Lezioni americane — #4 : To be continued
di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO
Nel cuore di Manhattan, a due passi dal Rockefeller Center, Fox News annuncia attraverso un grande display che la disoccupazione negli Stati Uniti è all’8,1%, con un numero crescente di persone – soprattutto tra i giovani e chi ha perso il lavoro – che hanno smesso di cercare un impiego. Il paese è in recessione, su questo non ci sono dubbi, mentre Paul Krugman confessa che il problema maggiore è la mancanza di modelli di riferimento da pescare nel passato. In questo quadro è significativo che il MoMA, a distanza di ottant’anni, ripresenti le opere del pittore comunista messicano Diego Rivera. Colpisce in particolare la capacità evocativa di Frozen Assets (tecnicamente i beni che non possono essere usati perché congelati dai debiti dei loro proprietari), dipinto all’inizio degli anni Trenta. Un’immagine impeccabile della New York della Grande Depressione, tra fascinazione per la nuove tecnologie impiegate nella costruzione dei grattacieli e lotta contro le profonde fratture che attraversano la società: gli operai al lavoro per la crescita della metropoli, la massa di disoccupati (lavoratori “dormienti” nell’opera) ammassati in un magazzino e le ricchezze congelate nei cavò delle banche.
Ma gli assets che sono congelati oggi non sono tanto quelli degli imprenditori e dei proprietari terrieri: sono innanzitutto i saperi del lavoro vivo, soffocati dalla morsa della precarietà e dell’indebitamento. Alcuni ex studenti, ora perlopiù lavoratori con contratti a termine dell’università, ci raccontano della loro lunga battaglia per sottrarsi al pagamento delle decine di migliaia di dollari di debito accumulati (per molti, a dire il vero, la somma supera i 100.000 dollari). Agenzie come la famigerata Sallie Mae hanno creato staff di antropologi che fanno studi sulla costruzione della vergogna e di psicologi che addestrano gli operatori dedicati all’infame compito di mettere sotto pressione i debitori: devono capire le tattiche da adottare, come piegare gli individui, qual è la loro predisposizione (se vogliono pagare e non possono, oppure stanno cercando di fare i “furbi”, ovvero se sono persone con o senza “morale”). Aumentano i casi di coloro che hanno cambiato non solo il numero di telefono ma addirittura l’identità, oltre a chi è stato costretto a lasciare il paese (le proporzioni del fenomeno dei “rifugiati per indebitamento”, c’è da scommetterci, cresceranno nei prossimi anni). Negli ultimi mesi però, dopo l’emergere di Occupy Wall Street, ci vanno molto più cauti, le pressioni si sono indebolite o addirittura in alcuni casi sono cessate. Facendo della lotta al debito un suo punto di programma centrale il movimento, ci dicono, ha già conseguito dei risultati concreti: non possono più trattare gli individui nel loro isolamento, perché sono costretti a fronteggiare una soggettività che inizia a diventare collettiva. Il regime morale del capitalismo finanziario mostra le sue crepe e i punti di possibile rottura.
Indebitamento e precarietà – non più come fasi temporanee bensì come condizione permanente della vita – generano ansia per il futuro? Si avverte un fenomeno per certi versi simile a quello che in Italia è stato messo in evidenza anche da alcune recenti ricerche. Qui l’ansia per il futuro è forte tra chi ha più di 30-35 anni, cresciuto nelle promesse del sogno americano (il clintonismo e la new economy ne hanno rappresentato l’ultima variante) e ora si trova a fare i conti con la loro definitivamente esplosione. Chi invece si è socializzato in un contesto di declassamento e blocco della mobilità sociale, cioè gli indebitati e i precari di seconda generazione, non ha una particolare ansia per il futuro perché non ha mai avuto la possibilità di crederci. Cambia radicalmente la percezione soggettiva del tempo, che collassa nel presente. Questo è ovviamente un grande problema per molte ragioni, dalle condizioni di vita alla difficoltà di costruire prospettiva storica fino a comportamenti potenzialmente nichilisti, ma rappresenta al contempo una grande opportunità. É forse anche qui che vanno ricercate le radici materiali delle pratiche costituenti di Occupy, il desiderio di riappropriarsi immediatamente di spazi e tempi, e dunque di istituirli come spazi e tempi comuni. Non sorprende, allora, che questo grande processo di soggettivazione riguardi in modi differenti le varie generazioni e cominci molto presto: alcuni bambini delle scuole elementari ci raccontano della loro occupazione delle mense per rivendicare cibo migliore e decidere cosa mangiare.
