La fine del governo dei media, l’inizio di un mondo nuovo
di COLLETTIVO UNINOMADE
“Un giornale è un giornale è un giornale”. Parafrasando Gertrude Stein (“una rosa è una rosa è una rosa”) Luigi Pintor dedicò questo pensiero al mezzo che usava nel suo lavoro e al mestiere che faceva. E aggiunse: “A mezzogiorno con il giornale si possono avvolgere le patate”. A dire di come potesse essere eminentemente politico solo il ruolo di quel giornalista che ha il senso della transitorietà di ciò che fa e che ha ben presente la differenza tra informazione e propaganda. Cioè riconosce il senso vero e coerente dello strumento che maneggia.
Premessa 1: controllo
Affrontare il tema dei media vuole dire partire dal problema rappresentato da questa tensione che può tradursi in una contraddizione fatale. Che i media siano strumenti utilizzati per condizionare l’opinione pubblica non è certamente una notizia. Ad oggi, sono amplificatori di linee politiche che eludono il confine del ruolo loro proprio e l’ineludibile demarcazione del compito, per assumerne, presuntuosamente e pretestuosamente, un altro, che dilata e approfondisce lo spazio-tempo della loro azione. Un riflesso condizionato che ha radici lontanissime nella storia tutt’altro che liberale di questo paese e della sua borghesia e che oggi spiega molto del disastro nel quale versa l’editoria, soprattutto in Italia. Ma che dice qualcosa, in particolar modo, anche delle catastrofi che stanno segnando adesso le sorti politiche dello stato.
L’apparato dell’informazione, basato su un fideistico presupposto di “democraticità”, rappresenta l’insieme degli equilibri del potere che determinano e hanno determinato il nesso tra lo stato e la società. Lungi dall’assumere quel ruolo da “quarto potere” vigilante che tanto piace celebrare alla categoria dei giornalisti, appassionatamente impegnata a fantasticare di libertà di informazione e di dettami costituzionali, i giornali, e ancor peggio la televisione, sono in realtà lo strumento che ha consentito e consente ai partiti, e ai mercati, la loro massima efficacia sia nel senso della intensità dell’azione proposta che in quello della mediazione con la cosiddetta “società civile”, controllata proprio attraverso questi stessi dispositivi. Che cosa significa questa affermazione? Che tutti gli esempi con i quali ci misuriamo non mostrano quasi alcuna imperfezione in un’impostazione generale che vuole giornali e tv come imprescindibili ausiliari del sistema economico-politico, specie di enti accessori della governamentalità, il cui incarico è la riproposizione di un processo perpetuo di azzeramento del conflitto.
Si potrebbero fare infiniti esempi su come la crisi economica e finanziaria, lo spread, il debito pubblico, le imposizioni dell’Europa, vengano rappresentate da questi organismi: elementi intangibili, metafisici, fuori da ogni umana comprensione, sui quali non è possibile intervenire. I processi di controllo dei meccanismi dell’informazione rendono più complesso interpretare lo slittamento dello scenario sociale, producendo l’effetto di uno spiazzamento sul versante politico. È come se i media, con il pretesto di informare, consentissero di segnare un distacco tra la condizione reale delle persone e la percezione della loro vita, da una parte, e il pensiero critico e le strutture organizzative, dall’altra. Uno spiazzamento che ha reso sempre più forte ed egemone ciò che il capitale imponeva e proponeva. La comunicazione e l’informazione contemporanee conducono alla massima estensione il concetto di “moderno” teorizzato da Luhmann che potremmo tradurre come il passaggio dalla centralità umana a quella del ciclo produttivo. Una trasformazione in macchina, con il contributo della propaganda, di aspetti della vita in primo luogo impalpabili, relazionali, cioè umani. I media contribuiscono a sostituire ciò che accade nella sfera percettiva, sostituiscono gli accadimenti reali, re-interpretandoli, rispettando con ciò il senso generale e gli effetti concreti che sono chiamati a produrre. “Il nervosismo dei mercati” e il “test dei mercati” è, alla fine, ciò che nella distorsione della parola mediatica rende progressivamente reale la paura degli “avvoltoi delle agenzie di rating pronti a declassarci” in assenza di “conti in ordine” e che potrebbe condurci a imboccare la strada buia e irta di spine dell’“esempio della Grecia”. Si evocano da un lato, l’eroica lotta per il pareggio dl debito nel più sano spirito del capitalismo e il piacere sottile di essere – sempre! – “servitori dello stato”, dall’altra, si evidenzia l’asimmetria informativa alla quale soccombiamo nel pieno della società della conoscenza. Essa fa leva sulla mancanza di trasparenza di un sapere specialistico che mira a mantenere inalterata la propria sacralità, cioè il proprio potere. Citare, ad esempio, trattando di bilancio dello stato, l’“avanzo primario” senza spiegazioni ulteriori significa solo mettere il pubblico in una conclamata condizione di passività e di subalternità. Alla faccia del diritto all’informazione.
