi sia come principale sede produttiva di valore sia come luogo del conflitto. Ciò, tuttavia, non significa cedere a un pensiero dell’indistinzione. La “fabbrica metropolitana” del capitalismo finanziario, cognitivo e globale è anzitutto da indagare nella sua materialità: non va immaginata come una superficie liscia senza grumi che sussume la cooperazione sociale e senza attori che “passano all’incasso” tirandone le fila, grazie al presidio del canale finanziario, del brand e delle reti commerciali. Questi grumi vanno individuati e indagati, alla ricerca dei punti di crisi e rottura. É anche a questo livello, peraltro, che si pone la prospettiva dello sciopero precario.
Si badi: non si tratta di restaurare la gerarchia tra fabbrica e società, tra confini che sono stati ecceduti e destrutturati dalle lotte operaie e proletarie degli anni Sessanta e Settanta, dall’emergere di una nuova composizione di classe che assume l’eterogeneità e le differenze come tratto costitutivo e irriducibile. Ma dal momento in cui, per rispondere a quelle lotte, la società si è fatta impresa, al suo interno si ridisegnano gli spazi, anche flessibili o temporanei, della produzione e cattura del valore, i suoi differenti gradi di intensità. Non è, repetita iuvant, il centro di una mitologica “economia reale”: al contrario, nei pervasivi flussi della finanziarizzazione reale, il punto è che l’impresa è un bacino attraverso cui si raccoglie e condensa il valore. Ed è, per converso, un potenziale punto di applicazione della forza per rovesciare il processo. Al di là di contraddizioni e ambiguità che richiedono ben altro spazio di approfondimento, ci sembra che le recenti lotte – dai “forconi” agli autotrasportatori – mostrino quantomeno il carattere nevralgico di specifici gangli produttivi, dove (è il caso della logistica) si combinano conoscenze complesse, organizzazione flessibile, sfruttamento ergonomico e mentale.
Dunque, per quanto potenti siano le disposizioni di assoggettamento (l’indebitamento individuale e collettivo, la delocalizzazione, il ricatto della precarietà e dell’assenza di reddito, la minaccia di espulsione) e i dispositivi patologici interiorizzati nel lavoro vivo, fatichiamo a intravedere progetti di appropriazione del comune che non affrontino questo nodo. Chiariamo: laddove la produzione diventa comune, l’imprenditore schumpeteriano è morto: il capitale deve catturare a valle ciò che sempre meno riesce a organizzare a monte. Ed è qui, dal punto di vista di una tendenziale autonomizzazione della cooperazione sociale, che vanno colti i mutamenti reattivi della forma-impresa: nella sua accezione più ampia, essa diviene macchina organizzata per la captazione di valore sociale, governance di economie di apprendimento e di rete, che remunera i “catturatori” in modo diretto (salari adeguati, benefit, stock option, premi) e indiretto (prestigio, status, e via di questo passo). Senza rottura di questa macchina le istanze di liberazione, sottrazione, socializzazione rischiano continuamente di essere assorbite. La rottura della macchina di cattura è passaggio fondamentale ancorché non sufficiente per appropriarsi del comune e, dunque, creare nuova istituzionalità.
3) Queste tendenze devono essere situate nella materialità dei processi imposti dal divenire della crisi. Che ci obbligano, nuovamente, a focalizzare l’intreccio tra accumulazione finanziaria, cognitiva e industriale, come modi peculiari e tuttavia intrecciati di estrazione di plusvalore e di sfruttamento. Sia per leggerne la configurazione data, sia per coglierne le trasformazioni. Soprattutto per individuare nella ristrutturazione del capitalismo i possibili terreni di contesa e di contro-soggettivazione.
Un primo campo di inchiesta da interrogare riguarda la produzione dei servizi collettivi e di welfare. Non solo poiché oggetto di tagli, ma anche in virtù dei processi di privatizzazione e aziendalizzazione avviati e soprattutto da avviare, si configurano come importanti terreni di conquista da parte di investitori finanziari e industriali. I settori dell’istruzione, della sanità, dei servizi personali sono tra i pochi che anche nella crisi, in Europa e negli USA hanno incrementato il numero degli occupati. Insieme ai servizi pubblici locali, inoltre, sono oggetto di crescenti interessi e piani d’investimento.
Quali saranno le risposte dei lavoratori coinvolti a fronte delle prevedibili ristrutturazioni? Chiusura difensiva delle prerogative del lavoro di pubblica utilità (quelle che la pubblicistica neoliberale chiama sfrontatamente privilegi)? Oppure, in questo passaggio, a fronte di forme date di resistenza e conflitto (sulle quali possiamo scommettere, ma che non sono preventivabili), si apre uno spazio ove sperimentare l’alternativa delle produzioni basate sul comune? Scommettere quindi su un’alleanza tra lavoratori e fruitori dei servizi che dia risposta ai fatidici quesiti del cosa, come, per chi produrre?
