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Il terzo settore come forma di corruzione del comune. Il caso della Biblioteca Salaborsa di Bologna

 

di ANTONIO ALIA

Dopo la polemica sulle offerte di lavoro gratuito presso la biblioteca Salaborsa scoppiata sui social network e poi rimbalzata sui quotidiani online[1] e su alcune radio locali, è il caso di ritornare con alcune riflessioni sull’episodio perché ci offre probabilmente uno spaccato interessante delle modalità di ristrutturazione del welfare locale e dei servizi pubblici territoriali più in generale. La cronaca dell’accaduto è facilmente recuperabile al link riportato in nota. Qui si proverà ad offrire tentativo di analisi, si spera poco approssimativo. Per farlo è necessario partire dal ruolo che ricoprono alcuni dei protagonisti di questa vicenda e dal discorso che hanno prodotto per difendere l’offerta di lavoro gratuito promossa dall’associazione Bibliobologna, in sostegno alla Biblioteca Salaborsa. La risposta alle polemiche degli e delle utenti della piattaforma facebook arriva da Daniele Donati presidente dell’Istituzione Biblioteche del Comune di Bologna, nonché ricercatore confermato in diritto amministrativo presso l’Alma Mater Studiorum e soprattutto presidente del Comitato scientifico del Piano Strategico Metropolitano (PSM). Il prof. Donati ricopre cioè un ruolo rilevantissimo nel grande progetto di pianificazione strategica che l’amministrazione Merola si è impegnata ad implementare a partire dal 24 ottobre 2011. Il PSM, come si può leggere sul sito, “è un processo volontario e collegiale, di più soggetti pubblici e privati, teso alla condivisione e alla costruzione di una visione del futuro del nostro territorio, e mirato al suo posizionamento sulla scena regionale, nazionale e internazionale.”[2] L’idea è cioè quella di avviare un percorso di pianificazione produttiva della città e della sua area metropolitana il più possibile partecipato, vale a dire aperto alle organizzazioni formali e informali della società civile, alle imprese e ad altri soggetti economici. Il progetto insiste in particolare su 4 assi principali e interconnessi tra loro[3]: 1) Innovazione e Sviluppo; 2) Ambiente, assetti urbani, mobilità; 3) Conoscenza, educazione, cultura; 4) Benessere e coesione sociale. Si tratta cioè dei principali campi di intervento politico dei livelli di governo locale, dal sistema produttivo al welfare passando per la formazione[4].