Eppure, è proprio questa stessa mala-informazione a definire “somari” gli italiani, come ha fatto recentemente il quotidiano la Repubblica. Un lungo articolo dal titolo “I nuovi analfabeti” è riuscito nel prodigio di parlare di “analfabetismo di ritorno” e della diffusa ignoranza del paese senza citare mai i tagli alla scuola e all’università, né il loro ammontare nel tempo, né dati sulle motivazioni dell’abbandono scolastico in tempi di crisi, né sul basso tasso di laureati, in ulteriore contrazione. Quegli illetterati degli italiani sono incapaci di leggere un foglio di istruzioni: “Archiviato l’analfabetismo classico ne avanza uno più sottile, quello di chi legge ma non comprende”. Se la prova consiste nell’essere capaci di comprendere un giornale come questo, noi ci mettiamo, senza dubbi, nel novero dei nuovi analfabeti.
Premessa 2: concentrazione
Così, insomma, il settore dell’informazione e più in generale della comunicazione è diventato centrale nel bio-capitalismo cognitivo. Se abbiamo sostenuto più volte che i mercati finanziari sono oggi al centro del processo di valorizzazione e di accumulazione del capitalismo, dobbiamo aggiungere con la massima chiarezza che le forme di comunicazione odierne, seppur in forma diversa, ne rappresentano l’esternazione.
In Italia e nel mondo, la guerra dell’informazione ha assunto un’importanza fondamentale nell’economia e nella società. Determinata dal cambiamento dei paradigmi basati su conoscenza, relazione e linguaggio, ha incrementato esponenzialmente il ricorso all’utilizzo di campagne di denigrazione, di discredito e di disinformazione, allargato la generazione di allarmismi, l’evocazione di sistemi emergenziali e di soluzioni d’urgenza, rendendo “normale” lo stato d’eccezione. E poi, ancora, la pratica dell’illazione e la disparità nella difesa ed è quasi superfluo ricordare le migliaia di articoli scritti contro i migranti. Se è certamente vero che tutto ciò è sempre esistito, cioè che ha sempre fatto parte della storia dei media, tuttavia oggi è obbligatorio osservare come l’accelerazione della digitalizzazione informativa e di altre forme della comunicazione social, abbiano dato impulso al tentativo, da parte degli stati e delle imprese, di dotarsi di un apparato offensivo e difensivo ancora più aggressivo e determinato.
Il bisogno di un controllo ideologico del consenso ha generato, nel tempo, grandi concentrazioni nel mondo dell’editoria che, a partire in particolare dagli anni Ottanta, ha perseguito sempre più precisamente logiche politiche. Tramontati i tempi degli “editori puri”, le grandi lobby dell’editoria sono legate a doppio filo con il mondo politico. Negli Usa, basti pensare alla News Corporation di Murdoch. In Francia, Hachette, i cui proventi derivano dall’industria delle armi, controlla quasi i due terzi dell’industria del libro e ha comprato ampie quote de Le Figaro per dare espressione alle proprie idee, come spiega André Schiffrin nel libro Il controllo della parola. Da noi viene sempre citato il caso di Mondadori, Mediaset e Medusa, possedute da Silvio Berlusconi, ma il caso di Rcs Mediagroup, editore del Corriere della Sera è forse più interessante e meno esibito. La fabbrica cognitiva più grande del paese annovera nel patto di sindacato quasi l’intero capitalismo italiano (Mediobanca, Fiat, Italmobiliare, Pesenti, Pirelli, Fondiaria gruppo Unipol, Intesa San Paolo, Assicurazioni generali, Simpar gruppo Lucchini, Merloni, Eridano finanziaria, Edison. A questi vanno aggiunti Giuseppe Rotelli, Diego Della Valle e Benetton). Ciò non significa che i padroni italiani siano editori ma che sono i proprietari del Corriere della sera. Nella sostanza, la linea del quotidiano (la sua direzione) viene tradizionalmente espressa da Torino, da Fiat con l’appoggio di Mediobanca, come già per La Stampa. Tutto questo non è certo una scoperta, ma si può commentare che proprio a partire dalla fine degli anni Ottanta, la fabbrica torinese sviluppò quella che allora venne chiamata “Filosofiat”: dopo essersi imposta allo stato italiano come unico acquirente possibile, Fiat dismette l’Alfa Romeo e diversifica, buttandosi anche nel settore editoriale e librario con l’acquisizione progressiva di quote di case editrici, da Bompiani ad Adelphi a Fabbri.
