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La contro-rivoluzione culturale

 

di GIGI ROGGERO

 “È troppo presto per dirlo”. Così Zhou Enlai rispondeva alla domanda su quali fossero, a suo giudizio, gli esiti della rivoluzione francese. Forse potremmo adottare la stessa ironia dell’ex capo di governo della Repubblica popolare per spiazzare i ricorrenti interrogativi che si addensano sulla Cina. Sarà questo il secolo cinese? Che giudizio dare di una repubblica che, nata da una rivoluzione comunista, sembra oggi riproporre le più brutali forme dello sfruttamento e dell’accumulazione capitalistica? E che cosa dire del recente passato, dalla rivoluzione culturale all’epoca delle riforme, dalla sanguinosa repressione di piazza Tienanmen fino ad arrivare ai molteplici conflitti che costellano il presente del dragone asiatico? Si potrebbe continuare a lungo, per soddisfare quesiti politici tra loro contrapposti, vulgate popolari assetate di capri espiatori e voraci appetiti esotici. Del resto, i sempre più numerosi volumi che stipano gli scaffali delle librerie tentano di cavalcare quest’onda, per non farsi sfuggire la ghiotta occasione che sul mercato editoriale il misterioso incubo cinese apre.

Questo libro, allora, si propone innanzitutto un obiettivo: mettere in discussione, problematizzare e possibilmente rovesciare le immagini che della Cina si sono, in differenti ambiti sociali e politici, imposte e spesso incancrenite in Italia. Quanto è lontana nel tempo quella mitologia filo-cinese che, negli anni Sessanta e Settanta, ha animato gruppi e piccole sette sparse in tutto l’“occidente”, che pensavano di respirare il vento dell’est per praticare un improbabile maoismo di importazione e a buon mercato. Ne fa cenno, tra il rispettoso e il divertito, Andrew Ross nel suo saggio. Ma più la Cina si è avvicinata, dentro i processi di globalizzazione e nella crisi della costituzione imperiale, più quei ricordi si fanno sbiaditi. E, sia chiaro, ci auguriamo che nessuno possa sentirne nostalgia o anche solo provare tenerezza. A partire dagli anni Ottanta della contro-rivoluzione capitalistica, tuttavia, mentre molti degli ex “maoisti” nostrani trovavano rifugio e inedite prospettive di carriera dentro i quartier generali delle metropoli “occidentali”, altre immagini della Cina hanno iniziato a farsi strada. Mano a mano che la Cina si è collocata prepotentemente al centro dei nuovi processi di accumulazione del capitale globale, l’entusiasmo dei think tank americani e “occidentali” per la transizione post-socialista guidata da Deng Xiaoping (la cui massima “non è importante se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda i topi” è ben presto diventata frase di culto nei libri del management aziendale) ha rapidamente ceduto il passo alla preoccupazione, al terrore e infine alla fobia per la potenza asiatica. Cina è così diventata un significante vuoto, associabile con il male del comunismo o con quello del capitalismo, con la terra dei prodotti contraffatti o con il feroce dispotismo statale, oggetto della xenofobia di mercato e delle leggende orientaliste.

Certo, è curioso e quantomeno sospetto che a preoccuparsi della sorte dei diritti umani e dei lavoratori in Cina siano quei regimi che hanno fatto della loro sistematica violazione la propria linea di condotta, in nome della superiorità della crociata capitalistica contro il regno del male. Oppure che invochino la necessità del protezionismo coloro che fino a ieri si facevano paladini della globalizzazione capitalistica. O che denuncino a gran voce l’inosservanza degli orari di lavoro dei negozi e delle boite gestite da cinesi quelli che quotidianamente sono pronti a cantare le virtù della libertà di commercio. E ancora, cosa dire dell’allarme scandalizzato contro la devastazione ambientale in Cina, suonato da parte di quelle aziende multinazionali che proprio in quel paese hanno impiantato fabbriche della morte, o da parte di quei cittadini coscienziosi che chiedono ai cinesi di rinunciare al miraggio di stili di vita e di consumo che continuano a caratterizzare i paesi di quello che una volta veniva chiamato “primo mondo”? O delle campagne di boicottaggio dei giocattoli “Made in China” lanciate dai consumatori americani, tanto preoccupati della salute dei propri figli, quanto incuranti delle condizioni di vita dei lavoratori asiatici[1]? Insomma, la Cina che nelle pagine di questo libro si profila è ben diversa da quella dei resoconti à la Rampini, forse il prodotto più accettabile del giornalismo mainstream italiano, e purtuttavia prigioniero dell’impasto di retorica anti-comunista e fascino orientaleggiante. Si prenda, ad esempio, il complicato e drammatico caso del Tibet, certo martoriato e orribilmente represso dal governo di Pechino, ma divenuto isola di resistenza e libertà solo nelle fantasie del multiculturalismo “occidentale”.