Indagare le trasformazioni dell’impresa del welfare e dei servizi collettivi ci aiuta anche a dipanare la matassa del rapporto tra privato, pubblico e comune. Da questa angolazione si può facilmente vedere come il “pubblico” non solo è oggi luogo di poteri costituiti avversi a ogni apertura al comune, ma è già in realtà privatizzato. Lo abbiamo rimarcato a proposito di scuola e università, mettendo a critica – dentro i movimenti – le posizioni attestate sulla linea di peraltro poco probabile preservazione dello status quo. Il modello anglosassone della corporate university ci mostra come il processo di aziendalizzazione del sistema formativo vada al di là degli statuti giuridici e travolga la distinzione tra pubblico e privato, creando un nuovo paradigma di organizzazione del lavoro e della cattura. Si pensi ancora, per citare un’altra impresa del welfare, alla sanità. Mentre gli ospedali devono riorganizzarsi secondo il calcolo costi-benifici, la razionalità manageriale e la competizione di mercato, i servizi socio-assistenziali sono in buona misura esternalizzati (al cosiddetto privato sociale), oppure scaricati direttamente sulle famiglie e sugli individui, che dell’impresa devono accettare la supposta responsabilità senza averne in cambio nulla, vedendo così ulteriormente decurtata una fetta del salario complessivo. Cos’è il pubblico oggi se non quello del new public management, cioè dei poteri costituiti dallo Stato e dal mercato? Potremmo quindi dire che, nella dissoluzione della dialettica tra pubblico e privato, l’alternativa non è tra comune e pubblico, ma tra comune e privato, essendo il pubblico una variante a quest’ultimo interna. Conseguentemente, la questione che le lotte pongono va letta nei termini della transizione, a patto di sottrarre tale concetto alla politica dei due tempi in cui è stata tradizionalmente intesa, per ripensarla interamente e immediatamente a partire dalla potenza costituente dei movimenti e del lavoro vivo contemporaneo.
4) In questo quadro, però, ci dobbiamo interrogare non solo su come il comune viene prodotto e catturato, ma su cosa impedisce la sua organizzazione collettiva. Dobbiamo quindi mettere al centro dell’inchiesta i processi di soggettivazione. Cosa significa, da questa prospettiva, sostenere che l’impresa è oggi l’organizzazione dei catturatori del comune? Esistono, innanzitutto, dei dispositivi di differenziazione delle modalità di inclusione nel mercato e degli schemi redistributivi che poggiano su basi generazionali, di razza e di genere. Tutto sommato, anche il progetto di trasformazione del welfare della ministra Fornero potrebbe essere utilmente analizzato da questa angolazione. In secondo luogo, ci sono modelli peculiari delle imprese della cattura, strutturati dalla necessità al contempo di stimolare e segmentare la cooperazione sociale. Dunque, dalle imprese antropogenetiche (della produzione dell’uomo attraverso l’uomo) alle istituzioni bancarie e finanziarie, passando per le aziende del web 2.0, il comune è risorsa estrema e minaccia mortale del capitalismo contemporaneo. Per frammentarlo senza segare il ramo su cui sono sedute, le imprese devono diventare forma di organizzazione delle patologie del lavoro cognitivo. Ci sembra utile leggere in questi termini, anziché in quelli tradizionali dell’ideologia, il professionalismo e la meritocrazia, in quanto organizzazioni discorsive che si basano sulla materialità del reale e, mistificandone i rapporti di classe, producono effetti patogeni. Ciò assume caratteri tutt’altro che metaforici: le sempre più diffuse forme di depressione o di ciclotimia rappresentano non la riproduzione o il ritorno di modelli tayloristici, bensì la sofferenza specifica e storicamente determinata del lavoro cognitivo, legata alla performance, alla competizione, alla subordinazione o complicità con gli apparati di cattura. Qui si apre un nuovo campo di ricerca e una straordinaria sfida per la medicina del lavoro. Né può essere elusa, in questa riflessione, la tensione all’aziendalizzazione del sociale restituita dai concetti chiave del biopotere neoliberale: capitale umano, risorsa umana, empowerment, rischio, ecc. Questo apparentemente neutro regime semantico fa della razionalità d’impresa qualcosa che eccede il suo campo e s’impone tout court come modello cognitivo e regime di verità.
Infine, il blocco del comune è affidato a quelli che potremmo chiamare meccanismi di prescrizione della soggettività. Nella macchina di cattura l’etica del lavoro – progressivamente consumatasi nelle lotte e nei processi di precarizzazione – diventa etica della responsabilità sociale. Nelle imprese del welfare ciò è immediatamente tangibile: come fa una badante, un infermiere o un lavoratore di una cooperativa sociale a scioperare, rifiutare i propri compiti o addirittura sabotare la macchina senza essere marchiato dal pubblico stigma e, prima ancora, bloccato dalla sua interiorizzazione individuale? Ma questa responsabilizzazione si è estesa, per diventare meccanismo di ricatto complessivo: lo vediamo nelle mobilitazioni dei ricercatori, preoccupati di venir meno alla loro missione, o dei precari, sottoposti alla responsabilità dell’essere imprenditori della propria condizione, oltre che produttori di servizi per gli altri. Chiariamo: è evidente che lo specifico rifiuto del lavoro dell’operaio-massa non è riproducibile dentro le trasformazioni produttive degli ultimi decenni, l’esplosione della forma-salario, l’essere fuori misura delle lotte. E tuttavia, nel momento in cui l’intera composizione del lavoro vivo è socialmente sfruttata, il punto è quali forme di rifiuto storicamente determinate sono praticabili, innanzitutto in quanto rifiuto dell’organizzazione della cattura e della socializzazione delle “responsabilità”, ovvero dell’“interesse generale” del capitalismo in crisi.