Dal bipolarismo Mondadori-Rcs, resta fuori il gruppo editoriale Espresso-Repubblica, controllato da Carlo De Benedetti. L’“ingegnere”, amico di Gianni e Umberto Agnelli , passato dalla Cir (Concerie Industriali Riunite) alle rotative, ha risposto cercando di creare, direttamente, il partito-giornale: il partito di Repubblica, come vedremo.
Insomma, un impressionante cartello di industriali detiene nelle proprie mani tutto il settore editoriale e mediatico italiano, arrivando da deserti creati altrove e non conoscendo affatto la materia. E scansando sempre, come è tipico del capitalismo nostrano, ogni ipotesi di gestione manageriale (eccezion fatta per i tagliatori di teste).
E’ perciò fin troppo ovvio che questi signori non solo non abbiano mai visto di buon occhio alcun genere di cultura alternativa e non asservita, ma abbiano anzi approfittato di ogni occasione possibile per indurre chi di dovere a bombardare ogni elemento che sfuggisse alla cattura e alla normazione nella costruzione di un ordine del discorso obbligato, su qualsivoglia argomento. Da costoro non abbiamo mai avuto sconti ma non rimpiangiamo niente.
Alla fine, è stata anche e proprio la chiusura nella presunzione autocratica del mainstream ciò che – dopo aver reso l’informazione italiana tra le più qualitativamente deboli dei paesi occidentali cosiddetti democratici (nella classifica mondiale di Reporter senza Frontiere del 2013 è al 57° posto) – ha generato endogenamente la propria stessa crisi, collegata al collasso di un sistema di potere al quale era troppo strettamente vincolata. La fine dei giornali, almeno in Italia, è stata anche determinata da strategie “pattizie” con il sistema, che ne hanno minato, sempre più profondamente, la credibilità, disperdendo progressivamente l’attenzione dei lettori. Più ancora dell’innegabile problema rappresentato dall’impatto del web di cui tanto si discetta, è stato l’abbraccio mortale con il potere, al quale non si mai trovato il coraggio (la dignità) di sottrarsi, a schiantare veramente le basi dell’impianto. Ma, a questo punto della storia, non c’è più autodafé possibile.
Beppe Grillo, all’improvviso
Date queste premesse necessarie per inquadrare sommariamente il problema, è il caso di concentrarsi su alcuni interessanti novità messe in luce dalla compagine uscita dalle elezioni di fine febbraio. Durante la campagna elettorale il Correre della sera si è sdraiato su Monti mentre il partito di Repubblica assumeva la guida del Pd. Giornali, sia chiaro, che perdono copie da parecchio tempo – nell’ultima rilevazione Ads (dicembre 2012) il Corriere della Sera ha subito un calo delle vendite in edicola del 5,5% e La Repubblica il 2,9%. Ma non vanno meglio la Gazzetta dello Sport (-3,6%), La Stampa (-2) e il Messaggero (-2,8) – si tratta dei cinque quotidiani principali, in Italia.
Sarebbe, a questo punto, obbligatorio concentrarsi sul tema dell’ingerenza della pubblicità e delle inserzioni pubblicitari che hanno assunto nel conto economico dei giornali italiani un ruolo essenziale e contemporaneamente esiziale: da esse dipendono e il resto è contorno. Ci limitiamo, per brevità, a citare la questione, perché non sfugga all’attenzione. Si tratta, evidentemente, di una ulteriore angolatura di quel regime di controllo proprietario a cui sono completamente soggetti e che ricade sul lettore-cliente a cui l’ipnosi della “marchetta” è indirizzata.