Tutto ciò, sia ben chiaro, non vuole affatto fornire una qualche giustificazione al regime della Repubblica popolare, o suggerire la possibilità di nutrire una qualche speranza nei suoi sviluppi. Al contrario. Il problema, però, è un altro. Si tratta da un lato di togliere la maschera all’ipocrisia di chi traveste uno scontro di potere da appello a una libertà nei fatti continuamente negata; dall’altro, per comprenderla bisogna situare la Cina pienamente dentro le dinamiche del capitale globale. Come il lettore potrà vedere, i saggi raccolti rispondono a questa duplice intenzione. Fondati su solide ricerche sul campo e accurati studi etnografici, ci offrono nuovi quadri interpretativi e innovative tracce di indagine sul ruolo della Cina dentro la cosiddetta “economia della conoscenza” e nelle politiche delle “industrie creative” (Andrew Ross), sulla produzione hi-tech e l’affermarsi dei distretti tecnologici (Yu Zhou), sul rapporto tra forma di governance e produzione della soggettività (Aihwa Ong), sull’importanza delle migrazioni e il loro controllo sul piano continentale (Xiang Biao), sulle contraddizioni e i duri conflitti dei lavoratori (Ching Kwan Lee). È, infatti, quella che emerge con chiarezza dalla lettura del libro, innanzitutto la Cina di una nuova composizione del lavoro – metropolitano, migrante, cognitivo, precario, disilluso, pragmatico, infedele. Se la Cina è più che mai vicina, dunque, non è perché portata dal vento di libertà ed eguaglianza che soffia dall’est, ma in quanto nuova potenza dentro la transizione al capitalismo cognitivo[2]. E tuttavia, è una potenza che presenta dei tratti affatto peculiari: al di fuori di qualsiasi stucchevole mitologia sulle “caratteristiche cinesi”, sono proprio queste specificità che dalla testa del drago possono illuminare l’intero spettro globale dei nuovi paradigmi produttivi, del lavoro e dello sfruttamento.

Dalla rivoluzione culturale alle industrie della cultura: i cento fiori sono appassiti?

La direzione artistica dello spettacolare evento olimpico di Pechino 2008 è stata affidata a Zhang Yimou, il più conosciuto film-maker cinese. Una scelta non casuale: figlio di un ufficiale dell’esercito di Chiang Kai-shek, censurato nella prima parte della sua carriera, Zhang può ora rappresentare la svolta liberale della Repubblica popolare in materia di talenti e conoscenza. Tutto sommato, potremmo dire sulla scorta del lavoro di Ross, l’“economia creativa” in Cina è la risposta alla rivoluzione culturale, plasmata dalle riforme cominciate nell’ultimo scorcio degli anni Settanta (non è un caso che i vari saggi mettano in evidenza la centralità di questa vera e propria era inaugurata dal governo di Deng Xiaoping) e bagnata nel sangue di Piazza Tienanmen, su cui torneremo più avanti.

Interessante notare la sincronicità temporale della contro-rivoluzione capitalistica, intesa esattamente come una rivoluzione al contrario: mentre in “occidente” viene attaccato il welfare, in Cina si scioglie il patto sociale socialista – elemento di grande rilievo, sostiene Ching Kwan Lee, per comprendere una parte almeno dei nuovi conflitti sul lavoro nella Repubblica popolare. Ma comune è, soprattutto, la genealogia conflittuale di tale risposta, ovvero la rivoluzione mondiale degli anni Sessanta e Settanta: se in Europa e Nordamerica gli operai rovesciavano i rapporti di potere in fabbrica, le lotte anti-coloniali in Africa, Asia e America latina si liberavano dal dominio delle potenze imperialiste, gli afro-americani (talora richiamandosi o meglio reinventando il maoismo[3]) sfidavano il colonialismo interno nel ventre della bestia; e mentre la rivolta del lungo Sessantotto dava inizio alla globalizzazione, in Cina studenti, operai e contadini – anche qui come altrove, con uno straordinario protagonismo delle donne – si appropriavano della rivoluzione culturale lanciata da Mao. Se ne appropriavano nel senso che la trasformavano, eccedendo i confini dello scontro di potere all’interno di un quartier generale che, nelle intenzioni del “grande timoniere”, si voleva bombardare solo in parte.

Non è un caso, allora, che proprio negli ultimi anni attorno alla lettura della rivoluzione culturale – come fenomeno orchestrato dall’alto, oppure come movimento di una moltitudine di classe che ha davvero “osato pensare osato parlare osato agire” – si sia giocata una partita di grande importanza, per non dire decisiva, nella costituzione della “nuova sinistra” cinese[4]. Ciò risulta incomprensibile se non si coglie l’era delle riforme come una vera e propria contro-rivoluzione culturale, intesa in un doppio senso. Da una parte, in quanto processo di nuova formazione e produzione della soggettività, tema realmente centrale della rivoluzione culturale, al di là delle sue caricature o grottesche deformazioni ideologiche. Dall’altra, parlare di contro-rivoluzione culturale significa sottolineare che è proprio la cultura ad esserne il perno, in quanto merce attraverso cui costruire un brutale processo di accumulazione e definire il ruolo competitivo della Cina sui mercati globali. La stessa tradizione culturale cinese, duramente e radicalmente messa in discussione dalla rivoluzione, diventa ora – come le stesse Olimpiadi di Pechino dimostrano – profittevole oggetto di consumo, per soddisfare l’occhio del turista alla ricerca di narrazioni orientaliste da pagare profumatamente.