L’idea forte che sostiene l’intero processo di pianificazione strategica è la partecipazione – meglio – il principio di sussidiarietà, di cui il prof. Daniele Donati è un attento studioso. Egli stesso insieme ad Andrea Paci ha curato un volume edito nel 2010 presso Il Mulino dal significativo titolo: “Sussidiarietà e concorrenza: Una nuova prospettiva per la gestione dei beni comuni”. Nell’introduzione si riconosce – anche se da una prospettiva diversa dalla nostra – la crisi del sistema standardizzato di welfare che ha accompagnato la fine del fordismo, prodotta dalle lotte operaie e femministe, dall’insorgenza di nuove soggettività, dalla moltiplicazione dei bisogni in seno alla società e dalla fuga dalle fabbriche. Tutti processi – dall’elevato tasso di conflittualità – che hanno forzato le strutture di governo disciplinari e lavoriste della società fordista. Si afferma in buona sostanza – a differenza di quanto sostiene tutta la sinistra italiana – l’impossibilità di ritornare al modello di regolazione dei “trenta gloriosi” e alle sue forme di mediazione sociale (che prevedevano il ruolo attivo del sindacato, dei partiti e della famiglia) proprio in virtù della rottura dell’omogeneità dei soggetti collettivi del fordismo[5]. All’interno di questo quadro si riconosce l’insufficienza del tradizionale welfare-state per due ragioni: a) l’incapacità di rispondere ai nuovi bisogni sociali; b) l’insostenibilità finanziaria in un contesto di crisi economica. La soluzione di questi due aspetti problematici è affidata alla sussidiarietà. Spesso le amministrazioni locali hanno utilizzato questo principio – inserito nella Costituzione – per aprire semplicemente le porte a modalità eterogenee di privatizzazione (e quindi di abbattimento dei costi sulla pelle dei lavoratori e delle lavoratrici del settore) via la dismissione del pubblico, che come ci ricorda Alberto De Nicola possono essere interpretate come forme di proletarizzazione e di espropriazione delle condizioni necessarie alla produzione e riproduzione sociale[6]. Di fronte alle capacità del lavoro vivo di innescare processi cooperativi sempre più autonomi, per il capitale diventa indispensabile assottigliare l’accesso a quella che Robert Boyer chiama la proprietà sociale per stringere il controllo sui mezzi di produzione in un’economia cognitiva e pienamente biopolitica. Tuttavia Donati e Paci intendono la sussidiarietà in un’accezione diversa da quella di privatizzazione[7]. Gli autori infatti – pur non escludendo l’intervento di imprese private nelle ristrutturazione del welfare – fanno esplicitamente riferimento ad una dimensione che supera definitivamente la dicotomia Stato-Mercato. Si tratta di quella che nelle prime pagine del libro di cui stiamo trattando è chiamata terzo settore, cittadinanza attiva o ancora comunità locale. Dimensione che gli autori ritengono indispensabile per rispondere flessibilmente ed efficacemente all’eterogeneità dei bisogni individuali perché, per la sua condizione di prossimità, è l’unica in grado di produrre “un valore in termini di conoscenza dell’ambiente di riferimento e di capacità di connettersi e di attivare con rapidità altre risorse” poiché “nel nuovo contesto economico-sociale il profilo individuale dei bisogni si intreccia sempre più spesso con caratteri di natura sociale, che evidenziano la domanda di tessuti connettivi, di reti relazionali e di spazi di partecipazione attiva”[8]. Questa dimensione viene ulteriormente specificata, attraverso i lavori di Elinor Ostrom, come forma di auto-governo delle comunità che “a partire dalla condivisione di un sistema di risorse e di relazioni di prossimità [si dimostra capace] di gestire in modo efficiente i beni comuni [come il welfare e altri servizi, nda]. Questa capacità di individuare efficaci soluzioni di governance a livello locale trova fondamento in un sistema di principi e di relazioni (fiducia, reputazione, reciprocità) capaci di spiegare l’alta frequenza di comportamenti cooperativi”[9]. In altre parole l’auto-governo delle comunità viene invocato come centrale nella ristrutturazione di un nuovo sistema di welfare in quanto dispositivo di attivazione del capitale sociale[10].

Alla luce di queste considerazioni probabilmente è possibile affermare che l’integrazione del servizio bibliotecario attraverso il volontariato – lavoro gratuito – non può essere considerata una nobile iniziativa da parte di bravi cittadini, ma rappresenta un modello di governance dei servizi che da una parte supera la dicotomia Stato-Mercato e dall’altra l’articola diversamente, del tutto compatibile con la politica di austerità promossa dal governo tecnico. A sostegno di ciò è sufficiente ricordare che è lo stesso Donati in quanto presidente dell’Istituzione Biblioteche del comune di Bologna ad aver autorizzato l’associazione BiblioBologna alla gestione di alcuni servizi integrativi all’interno della biblioteca Salaborsa. La prova più evidente ci è fornita però dall’elenco dei soci fondatori della menzionata associazione, tra i quali compare[11] Pier Luigi Stefanini, presidente in carica di Unipol Gruppo Finanziario S.p.a.