Ciò detto, l’aspetto inedito – rispetto a un trend di contrazione delle copie vendute noto da tempo – mostrato con tutta evidenza dall’elezione del 24 febbraio è che la reputation dei quotidiani citati è finita alle ortiche. Il calo delle vendite, le difficoltà con la pubblicità, possono essere tranquillamente ascritte alle trasformazioni tecnologiche, a internet, alla sfiga o alla crisi “strutturale” dell’editoria – come si ama dire nell’ambiente – ma non può sfuggire che ciò che le elezioni hanno messo in luce è il cedimento della capacità dei media tradizionali di condizionare l’opinione pubblica. E’ saltata la loro arroganza autoritaria, basata su regole truccate ma che era stata capace di reggere per lungo tempo. Neppure il concerto all’unisono organizzato dalle reti televisive è riuscito a ricreare armonia. Fiato alle trombe, la rianimazione di Berlusconi e dell’antiberlusconismo, operata per primo da Michele Santoro seguito da Bianca Berlinguer, non ha funzionato nel solito modo previsto dallo schema della “costruzione del nemico” (definire la propria identità assicurando l’esistenza di un ostacolo rispetto al quale misurare un sistema di valori presunto “alternativo”). Mario Monti, sponsorizzato da Galli della Loggia e da tutti gli editorialisti del Corsera arriva a mala a pena in parlamento. Ma è soprattutto il Pd a mostrare, con la sua stentata vittoria, come l’operazione-partito, tentata da Repubblica, sia stata un flop. Per la “concertazione informazionale” del regime è stata, insomma, una disfatta su tutta la linea, non possiamo che sintetizzare così. Grillo scombussola gli infelici sondaggisti e si allarga parecchio, oltre ogni previsione, non avendo rilasciato alla stampa e alla tv la benché minima intervista. Semmai, qualche fugace battuta, contro i giornalisti.
Crolla l’allestimento, crolla la scommessa, crolla il governo precostituito dei giornali, cioè si inabissa il naviglio Pd-Lista Monti, dal quale anche Sel non è riuscita a svincolarsi. Crolla, con ciò, l’apparato di un potere consolidato, rodato, affidabile, nel gioco di ruoli tra carta stampata e partiti. Sono davvero sepolti per sempre i tempi degli editoriali di Montanelli che, turandosi il naso, induceva gli italiani a votare all’infinito Democrazia Cristiana. Tanti saluti.
Eppure, sin dall’autunno il piano era stato predisposto nei dettagli. D’Alema rilascia una lunga e articolata intervista all’Espresso, di proprietà di De Benedetti, promettendo di “non ripetere gli errori del ’94 e quindi non lasciare praterie a un nuovo Silvio Berlusconi”. Come fare? “Dobbiamo costruire un asse di governo basato sull’alleanza tra progressisti e moderati”. Ed ecco infatti che il “repubblichismo” è un condensato di virtù etiche e di moderatismo politico e soprattutto economico. Repubblica conta sulla sua forza d’urto, sulla potenza di una macchina editoriale capace di fare sistema tra carta, web, tv online. Ma il grande progetto nel momento della verità si impantana, il partito di Repubblica deraglia, il Corriere è un alleato stordito mentre Il Fatto Quotidiano, sospinto nell’unico angolo libero verso Grillo, accetta il gioco dei cantoni, allenta, come tutti, le invettive contro il Berlusconi-papi e, piaccia o meno, esce vincente dalla gara.
Geometrica potenza non è stata, anche per Gomez, Travaglio e compagnia: cavalcano ciò che c’è, macerie di un paese infelice, impoverito e impaurito, rancoroso. Offrono in pasto ai precari la retorica della meritocrazia, il falso scintillio della competenza, il piagnisteo del “paga sempre Pantalone” insieme all’appello alla pena buona e giusta, garantita dalla magistratura, si fanno paladini dell’orgoglio s-finito di un’Italia ridotta a produttore di subfornitura dalla spending review.