In questo campo di rieducazione globale nasce, scrive ancora Ross, l’“uomo nuovo neoliberale”[5], che assume l’identità della creative class sponsorizzata da Richard Florida e si forma nell’idea dell’individualismo thatcheriano (probabilmente vera cifra dell’ordine del discorso della contro-rivoluzione capitalistica) secondo cui la società non esiste. È dentro un simile contesto che bisogna inquadrare la strada dell’“innovazione indipendente”, ritenuta dal premier Wen Jiabao il perno della strategia cinese nel mercato mondiale delle “industrie creative”. Introdotto dal governo australiano di Paul Keating nei primi anni Novanta, il concetto di creative industry è, com’è noto, stato lanciato a partire dal 1997 dal Dipartimento di cultura, media e sport dell’amministrazione laburista inglese. Proponendosi di innovare la categoria di industria culturale, nel lessico blairiano l’immagine della creative industry è stata associata innanzitutto alla capacità di generare e sfruttare la proprietà intellettuale. Soprattutto, prende implicitamente atto della centralità assunta dalla produzione di saperi e conoscenze nel nuovo regime di accumulazione capitalistico uscito dalla crisi del “fordismo”: la cultura cessa di poter essere interpretata come una sfera separata, per diventare motore dei processi di valorizzazione[6].

Dentro questo trend globale, la strada dell’innovazione indipendente per la Repubblica popolare è tracciata dal passaggio da un’economia “Made in China”, imperniata sullo sfruttamento intensivo di lavoro, a un’economia “Created in China”, basata sull’innovazione e con il controllo di brevetti e diritti di proprietà intellettuale da parte delle imprese locali. Indagando il caso di Zhongguancun, divenuto un importante distretto tecnologico di Pechino, Yu Zhou pone a critica l’assunto secondo cui la crescita cinese è basata esclusivamente su una forza lavoro a basso costo e low skill. Per comprendere il particolare sviluppo della produzione hi-tech in Cina, sostiene la geografa, bisogna invece volgere lo sguardo ad altri fattori: l’esistenza di un sistema complesso in cui si intrecciano vari attori (dalle imprese locali alle multinazionali, dallo Stato alle università e istituti di ricerca, e ovviamente la composizione di un lavoro cognitivo in costante espansione, favorita dal grande investimento nella formazione di “grey collar”) e che è basato in primo luogo non sull’esportazione ma sui mercati interni. La stessa definizione adottata per etichettare Zhongguancun e renderlo appetibile per il pubblico internazionale, cioè la “Silicon Valley cinese”, non tiene dunque conto delle peculiarità del distretto tecnologico all’interno di quella che Zhou chiama un’economia politica di transizione, che assume e rideclina la dimensione globale dei mercati, del lavoro e delle forme di produzione all’interno degli spazi metropolitani cinesi.

Ciò, sia chiaro, non significa affatto dimenticare il brutale sfruttamento degli operai classicamente intesi (di cui Ching Kwan Lee ci restituisce alcune significative coordinate) e gli sweatshop che costituiscono la base dell’“industria creativa” o addirittura crescono al suo interno. In queste “fabbriche del sudore” e nei dormitori delle periferie di Pechino o Shanghai, ci racconta ad esempio Ross, sono ammassati migliaia e migliaia di giovani cinesi che devono produrre giochi online. Si tratta, piuttosto, di mettere in discussione la tradizionale immagine della divisione internazionale del lavoro, come suggerisce di fare la stessa Zhou. È un’immagine che affonda le proprie radici nei principi dell’economia politica elaborati da Ricardo e nell’analisi smithiana della ricchezza delle nazioni, per poi essere ricalcata sulla divisione geografica tra zone “avanzate” e “arretrate”. Un’immagine impregnata della violenza dello Stato e del colonialismo, e infranta dalle pratiche di libertà e dai movimenti del lavoro vivo. Sono state le lotte, cui abbiamo precedentemente fatto cenno nella fase degli anni Sessanta e Settanta, che hanno costretto il capitale a farsi globale, che hanno ecceduto i confini, che ne hanno messo in tensione le coordinate spazio-temporali. Dentro il mutamento di tali coordinate, è piuttosto discutibile la diffusa idea – proposta, tra gli altri, da David Harvey[7] – che ci sia un “postfordismo” nel centro e un “fordismo periferico”. Da un lato, il continuo proliferare di sweatshop, settori produttivi informali o condizioni semi-schiavistiche di lavoro non in quelle che venivano definite le “periferie” del pianeta, bensì a New York o Los Angeles, impedisce di consegnare tali modelli alla preistoria del capitalismo o a zone remote. Questa preistoria, infatti, non solo irrompe continuamente nel pieno del suo sviluppo, ma ne costituisce la condizione di possibilità anche nei suoi supposti “centri”[8]. Dall’altro, perché la diminuzione dei posti di lavoro nel settore manifatturiero in Europa o Nordamerica non è attribuibile allo spostamento di massa verso paesi come la Cina: va invece ricercata in un “aumento della produttività del lavoro industriale. In Cina la forza-lavoro impiegata nella manifattura è circa sei volte superiore a quella americana, ma produce non più della metà del valore in dollari dei beni industriali degli Stati uniti. D’altra parte, dall’inizio degli anni Novanta, anche in Cina, a Singapore, nella Corea del sud o a Taiwan, l’occupazione nel settore industriale stava diminuendo”[9].