Tuttavia non si può rimanere intrappolati nel presente e soprattutto nella sua celebrazione: così negli intensi e diffusi dibattiti del dopo May Day si discute delle prospettive e di come continuare, a partire da un’analisi di cosa è stato fino a qui fatto. Ad esempio, ci si chiede: come costruire un nuovo linguaggio? Lo stesso termine “occupy” non è usuale nei movimenti americani, ha una derivazione prevalentemente di strategia militare: non per una vocazione bellicista del movimento, ma per esprimere la necessità di conquistare spazi che sono prodotti in comune e continuamente espropriati dalla violenza del capitalismo finanziario. Proprio il tema del comune è centrale e ritorna continuamente nelle discussioni, pur con differenti declinazioni. In particolare, la città e lo spazio metropolitano sono individuati come il luogo dell’accumulazione capitalistica e della produzione del comune. E tuttavia, nei discorsi degli attivisti, sembra talora che i due processi siano tra loro reciprocamente esterni, come se si trattasse di oggetti separati e non di un rapporto sociale. Ciò crea talora uno scivolamento nell’utopia, questione che però nella storia americana e dei movimenti negli Stati Uniti assume una particolare coloritura. In ogni caso, il problema è sempre più come si costruiscono nuove istituzioni in una società che sta collassando. Che poi queste istituzioni assumano la forma di isole nella rete oppure di una rete organizzata, questo è il nodo del dibattito in corso.
Se guardiamo all’Europa dall’altra sponda dell’Atlantico, nello stesso modo in cui l’anno scorso l’abbiamo ripensata a partire dalle insurrezioni in Nord Africa, possiamo vedere come a sconfiggere lo specifico “populismo” reazionario che si diffonde nella crisi (evidenziato anche dalle ultime tornate elettorali) non sia il sistema della rappresentanza e dei partiti, che per i suoi professionisti coincide con la politica tout court, ma al contrario una radicalità capace di darsi forma politica e creare nuova istituzionalità collettiva. Negli Stati Uniti il Tea Party non è stato messo nell’angolo dai democratici, ma dalla forza del movimento Occupy. E si faccia attenzione: il “populismo” (termine piuttosto vago, che ha perso ogni collegamento storico con la propria genealogia ottocentesca) non è solo quello inquietante dei nazionalismi, delle riterritorializzazioni identitarie, fino ad arrivare ai neo-nazisti: esiste, ed è quello principale, un “populismo tecnocratico” e appunto della rappresentanza, che cerca di rendere oggettive e neutralizzare le politiche di austerity. Anche qui si tratta di occupare un terreno, quello della crisi, e rovesciarlo in spazio di possibilità, di un nuovo divenire.
Tornando in Italia, riproponiamo la domanda che ci ha accompagnato nell’ultimo anno: cosa impedisce – se si fa eccezione per la Val Susa – l’emergere di un movimento simile a “occupy” nella penisola? Ritornano i problemi che abbiamo cercato di mettere in evidenza e i connessi compiti politici: bisogna far saltare i “tappi”, cioè le forze che – anche all’interno dei movimenti – trattengono l’emergere di una nuova composizione politica. San Paolo le avrebbe chiamate le istituzioni del katéchon: se non comprendiamo che queste sono ciò che si oppone al comune, finiamo per confondere reazione e rivoluzione, carenza e potenza. Allora, assumere il carattere transnazionale delle lotte significa anche la necessità di capire e imparare: non per esaltare o importare dei modelli, cose che è bene lasciare ai turisti e agli agenti commerciali, ma per fare inchiesta militante.