In questo quadro alluvionato, è il Corriere, forse, a patire di più, è il più spossato dopo l’uragano. Né Monti né l’evocazione delle priorità istituzionali dettate dalla coppia Della Loggia&Esposito, hanno convinto davvero. Vivendo in tempi di “aspra congiuntura” dove incerte sono pure le “prospettive d’insieme della storia nazionale”, un mese prima delle elezioni, Ernesto Galli della Loggia verga un editoriale in cui chiede il ripristino del ministero della Cultura: “è una necessità aprire una fase interamente nuova nella vita del Paese”. Il messaggio comprende probabilmente la speranza che questa struttura faccia da tramite e recuperi finanziamenti pubblici all’editoria, sponsorizzando nuove regole, leggi e norme per stare in piedi nella crisi e nel vuoto, detto che Beppe Grillo da tempo alita promesse inquietanti nelle orecchie dei magnifici di via Solferino: “Il 2012 non sarà del tutto negativo. Porterà in dono la chiusura di molti giornali, finanziati con soldi pubblici, veri cani da guardia dei partiti”.
Lo shock è grande per il primo quotidiano italiano: la borghesia lo ha abbandonato. Si era distratto un attimo, quel tanto da non accorgersi che le era sparita la borghesia, che Milano, alla fine, non è la capitale morale di un grande stato ma una piccola città provinciale in una nazione in recessione e che le torri di Ligresti, al quartiere Isola (non così distante da Solferino), sono destinate a restare vuote perché sono finiti gli euro. Chiedere di pensare ai problemi dei precari, dei proletari che pure sono massa nel paese, generazione dopo generazione, sarebbe stato troppo ma anche la crisi dei ceti medi e le difficoltà del lavoro autonomo di seconda e terza generazione sono scivolate invano nei corridoi del palazzo dove stanno appese le vecchie fotografie che tanto piacciono a Piero Ostellino: un giornale fermo, immobile, come un semaforo, all’ancient regime.
Abbiamo aperto il paragrafo con il titolo “Grillo, innanzitutto”, perché è innegabile che il patron di M5s abbia avuto un peso in questo crollo mediatico. Pur non provando particolare simpatia per lui, se inquadriamo la vicenda rispetto alla spocchia di giornali che ben conosciamo, c’è da sorridere. Sarà più dura, ora, per i giornalisti del Corriere della sera reggere l’urto delle richieste di tagli pesanti al lavoro e alle elevate retribuzioni avanzate dalla compagine azionaria che li governa. Ora che costoro hanno capito che lo strumento non funziona più come “arma fine del mondo”, sarà difficile mantenere la forza contrattuale che ha contrassegnato gli anni d’oro del passato. E infatti già si scatena la canea. Pur essendo sempre stati assai poco amati a certe latitudini, non riusciamo a trattenerci dal segnalare una piccola questione di stile (lo stile è importante): troviamo francamente penoso che, a valle delle elezioni, la campagna contro i “lussi” dei giornalisti del Corsera, contro la casta dei giornalisti – Stella e Rizzo, una nemesi – possa partire dal Foglio di Giuliano Ferrara. Come dire: non riteniamo che i giornalisti del Corriere debbano prendere lezioni dal Foglio. Ma, alla fine, che cosa aggiungere? Sono, una volta tanto, problemi tra loro.
Gli eventi scorrono veloci e il rullo dell’attualità ci trascina con sé, in porterebbe oggi a ragionare di come il sistema mediatico non finisca di riproporre il proprio ruolo di guardiano, trovando altri mostruosi esperimenti da imporre al cittadino-elettore – sempre emozionato di fronte alle “primarie”: un governo del presidente, un’alleanza Pd-Pdl che a pensarci neanche è malaccio cosicché Berlusconi, ieri vergogna del paese, ora è passabile, Matteo Renzi in giacca di pelle ad Amici con Maria De Filippis. Le Repubblica non ha altre domande.
Ma tocca a noi
Forti della lezione impartita, M5s deride la stampa: “Vorremo pregarvi -tutti i giornalisti di Repubblica e alleati – di smetterla perché veramente a noi poveri maschi del M5s ce l’avete trifolati, le femmine invece manifestano sintomi del cosiddetto “latte alle ginocchia”, proprio non ce la facciamo più”. Il capo denigra il precariato nei giornali, non riuscendo a celare un’anima in fondo elitista, assai poco amichevole verso quella componente giovanile metropolitana che pure ha votato il movimento: “E’ chiaro che un ragazzo che prende dieci euro ad articolo non va a controllare le fonti dei suoi articoli: fa un articolo, lo sbaglia, fa un altro contro-articolo, poi fa una smentita, fa tre articoli e porta a casa uno stipendio. E’ questa l’informazione”.