A questo punto è opportuno sviluppare ancora qualche riflessione sul modello di governance dei servizi pensato dal lavoro teorico di Daniele Donati e Andrea Paci e di cui il caso Salaborsa ci offre uno spaccato tangibile, seppure in una forma ridimensionata. In prima battuta ci pare del tutto evidente l’interesse di un gruppo finanziario per un esperimento, per quanto piccolo, di produzione e gestione dei servizi compatibile con i tagli ai bilanci pubblici[12]. In seconda battuta ci sembra di poter affermare che il modello di Donati e Paci disegni l’espropriazione da parte delle istitituzioni pubbliche, della rendita e delle imprese di ciò che Negri e Hardt chiamano comune[13], riconoscendone quindi il potenziale produttivo. In questo senso il volontariato è completamente dentro i meccanismi della valorizzazione capitalistica, perché produce un insieme esternalità positive che – come ci ricorda Yann Moulier Boutang – vengono catturate nei processi di accumulazione del capitale[14]. Ci sembra allora ridicola e colpevolmente ingenua l’insistenza sulla distinzione tra impegno civico e lavoro con cui Daniele Donati ha difeso la proposta dell’associazione Bibliobologna[15]. La distinzione tra lavoro retribuito e lavoro non retribuito è il prodotto di un intervento dell’amministrazione locale ed è pienamente politica vale a dire funzione della governamentalità neoliberale della forza-lavoro precaria e cognitiva. Come ci ha insegnato Foucault[16] il neoliberalismo insiste sulla produzione di concorrenza tra individui che si percepiscono come imprenditori di sé stessi e quindi per funzionare deve incentivare le diseguaglianze all’interno del corpo sociale. Nel nostro caso la differenza che passa per l’accesso alla retribuzione ha una doppia funzione. La prima, interna al posto di lavoro come ricatto sulle vite dei lavoratori e delle lavoratrici della biblioteca[17]; la seconda esterna, rivolta verso il bacino metropolitano di forza-lavoro come dispositivo di sfruttamento. Il volontariato è trasformato in uno spazio concorrenziale di investimento del proprio capitale umano e di certificazione delle competenze possedute. Il rischio di questo investimento ricade interamente sulla vita del precario e della precaria – imprenditori di sé stessi – che l’hanno effettuato e va qui inteso come possibilità di accedere in futuro ad un flusso di reddito che in questo senso non è più una contropartita dell’erogazione di lavoro ma il risultato della gestione aziendale delle proprie competenze. Quest’ultime per poter essere redditizie devono essere continuamente valutate e misurate. Si rischia di investire (lavorare a titolo gratuito) per ottenere una certificazione delle competenze che potrebbe aiutare a collocarsi nella gerarchia del mercato del lavoro. L’enorme sacca di lavoro gratuito – che interessa ogni settore produttivo – può essere spiegata allora come rincorsa alla certificazione che fa leva sulla produzione del senso di colpa individuale[18].

In quarta battuta ci sembra di poter affermare – alla luce di queste considerazioni – che il terzo settore può essere annoverato insieme all’impresa, alla famiglia e alla nazione tra le forme di corruzione del comune[19]. È un amore – per usare la suggestiva categoria di Negri e Hardt – finito male perché corrotto[20] dal ricatto sulla vita, dall’imposizione attraverso precisi interventi statuali di gerarchie e della concorrenza. L’amore non si può essere ridotto al melenso altruismo dei teorici cattolici della sussidiarietà. L’amore “è un evento ontologico in quanto segna una rottura con ciò che esiste e crea nuovo essere”[21]. “L’amore è una forza di composizione delle singolarità nelle relazioni sociali e con ciò esso costituisce il comune […] l’amore implica sempre l’uso della forza, o più precisamente […] gli atti d’amore sono in sé stessi manifestazioni della forza. L’amore ha le sembianze di un angelo, ma di un angelo armato”[22].