Allora, è all’interno di queste nuove coordinate spazio-temporali globali, segnate dall’eterogenea compresenza, differenziazione e gerarchizzazione dei regimi produttivi e delle forme del lavoro, che dobbiamo rintracciare gli elementi della contro-rivoluzione capitalistica e dei nuovi processi di accumulazione, ma anche le ambivalenze e le possibilità di conflitto che si aprono nella genealogia e nello statuto del lavoro cognitivo contemporaneo. Dentro queste coordinate, il funzionamento del capitalismo contemporaneo si fonda – come brillantemente afferma Aihwa Ong basandosi sulla ricerca etnografica a Shanghai e nelle metropoli asiatiche[10] – sulla continua traduzione di valori tra le sfere del mercato e della politica. O meglio, potremmo dire, sulla traduzione e cattura delle forme di vita e della produzione cognitiva in processi di valorizzazione capitalistica. Dunque, i regimi valoriali, in competizione tra di loro, sono al contempo sfere del valore.

Astratte nella loro misurabile forma di merce, così, le supposte tradizioni e valori diventano elementi attraverso cui si costituiscono le gerarchie del mercato del lavoro: quelle per cui, seguendo i raccapriccianti manuali delle grandi corporation transnazionali, i manager possono distinguere tra le menti indiane e cinesi, le prime indolenti e le seconde addestrate a eseguire gli ordini e perciò non creative, entrambe comunque appartenenti a chi non merita ancora il titolo di individuo moderno; oppure possono asserire che gli abitanti di Singapore hanno “pelle gialla, ma menti occidentali”. E chi non è ancora giunto a tale stadio di sviluppo, come i lavoratori dei call center indiani, deve non solo parlare perfettamente in inglese, ma mimare accenti e stili di vita degli esigenti consumatori “occidentali”. L’ampio proletariato intellettuale formatosi in Cina a partire dagli anni Settanta (anche grazie all’accesso di massa all’istruzione e all’università determinato dalla rivoluzione culturale, nonché alla messa in discussione dei tradizionali programmi di studio) deve quindi, nell’era delle riforme, farsi imprenditore di se stesso per tradurre saperi e relazioni in valore. Così avviene con il guanxi, “ossia lo scambio degli obblighi e dei favori personali allo scopo di massimizzare il guadagno individuale” (infra, p. –). Feticizzato come tratto tipico della cultura cinese, oppure interpretato come pratica di corruzione di una società arretrata, il guanxi è semplicemente ciò che i sociologi chiamano enfaticamente “capitale sociale”. Ancora una volta, conoscenza e informazioni sono tradotti tra differenti sfere del valore. O, se vogliamo dirla diversamente, la corruzione non risponde alla dialettica tra modernità e tradizione, né è banalmente un fatto di giustizia penale: come le pratiche dei manager globali dimostrano ben più del guanxi, costituisce un tratto sistemico e fondante i meccanismi dell’accumulazione capitalistica contemporanea.

Insomma, se l’“uomo nuovo” neoliberale delle industrie creative nasce dal fallimento dell’“uomo nuovo” della rivoluzione culturale, ciò non significa tuttavia assenza di contraddizioni e conflitti nel nuovo scenario, come per troppo tempo la mortificante retorica del “pensiero unico” ha asserito. Grattando sotto la spessa coltre di conformismo e individualismo che sembra ritagliare le nuove figure del lavoro cognitivo sulla naturale apologia del presente, emerge dalle ricerche sul campo la carne e il sangue di una composizione sociale emergente, che si costituisce nell’ambivalente nesso tra desideri di autonomia ed egoismo competitivo, tra pratiche di libertà e assoggettamento personale. È una composizione del lavoro che fugge dalle campagne per inseguire le forme di vita metropolitane, senza alcuna fiducia né nelle promesse dello Stato socialista che abbagliarono i loro genitori, né nelle imprese che usano Shangai come stazione temporanea per i loro affari. Sono lavoratori, al contempo, pronti a utilizzare qualsiasi occasione per ripagare della stessa moneta gli imprenditori fly-by-night, che intascato il bottino si dileguano nella notte[11]. Dunque, se l’outsourcing è la risposta alla forza dei conflitti operai, come in uno specchio la volatilità dei capitali ha creato una forza lavoro mobile e infedele, pronta a fuggire dalle gabbie dei vincoli salariali.

