Il front end della cattura in rete
di GIGI ROGGERO
Quattrocento persone, perlopiù giovani, hanno assiepato per due giorni Palazzo Isolani e il teatro Duse di Bologna, hanno ascoltato workshop e presentazioni estremamente tecniche di esperti (tra cui Steve Krug, ex consulente della Apple e guru della web usability, e Blain Cook, sviluppatore di Twitter), hanno consumato i pasti griffati e politically correct di Eataly (con libertà di scelta tra veganesimo, carne e pesce), hanno accumulato ulteriori competenze e, soprattutto, il cosiddetto “capitale sociale”, cioè relazioni che possono essere spendibili per nuove opportunità professionali e di mercato. Un utile spaccato del mondo del lavoro in rete oggi.
Stiamo parlando della Front End Conference, primo evento in Italia dedicato all’ultimo pezzo del processo produttivo in rete – sviluppo, design, interfaccia e usabilità – per arrivare all’utente, il “front end” appunto. L’aria è quella di una studiata informalità, fatta di socialità obbligata e “connessioni emotive”: anche magliette e abiti casual sembrano non più il segno dei giovani e alternativi pionieri della rete, ma le divise di una gioventù e di un’alternatività divenute merci importante nella creazione di valore nel web. Il logo della conferenza è la nave che issa il jolly roger: tranquilli, niente a che fare con ciò che i pirati significano nell’immaginario della rete, è un innocuo omaggio a “monkey island”, uno dei videogiochi che negli anni ’80 e ’90 hanno occupato tempo e fantasia degli odierni lavoratori della rete.
Cinque di questi (partner di una start-up o emigrati a Londra, impiegati dentro piccole e medie imprese del web, l’età media sulla trentina) hanno fondato due anni fa un’associazione no-profit da cui nasce l’iniziativa. L’obiettivo, dicono, è creare comunità, seguendo l’esempio di ciò che già avviene in molte parti del mondo. Una comunità dentro il mercato, precisano con stupore per la domanda: l’utopia del fuori è definitivamente tramontata, il problema del contro non li sfiora nemmeno. Interessano poco i classici dibattiti su open source e free software, o più complessivamente su cooperazione in rete e strategie proprietarie. “Il web deve rimanere aperto”, però attenzione, ciò significa semplicemente che i vantaggi della condivisione della conoscenza sono diventati un dato di fatto sul quale costruire nuove opportunità di mercato. É la “ricchezza della rete” di cui parla Yochai Benkler, cioè la necessità di creare un’economia capitalistica fondata sui commons. Di questa utopia padronale di un “capitalismo senza proprietà” loro costituiscono l’interfaccia imprenditoriale, il “front end” della cattura del valore.
Il mercato della crisi
I partecipanti alla conferenza arrivano da 22 paesi (molti da Regno Unito e Olanda, alcuni da Australia, India, Taiwan, Cina o Costarica) e denunciano la cronica arretratezza dell’Italia, alla faccia delle tradizionali mappe che disegnavano la divisione internazionale del lavoro. Sono soprattutto uomini, anche se nelle imprese le donne – sostengono alcune – sono molto più presenti rispetto al passato, soprattutto in “mansioni a elevato contenuto relazionale”. Possiamo rubricare i partecipanti in tre categorie: aziende e start-up attente a monitorare possibili opportunità; lavoratori di imprese che hanno sostenuto i costi della loro partecipazione (viaggio e tassa di iscrizione di 110 euro); lavoratori del settore (perlopiù freelance) alla ricerca di “stimoli innovativi” e, magari, offerte allettanti. É in occasioni come queste, ripetono tutti, che si può imparare qualcosa. Non è servito a molto, soprattutto in Italia, il percorso di studi, benché i tassi di scolarizzazione siano alti; in rete – dove l’innovazione e l’obsolescenza delle competenze sono rapidissime – i processi di apprendimento passano soprattutto attraverso l’“autoformazione”, che però è sempre un fatto cooperativo e non meramente individuale. “In questo campo” commenta una web-designer di un’impresa di Firenze, “non si può mai stare tranquilli, dobbiamo continuamente imparare se vogliamo andare avanti”.
Quando si chiede quali siano le condizioni di lavoro guardano smarriti e preoccupati, come se si trattasse di informazioni intime e pericolose. I precari esistono, certo, ma si preferisce chiamarli stagisti o collaboratori, c’è fiducia nel fatto che quelli bravi saranno comunque assunti. É vero, comunque, che le imprese hanno cambiato strategia rispetto agli anni ’90: ora puntano a fidelizzare e limitare la mobilità della forza lavoro, perché serve un core di lavoratori non flessibili e un largo uso di manodopera a progetto. “Bisogna però considerare” avverte un freelance, “che i partecipanti a questa conferenza sono quelli che almeno per il momento ce l’hanno fatta, hanno un lavoro o la loro impresa. Se poni lo stesso quesito tra uno o due anni chissà cosa rispondono…”.
La domanda a questo punto viene spontanea: e la crisi? Quasi tutti scuotono la testa, quasi a dire “qui viviamo in un’isola felice”. Non solo: “la crisi è un’opportunità perché riduce i concorrenti. La crisi stessa è un mercato. Fa opera di pulizia, elimina quelli che non lavorano bene”. E se foste voi a essere eliminati? “Beh, certo, bisogna ridimensionare le pretese: la mia start-up ha deciso che se ai clienti non va bene il prodotto, non lo pagano. Se vogliamo galleggiare in questo mercato dobbiamo fare così”. Chi ha vissuto la crisi della net economy giura che ora è diverso, ma è più una speranza che una certezza. Chi nel 2000 era troppo piccolo per ricordarsi gli effetti del crollo del Nasdaq non sembra troppo toccato dalla questione. E se scoppia la bolla, non temete che dentro ci siano le vostre vite? “La verità” confessa un under 30, “è che la nostra generazione non è abituata ad avere un orizzonte lungo, e forse nemmeno un orizzonte. Quindi bisogna godere dei raggi del sole finché ci sono”.
Net-lavoratori 2.0
Ecco un piccolo e abbastanza realistico specchio della nuova generazione di net-lavoratori, i 2.0. Chi si lancia nell’auto-imprenditoria non lo fa più per seguire i sogni dell’individualismo carrieristico degli anni ruggenti del neoliberalismo, ma più banalmente perché ha perso il lavoro o non ne trova un altro: la mistificazione della libertà ha ceduto il passo al regno della necessità, se non della disperazione. Anche la retorica degli open space che ha accompagnato l’ascesa della net economy è lontana: diversi hanno abbandonato gli uffici e lavorano da casa per risparmiare sull’affitto.
Una decina di anni fa c’era chi vedeva queste figure come l’incarnazione del quinto stato; oggi per quelle stesse persone, deluse, costoro sono diventate una manciata di nerd angloamericani (e che fine fanno quelli cinesi, indiani, brasiliani, ecc.?). Le posizioni, verrebbe da chiosare, sono entrambe peggiori, perché confondono la cognitivizzazione del lavoro con l’identità occupazionale. Anche i lavoratori del “front end” sono assolutamente consapevoli che la loro attività sarebbe impossibile senza il “back end”, senza quel processo di cooperazione complessiva, globale e stratificata, dentro cui solo si produce l’intelligenza collettiva. Non si tratta di essere né spontaneisti né vetero-organizzativisti per confrontarsi con le ambivalenze specifiche di questo pezzo della composizione di classe, per comprenderne gerarchie tecniche e politiche, soggettività e possibilità di conflitto. Si tratta, semplicemente, di fare inchiesta.
* Pubblicato su “il manifesto”, 25 settembre 2012.