Ancora una volta, rottura delle strutture di captazione del valore significa creare nuove istituzioni della cooperazione sociale. Spezzare i dispositivi dell’indebitamento vuol dire, ad esempio, riappropriarsi della rendita sociale, interrogarsi su che cosa vuol dire costruire i soviet nelle banche e dentro le imprese finanziarie.
5) Il problema, allora, non è restaurare bensì portare fino in fondo lo scioglimento del patto di fedeltà tra capitale e lavoro. Finché i sindacati non se ne rendono conto sono condannati a essere – consapevolmente o passivamente – subalterni all’iniziativa dell’impresa, oppure a una resistenza marginale o settoriale di corto respiro. Le vicende dell’ultimo anno e mezzo, tra il ruolo di agente della governance della crisi definitivamente scelto dalla dirigenza Cgil e la prevedibile sconfitta della Fiom, ci sembrano piuttosto indicative. Come rompere, allora, i dispositivi di inclusione differenziale, patologizzazione e ricatto del lavoro vivo contemporaneo? Come praticare forme di sciopero metropolitane e non esclusivamente settoriali, capaci cioè di agire nell’intreccio tra impresa e produzione biopolitica? Come pensare, ad esempio, a uno sciopero dei trasporti in cui treni e bus viaggiano gratuitamente per tutti, negli ospedali non si fanno pagare i ticket, la formazione viene strappata alla gestione pubblica e ripensata dentro la cooperazione del sapere vivo? Non è questo ciò a cui l’ipotesi dello sciopero precario allude? Sono le importanti anticipazioni che avevamo colto, a metà degli anni Novanta, nei grandi scioperi francesi e che oggi andrebbero riprese e sviluppate nella costruzione di istituzioni del comune. Ciò completerebbe, attraverso l’appropriazione dei rubinetti e dei bacini di condensazione del valore, l’aspetto costituente che i movimenti degli “indignados”, “occupy” e No Tav profilano.
In altri termini, la questione non è un’alleanza tra differenti movimenti o tra blocchi sociali, che presupporrebbe un meccanismo di rappresentanza definitivamente esauritosi. Si tratta, invece, di costruire una politica della composizione, scommettendo collettivamente sulla possibilità di rovesciare i processi di soggettivazione che si determinano nella tensione tra produzione del comune e cattura imprenditoriale. A scanso di equivoci, ribadiamo che non stiamo affatto sostenendo una mitologica centralità dell’impresa per la lotta di classe dei nostri giorni; si tratta invece, nella moltiplicazione delle fabbriche della soggettività, di individuare i campi di sedimentazione e accumulo di autonomia, i suoi tratti di generalizzazione, gli elementi paradigmatici o peculiari rispetto alla composizione del lavoro vivo, i punti in cui far male ai padroni. Del resto, inchiesta per noi non significa fare “sociologia del capitale”: altri lo fanno probabilmente meglio, certamente per il nemico. Se ci interessa ragionare di impresa, forme di soggettivazione e della cattura della cooperazione sociale, è perché riteniamo che anche in questo spazio viva la possibilità di una soggettivazione autonoma, che contiene in nuce potenzialità di de-impresizzare, per così dire, la cooperazione sociale. Fare inchiesta significa dunque porsi nella condizione di abitare campi di conflitto possibili, se si vuole – questa la scommessa – di organizzare il discorso del conflitto, far saltare i tappi che trattengono l’emergenza della composizione politica del lavoro vivo, aprire spazi costituenti. Significa, cioè, liberare le forze soggettive e politiche autonome oggi bloccate dai recinti della rappresentanza, interna ed esterna ai movimenti. É, poi, attraverso una ricerca ed un lavoro di organizzazione intesi ad unificare nella lotta i poveri e gli strati impoveriti della classe operaia e della cosiddetta classe media, che la ricerca diventa “con”, ovvero dispositivo di lotta che unifica quel che ne resta, della classe operaia, e gli altri strati impoveriti della società. È evidente che è soprattutto nelle strutture, negli spazi e sui territori del welfare metropolitano che ciò è possibile. Molte delle sconfitte recenti dei movimenti (ma soprattutto la perdita di significanza della politica delle sinistre) derivano, in tutta Europa, dalla rottura di questo rapporto fra poveri e classe laboriose. Ecco perché la conricerca è la pratica, militante e rivoluzionaria, di quella che abbiamo chiamato una politica della composizione. Ciò significa anche abitare quello che Romano Alquati chiamava il “medio raggio”, ossia i tempi, gli spazi e i livelli dove la scommessa teorica si fa discorso politico.