Lo stesso “auto-modellarsi” dei lavoratori e delle lavoratrici cognitive di Shangai descritto da Aihwa Ong non è un’esclusiva imposizione delle tecnologie neoliberali. È piuttosto frutto e processo interno a un rapporto di potere, la cui base e posta in palio è esattamente la produzione della soggettività. Qui emerge con chiarezza il dirimente aspetto della differenza di genere: le donne, sostiene Ong, sono il volto pubblico di una nuova Cina, parlano più lingue e dimostrano un’attitudine immediatamente globale. L’orientalismo viene così rovesciato dalle intraprendenti professioniste cinesi in una risorsa utilizzabile per diventare gatekeeper nell’accesso a una supposta e mitologica essenza culturale cinese. L’ambivalenza delle nuove figure va quindi analizzata dentro la femminilizzazione del lavoro cognitivo, paradigma già visibile – ci dice ancora l’antropologa cresciuta in Malesia – nel notevole e continuo incremento del numero di laureate, incluse in forma subordinata nel mercato del lavoro. Anche qui, la Cina è davvero vicina

Le stesse coordinate del capitale globale vengono, allora, continuamente plasmate ma anche messe in tensione da quella mobilità del lavoro vivo su cui il saggio di Xiang Biao ci fornisce un importante contributo, esaminando le migrazioni tra Cina, Giappone, Corea del sud e Singapore[12]. E se Yu Zhou si preoccupa di sovvertire l’immagine della Cina come sterminata riserva di forza lavoro a bassa competenza e basso costo, dall’analisi di Xiang si può ricavare come la stessa definizione dello skill tenda a perdere valore descrittivo per assumere esclusivamente una funzione di divisione, gerarchizzazione e controllo dei movimenti del lavoro vivo. La certificazione del titolo formativo viene così utilizzato non per indicare l’attività che i migranti possono svolgere o le capacità effettivamente possedute, ma come misura artificiale per regolarne artificialmente il valore e ricattarlo nella politica dei visti. E da altri lavori di Xiang[13] si può vedere come le mappe transnazionali dello sfruttamento siano continuamente interrotte e sovvertite dalle mappe transnazionali delle resistenze e delle strategie di fuga. Insomma, un fantasma agita i sonni del capitale globale: il rovesciamento della flessibilità da parte dei lavoratori precari, che rivoltano contro i padroni la principale arma retorica del “postfordismo”. Il capitalismo cognitivo è, forse, davvero una tigre di carta.

Un’economia di mercato non capitalistica?

“Abbiamo adottato una politica economica in grado di consentire il funzionamento delle forze di mercato nell’assegnazione delle risorse, ma sotto la guida e la regolamentazione macroeconomica del governo. Negli ultimi trent’anni, abbiamo accumulato una grande esperienza nel facilitare il ruolo della mano visibile e della mano invisibile nel regolare le forze di mercato. Se conosce le opere classiche di Adam Smith, ricorderà La ricchezza delle nazioni e il libro sull’etica. Ne La ricchezza delle nazioni si parla della mano invisibile, ovvero le forze di mercato. L’altra opera tratta invece di uguaglianza e giustizia sociale, e si ribadisce l’importanza del ruolo regolatore del governo nel distribuire con equità la ricchezza tra la popolazione. Se in un paese la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi, allora quel paese non conoscerà mai stabilità e armonia. Lo stesso vale per l’attuale crisi economica americana. Per risolvere le difficoltà finanziarie ed economiche che oggi affliggono l’America, occorre applicare non solo la mano invisibile, ma anche quella visibile”. Chissà se il primo ministro cinese Wen Jiabao aveva in mente il libro di Giovanni Arrighi[14] quando – nell’intervista a Fareed Zakaria (la prima concessa a un giornalista “occidentale”, come è stata presentata) e pubblicata da “Newsweek” nel settembre 2008, cioè nel pieno montante della crisi economica globale – ha pronunciato queste parole.

La tesi centrale di Arrighi è chiara e suggestiva: esiste una via nello sviluppo dell’economia di mercato che non solo non coincide con lo sviluppo del capitalismo, ma è stata da questo artificialmente negata e stravolta. Era la via, sostiene Arrighi non diversamente da Wen Jiabao, indicata da Smith. Le sue tracce, storicamente, possono essere trovate nella “rivoluzione industriosa” dell’Asia orientale del XVIII secolo, radicalmente differente dalla “rivoluzione industriale” inglese; oggi, quest’economia di mercato non capitalistica si incarna, almeno in potenza, nella Cina post-riforme, destinata a sostituire la declinante egemonia americana per dar vita a un nuovo ciclo di sviluppo del sistema-mondo. Un ciclo che accompagna e supera l’autunno non solo degli Stati uniti, ma dello stesso capitalismo.