Quello che ci interessa porre all’attenzione di chi ci legge è come uscire da entrambi questi schemi contrapposti, sulla base degli insegnamenti della cooperazione sociale e della rete. Di questi elementi, di questi strumenti, non ne facciamo idoli né vogliamo usarli come vuote parole d’ordine: sappiamo bene come gli incanti della rete possano essere, sempre, a loro volta, manipolabili e sussumibili. Tuttavia è dagli spazi aperti da questi mezzi e dalle illimitate capacità di utilizzo delle singole individualità – infiniti mondi che hanno la possibilità di connettersi e di interagire – che ha avuto origine – nella sostanza – ciò che abbiamo voluto enfatizzare come “la fine dei media” collegata alla crisi istituzionale che stiamo osservando. Grillo è stato abile soprattutto a convogliare a uso del proprio movimento e della propria persona la potenza di fuoco delle tecnologie e del web. Che tuttavia esiste a prescindere da lui: essa è comune.
Se è vera la lettura che proponiamo, e cioè che questa crisi mediatico-istituzionale è crisi innanzitutto di una modalità, legata a un passato e che non funziona più e che mai più si ricostituirà, allora bisognerà innanzitutto domandarsi come riempire questo vuoto profondo di sostanza politica, anche quando esso assuma la forma del “troppo pieno” nelle inutili parole dei giornali volte a modificare le nostre percezioni.
Come approfittare di questo empasse? Come disubbidire definitivamente a questa evidente mancanza di verità? Intendiamo questo processo non come ricerca metafisica ma come la necessità di trovare una via d’uscita da un’età della simulazione, insomma ciò di cui parla Baudrillard . E’ necessario perciò assumere noi stessi il problema di sconfiggere definitivamente questo iperreale che lascia spazio solo ai “modelli” preconfezionati e alla generazione simulata di differenza. Proponendo quale alternativa? L’essere credibili, l’essere “veri”, soggetti multiformi e autodeterminati nella parola e nell’azione, perché presenti, coinvolti, corpo e mente, agire e pensiero, braccia e cervello. Lo scrivere e il lottare, nelle fabbriche cognitive, nelle università, sul territorio, senza mediazioni. In “Appunti urgenti sulla situazione spagnola” Raùl Sanchez Cedillo scrive: “Si può dire che il 15M ha vinto in senso biopolitico, cioè è stato capace di contagiare il mainstream sociale, non in maniera diretta, organizzativa, istituzionale, ma agendo piuttosto sulle azioni possibili degli altri, comunicando e trasferendo affetti, emozioni, linguaggi e mondi possibili”.
Va riconosciuto a Beppe Grillo di essere stato capace di costruire un’arma potente, proprio a partire dai social network e dalla streaming tv, ma il limite del progetto sta nel fatto che rischia di rappresentare, a sua volta, un modello, un format, speculare a quel potere che si vuol mettere in discussione. Un’immagine piatta, bidimensionale, attenuata della politica, creatura artificiosa da marketing digitale. Tecniche, tattiche, stile manipolatorio, messaggi perfetti per il web, che si alimentano nel complottismo, nel pressapochismo, nella rabbia. Dunque, ancora una volta, iperreale, ancora una volta “modello” preconfezionato, cioè generazione simulata di differenza.
Il dibattito, a questo punto, dovrebbe spostarsi dall’editoria alla società e alla produzione complessiva delle forme culturali, perché è solo nell’integrazione ormai inscindibile tra queste forme – e nella loro ricaduta sociale – trova radici un’informazione che sia degna di questo nome, nella contemporaneità. “Spinte dalla frammentazione del tessuto sociale e dalla centralità di nuove tecnologie che facilitano processi cooperativi, una quantità incredibile di nuove pratiche di produzione (sociale, culturale, economica) proliferano e si diramano”. Una prima conseguenza di questa trasformazione è, come abbiamo provato a dire, la crisi delle possibilità di interpretazione univoca, di un’unica fonte di dominio e controllo sulla realtà e sui meccanismi di causa-effetto che la compongono. Una crisi, quindi, degli strumenti stessi tradizionalmente usati fino a qui per la gestione della politica, dell’economia e della società. Questa crisi ci parla di un bisogno di nuovi approcci e strumenti (culturali, progettuali, comunicativi) strumenti, diremo citando Bertram Niessen e un suo recente articolo dedicato all’open innovation, “che siano in grado di trattare la tremenda e magnifica complessità del mondo che abbiamo attorno e, ancor di più, di quelli che dovremo affrontare domani”.