Il PSM adottato dall’amministrazione di centro-sinistra guidata da Merola sembra essere un caso esemplare dal punto di vista del tendenziale investimento istituzionale sul terzo settore per la ristrutturazione del welfare metropolitano. Nel campo della produzione culturale questo processo – sebbene non sia stato ancora messo a sistema – è già consolidato. Ad esempio l’importante rassegna cinematografica promossa dalla cineteca Lumière e il festival estivo della cultura (Bè) funzionano in buona parte grazie allo sfruttamento del lavoro gratuito e al mondo dell’associazionismo. Tuttavia se da un lato la governance locale in un quadro di crisi strutturale si muove verso l’inclusione e la valorizzazione del terzo settore, dall’altro – e forse proprio per questo – quest’ultimo può rappresentare un terreno di intervento politico sia per dare sostanza ai processi di riappropriazione delle infrastrutture della produzione e riproduzione sociale, sia per agire politicamente la contraddizione tra i tentativi di cattura della governance e la ricerca di autonomia che vive in molte esperienze del terzo settore. Allo stesso tempo l’apertura di questo spazio politico può forse offrire l’occasione di attribuire maggiore consistenza alla battaglia sul reddito di fronte alla crescente contraddizione tra povertà e potenza produttiva della cooperazione sociale. Questi due elementi – l’istituzionalizzazione del comune e il reddito – non possono però essere separati dalle lotte contro la rendita che proprio la governance del terzo settore svela come pilastro centrale dei meccanismi di espropriazione della ricchezza comune.

 

[1] http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/09/13/bologna-salaborsa-cerca-volontari-proteste-sul-web-volete-del-lavoro-gratuito/351811/

[2] http://psm.bologna.it/psm/cose/

[3] http://psm.bologna.it/tavoli-di-progettazione/

[4] per farsi un’idea consigliamo la visione dell’intervento dello stesso Donati in occasione del primo forum del PSM: http://www.youtube.com/watch?v=0yiYDEBKbj4&feature=youtu.be

[5] Si veda A. Amendola, Di precaria costituzione, in F. Chicchi E. Leonardi Lavoro in frantumi, ombre corte, Verona 2011.

[6] http://www.alfabeta2.it/2012/09/06/pauperismo-e-crisi/

[7] in questo video è lo stesso Donati ad esprimersi in questo senso: http://www.youtube.com/watch?v=clQ5KqYP9Kg

[8] D. Donati A. Paci a cura di, Sussidiarietà e Concorrenza. Una nuova prospettiva per la gestione dei beni comuni, Il Mulino, pag.11.

[9] Id. pag. 15.

[10] Id. pag. 17.

[11] come si può leggere a pagina VI di Repubblica Bologna del 15-04-2012.

[12] Si vedano gli articoli di Andrea Fumagalli e Christian Marazzi pubblicati sul sito Uninomade.org

[13] “La seconda accezione di ‘comune’ è dinamica e coinvolge simultaneamente il prodotto del lavoro e le condizioni per ulteriori produzioni. Il comune di cui si sta parlando non è soltanto la terra che condividiamo, ma anche il linguaggio che creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme della socialità che definiscono i nostri rapporti e così via. Questa forma del comune, diversamente dalla prima, è irriducibile a una logica di scarsità’ in A. Negri M. Hardt, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli pag. 145.

[14] Si veda Yann Moulier Boutang, Le capitalisme cognitif, Éditions Amsterdam. Durante lo stesso primo forum del PSM l’intervento del prof. Sacco illustra come le esternalità prodotte dalla partecipazione attiva ai processi sociali della produzione di conoscenza siano sempre più indispensabili http://www.youtube.com/watch?v=dr7N7PuNCHM Negri e Hardt scrivono: “ Il comune potrà anche essere esterno dal punto di vista del mercato e per i meccanismi di dell’organizzazione capitalistica, ma esso è completamente interno alla produzione biopolitica” Negri Hardt, op. cit. pag. 161.

[15] La risposta di Daniele Donati, si può leggere sul profilo facebook della bibliotecasalaborsa http://www.facebook.com/bibliotecasalaborsa e su quello dell’associazione BiblioBologna http://www.facebook.com/pages/BiblioBologna/205862616179184

[16] M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli.

[17] L’ingresso dei volontari a titolo gratuito aumenta il rischio di perdere il posto di lavoro, costringe all’accettazione di condizioni di lavoro sempre peggiori. Si veda la nota 1.

[18] Si veda M. Lazzarato, Le guvernement des inégalités, Éditions Amsterdam.

[19] Si veda Negri, Hardt, op.cit. pag. 164.

[20] Id. pag. 184.

[21] Id. pag. 186.

[22] Id. pag. 199-200.

 

 

 

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