Dunque, non sappiamo se Wen sia un lettore di Arrighi, ma possiamo affermare con certezza che Aihwa Ong ha in mente Foucault quando descrive le tecnologie neoliberali in Cina, aiutandoci ad approfondire criticamente la tesi del grande teorico della world system theory – pur lasciando aperti affascinanti interrogativi e problemi teorico-politici che meriterebbero ben altro spazio di trattazione. Nell’auto-modellarsi dei lavoratori cognitivi di Shanghai e nelle nuove forme di produzione della soggettività nella Cina contemporanea, Ong vede un radicale riconfigurarsi delle linee di distinzione tra pubblico e privato. Il problema, allora, non è tanto il rapporto tra “mano visibile” e “mano invisibile”, quanto invece l’intersezione tra libertà di mercato e autoritarismo politico dentro il nuovo regime globale di accumulazione e valorizzazione. Lo Stato socialista, quindi, governa non la transizione a un’economia di mercato non capitalistica, ma piuttosto le forme particolari che il capitalismo cinese assume dentro il mercato globale. È la distinzione tra pubblico e privato a essersi esaurita, poiché entrambi collaborano alla costruzione delle nuove tecnologie di governance capitalistica. Sulla stessa linea, nel caso di Zhongguancun Yu Zhou dimostra come l’intervento dello Stato sia importante ma non decisivo: anche qui sono all’opera meccanismi e modalità di comando che vanno al di là della dialettica tra pubblico e privato.

Questa lunga transizione cinese, tuttavia, presenta caratteri specifici e, soprattutto, è costellata di conflitti. Le lotte dei lavoratori, di cui il saggio di Ching Kwan Lee ci mostra una fenomenologia estremamente ricca e dettagliata, usano un linguaggio particolare. Fanno cioè continuamente appello alla legalità socialista per portarla alle estreme conseguenze, ovvero per determinare una riappropriazione operaia degli immaginari che il socialismo ha evocato in tempi ormai lontani. In questo quadro, sostiene l’autrice, i lavoratori della “cintura della ruggine”, un tempo garantiti dal contratto sociale socialista, si sentono ora traditi e abbandonati dallo Stato: le loro proteste assumono, dunque, la forma della disperazione. I lavoratori migranti della “cintura del sole”, invece, estranei allo Stato socialista e al suo contratto sociale, agiscono in modo differente. La loro insubordinazione si appropria in modo pragmatico, appunto, del linguaggio legalitario imposto dall’era delle riforme in Cina, per sovvertirne il significato, ovvero per usarlo come strumento della lotta di classe. Non si tratta di una pratica nuova: in Cina era successo, ad esempio, per il gruppo “16 maggio”, che nella seconda metà degli anni Sessanta attaccava la direzione di Mao da posizioni definite di “ultra-sinistra”, scegliendo come fonte di identificazione il giorno del 1966 in cui il “grande timoniere” aveva emesso la prima circolare sulle linee della rivoluzione culturale.

In questo quadro, allora, i claims contro la corruzione delle amministrazioni locali e la dirigenza territoriale del partito assumono un significato del tutto particolare. La corruzione ha, infatti, radici maledettamente materiali, che vanno ricercate – sostiene Wang Hui – proprio in quell’era delle riforme ritenuta la base del successo economico cinese:

Dal punto di vista del mercato, la riforma creò un sistema dei prezzi “a doppio binario” come condizione della transizione (e cioè la compresenza di prezzi fissati dal piano nazionale e di prezzi di mercato, dove il primo dei due meccanismi riguardava i mezzi di produzione – inclusi i mezzi di produzione rimasti dopo che le quote nel piano nazionale erano state completate – e il secondo riguardava i prezzi dei beni di consumo). La presenza simultanea di prezzi pianificati e prezzi di mercato predispose le condizioni ottimali per il diffondersi della corruzione e dell’appropriazione indebita (che nel caso di funzionari o di organizzazioni amministrative consisteva nella manipolazione del sistema dei prezzi, così da poter speculare o imbrogliare sui prezzi stessi). Dal punto di vista della riforma delle imprese, si pensò che la ristrutturazione dovesse essere guidata dall’istituzione del sistema dei contratti e dalla separazione della politica delle imprese stesse, ma senza una trasformazione del sistema politico quest’ultimo risultato fu estremamente difficile da ottenere. Di fatto, accadde che dietro lo slogan della separazione tra politica e impresa ciò che finì per separarsi non furono i legami tra politica ed economia, ma quelli tra proprietà e management. Nella confusione del processo di trasferimento di poteri, una quantità significativa della proprietà nazionale fu trasferita, “legalmente” e illegalmente, a vantaggio personale di una ristretta minoranza[15].

Ancora una volta, la corruzione non riguarda solo il malaffare o le deprecabili condotte di avidi speculatori, come in questi tempi di crisi le opzioni giustizialiste vorrebbero far credere, ma è generata dal capitalismo stesso. Invocare la forca per i corrotti, tutto sommato, serve semplicemente per salvare un sistema che produce esso stesso corruzione. Questa è, infatti, come il caso cinese dimostra, consustanziale ai rapporti di classe dentro un processo di transizione e di crisi.

Ci sia concessa, a questo punto, una breve nota metodologica che pone immediatamente una questione politica. La bibliografia di testi cinesi presentata nei saggi (oltre a quelli in lingua inglese, a testimonianza di un dibattito internazionale incomparabilmente più ricco che in Italia[16]) ci restituisce un’immagine alquanto differente da quella di una società soffocata e ammutolita sotto la cappa autoritaria: squarciato il velo dell’ufficialità, emerge un dibattito critico estremamente vivace e combattuto. In particolare, il testo di Lee è ricco di materiali di documentazione in cinese, raccolti attraverso le statistiche dei sindacati, degli studiosi e degli uffici del lavoro territoriali che minuziosamente registrano i conflitti e le lotte, per farli circolare in libri pubblicamente accessibili. Non ci risulta che nell’Italia liberaldemocratica dei Rampini ciò avvenga in modo così sistematico. Da questa letteratura si evince che i sindacati – rigidamente subordinati al Partito e allo Stato – assolvono al loro ruolo tradizionale, fanno cioè vertenza, tutelano gli interessi della forza lavoro e contrattano per venderla a un prezzo più alto. Il problema, semmai, è quella depoliticizzazione del conflitto sul lavoro che è tratto affatto comune tra l’Europa e la Cina.

Da questo punto di vista, forse, la parte meno convincente del saggio di Lee è il suo rifarsi, sulla scorta di Beverly Silver, alla distinzione tra due tipi di insubordinazione: da un lato il «tipo Polanyi», caratterizzata dalla reazione dei lavoratori contro i processi di espropriazione e proletarizzazione, in un movimento pendolare e di ripetizione; dall’altro il «tipo Marx», che si sviluppa a partire dai rapporti di sfruttamento in una successione di stadi, in ognuno dei quali l’organizzazione produttiva è trasformata. Così come è alquanto dubbia l’immagine che Arrighi offre dei conflitti in Cina, racchiusi in un’indistinta etichetta del “sociale” e perciò deprivati della loro identità di classe e dunque politica. In entrambi i modelli, si tratta di una rappresentazione delle lotte che le riduce a essere pungoli critici che fanno leva sul Partito e sullo Stato, anziché agire – marxianamente – dentro e contro i rapporti di produzione. Ovvero, le confina al ruolo di cinghia di trasmissione tra le sfere autonome del “sociale” e del “politico”.

A ogni buon conto, forse non sappiamo con esattezza se e quale Adam Smith sia o meno arrivato a Pechino, ma sicuramente dovremmo farci accompagnare o condurre Lenin a Shanghai per indagare a fondo lo sviluppo del capitalismo socialista in Cina e afferrare le possibilità di trasformazione che si dischiudono nella transizione del presente, al pari degli straordinari problemi e rompicapi che si celano dentro la nuova composizione del lavoro, immediatamente globale e radicalmente eterogenea, indubbiamente magmatica e frastagliata, comunque irriducibile a unità[17]. È allora interessante notare come l’89 di Piazza Tienanmen – più volte citato in alcuni dei saggi – è invece nominato nel libro di Arrighi solo una volta, di sfuggita. Si tratta, forse, di provare a darne una lettura radicalmente diversa da quella prontamente fornita in “occidente”, quella cioè del movimento liberaldemocratico soffocato dall’efferatezza di un regime comunista che non si è rassegnato a essere travolto dalla Storia e dalle macerie del muro di Berlino. E se invece la repressione di Piazza Tienanmen fosse stato non l’ultimo atto della presunta ferocia del socialismo cinese, bensì il battesimo di sangue del nuovo corso “neoliberale”? Colpirne uno per educarne cento è così diventato il viatico per la costruzione di una soggettività conforme alle nuove regole dell’industria creativa, ivi compresa la trasgressione controllata e una libertà sotto chiave. Da questo punto di vista, ciò a cui si è assistito nell’era delle riforme non è tanto o almeno non solo una radicalizzazione dell’individuo senza radicalizzazione della libertà politica, per citare Ong, ma soprattutto una radicalizzazione della libertà dell’“economia creativa” senza radicalizzazione della libertà dei lavoratori.

In questo inedito quadro temporale, il movimento di piazza Tienanmen è stata la prima rivolta globale contro il capitalismo neoliberale. C’è il coraggio e il sangue degli studenti cinesi all’origine di Seattle. Costituisce la nuova genealogia di un movimento globale, altroché l’immagine della “nuda vita”, sola e impotente, di fronte a un potere sempre pensato come totalitario! È stato, senza dubbio, un movimento non solo complesso, ma apertamente contraddittorio. Non è un caso che i riformatori neoliberali, la cui narrazione prevalse sia nel raccontare il movimento stesso sia nel sostenere le riforme di Deng, ossia il carnefice, accusassero i radicali di essere dei residui della rivoluzione culturale[18]. Proprio qui, avanzando sui carri armati, si è consolidata allora la contro-rivoluzione culturale. Così, mentre gli apologeti del capitale si preparavano a sancire la “fine della storia”, il movimento cinese la riapriva su un nuovo piano. Un piano in cui il socialismo veniva pienamente sussunto dalle nuove forme dello sviluppo capitalistico, che si collocavano appunto al di là della consunta dialettica tra pubblico e privato. La Repubblica popolare si metteva al servizio di un’accumulazione capitalistica con “caratteristiche cinesi”. E la sfida si situava immediatamente su una nuova coniugazione di libertà e uguaglianza, ovvero sulla loro reinvenzione. Qui il movimento è fallito. Qui bisogna osare vincere.

* Introduzione a Gigi Roggero (a cura di)), La tesa del drago. Lavoro cognitivo ed economia della conoscenza in Cina, ombre corte, 2010

[1] Andrew Ross, Nice Work If You Can Get It: Life and Labor in Precarious Times, New York University Press, New York-London 2009.

[2] Per un approfondimento del dibattito sul capitalismo cognitivo si veda Carlo Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Manifestolibri, Roma 2006; Federico Chicchi e Gigi Roggero (a cura di), Lavoro e produzione del valore nell’economia della conoscenza. Criticità e ambivalenze della network culture, in “Sociologia del lavoro”, n. 115, Franco Angeli, Milano 2009.

[3] Cfr. Fred Ho e Bill V. Mullen (a cura di), Afro Asia: Revolutionary Politics & Cultural Connections Between African Americans & Asian Americans, Duke University Press, Durham, NC-London 2008.

[4] Cfr. Wang Hui, Il nuovo ordine cinese. Società, politica ed economia in transizione (1997), Manifestolibri, Roma 2006. Si veda inoltre l’utile libro di Angela Pascucci (con prefazione di Wang Hui), Talkin’ China, Manifestolibri, Roma 2008.

[5] È una categoria, quella di neoliberalismo, spesso vaga e indistinta, usata da altri autori e in molti ambiti del movimento globale in modo alquanto discutibile, per identificare una sorta di neo-totalitarismo senza scarti e residui, e finendo per non nominare mai il vero nemico, il capitale.

[6] Sulla politica delle industrie creative e sulla loro peculiare traduzione in Cina si veda anche Geert Lovink e Ned Rossiter (a cura di), MyCreativity Reader: A Critique of Creative Industries, Institute of Network Cultures, Amsterdam 2007.

[7] David Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente (1989), trad. it. Il Saggiatore, Milano 1997.

[8] Per l’approfondimento di tali aspetti si veda Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Confine come metodo, ovvero, la moltiplicazione del lavoro, in “Transversal”, disponibile su http://translate.eipcp.net/transversal/0608/mezzadraneilson/it, 2008.

[9] Christian Marazzi, Capitalismo digitale e modello antropogenetico di produzione, in Federico Chicchi – Jean-Louis Laville – Michele La Rosa – Christian Marazzi (a cura di), Reinventare il lavoro, Sapere 2000, Roma 2005, p. 110.

[10] Si veda anche Aihwa Ong, Neoliberalism as Exception: Mutations in Citizenship and Sovereignty, Duke University Press, Durham, NC-London 2006; Aihwa Ong, Per favore rimanete! Soggetti pied-a-terre nella megacittà (2007), trad. it. in “Posse”, ottobre 2007, pp. 149-165.

[11] Andrew Ross, Fast Boat to China: Corporate Flight and the Consequences of Free Trade – Lessons from Shanghai, Pantheon, New York 2006.

[12] Sul fondamentale nesso tra migrazioni e lavoro in Cina si veda anche Pun Ngai, Made in China: Women Factory Workers in a Global Workplace, Duke University Press, Durham, NC-London 2005; Jean-Louis Rocca, La condition chinoise. Capitalisme, mise au travail et résistances dans la China des réformes, Karthala, Paris 2006.

[13] Xiang Biao, Global “Body Shopping”: An Indian Labor System in the Information Technology Industry, Princeton University Press, Princeton 2007.

[14] Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo (2007), Feltrinelli, Milano 2008.

[15] Wang, Il nuovo ordine cinese, cit., pp. 26-27.

[16] Solo per citare, tra i molti, un paio dei contributi più recenti, si vedano: Minxin Pei, China’s Trapped Transition: The Limits of Developmental Autocracy, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 2008; Peter Gries e Stanley Rosen (a cura di), Chinese Politics: State, Society and the Market, Routledge, London-New York 2010.

[17] A questo proposito può essere di grande utilità il libro sullo sviluppo del capitalismo in India di Kalyan Sanyal, Rethinking Capitalist Development: Primitive Accumulation, Governamentality & Post-Colonial Capitalism, Routledge, London-New York-New Delhi 2007.

[18] Cfr. Wang, Il nuovo ordine cinese, cit.

 

 

 

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