Summer School: appunti di inchiesta su loisir e lavori dello spettacolo
di MAURO TURRINI
Linee di frattura e di fuga
Adottando un metodo che assume come principio di fondo un approccio radicalmente contestuale, vorrei prendere le mosse dalla sorpresa rispetto ai confini che dividono il campo delle arti performative non plasticienne. Se le divisioni più tradizionali, quelle radicate tanto nel senso comune quanto nelle classificazioni burocratiche (ex-Enpals, tanto per intenderci) sono spesso violate in un numero sempre maggiore di occasioni – in cartelloni, in singoli eventi performativi e in alcuni spazi associativi – a emergere in modo distinto è invece il confine invisibile ma dagli effetti immediatamente concreti che divide in due parti asimmetriche il mondo delle produzioni culturali, siano essi concerti, rappresentazioni teatrali, eventi culturali, produzioni cinematografiche o televisive e così via. Da una parte, ci sono i grandi nomi, con un forte potere contrattuale, cachet sempre più alti e, nel caso di concerti, strutture sempre più magniloquenti (e pericolose). Dall’altra, c’è un vasto insieme di tecnici, ballerini, turnisti, coristi, piccole compagnie teatrali o formazioni musicali che si trova a lavorare spesso in modo non completamente regolarizzato (viaggi, prove, o addirittura serate non contrattualizzate), e faticano a vedere riconosciuto il proprio lavoro, a partire dalla soglia minima delle 120 giornate lavorative necessarie per acquisire un riconoscimento previdenziale e assistenziale.
Ponendoci nella parte a noi più consona, in quel 99% che dà carburante alla macchina dello spettacolo, troviamo una serie di iniziative decisamente interessanti, chiaro sintomo di una contraddizione in fase di maturazione e rielaborazione. Gli esiti non sono stati sempre felici. Anzi, per lo più sono stati fallimentari (penso al sindacato autonomo dei musicisti che dopo essersi accorpato al Slc-Cgil è stato lasciato cadere come una pera cotta) o comunque poco radicali (penso a Cresco, che pur reclamando il reddito di esistenza per artisti e, potenzialmente, per altri precari, si attesta su una posizione incentrata su un lavoro di pressione sulle istituzioni pubbliche e di erogazione di servizi specifici per i lavoratori). Tuttavia, ritengo importante a mio avviso registrarli e analizzarne i motivi della sconfitta per rilanciarne le lotte. Le quali, in fondo, prendono le mosse da quella pulsione trasversale a un discorso antirappresentativo della cultura imperniato sull’uso dei corpi, che si sta rivelando efficace per aprire una breccia nell’attuale sistema biocapitalistico del comando e del profitto.
Le vecchie divisioni cui facevo riferimento all’inizio, poi, sebbene più sfumate, non sono del tutto svanite, e, in seguito al Teatro Valle, si presentano soprattutto come diversi gradi di temperatura politica. Se la cesura del Teatro Valle Occupato è stata registrata sicuramente nell’ambito della danza, e in qualche modo dalle antenne più sensibili della musica, in questi campi non è conosciuta né interpretata come una possibilità concreta di azione. Manca ancora un tentativo o anche solo un’ipotesi di traduzione di una presa di posizione così radicale al di fuori del teatro e, in particolar modo, nella musica, nonostante sia questo un mondo che da decenni porta avanti tentativi di forme autorganizzative finalizzate al sostegno economico e all’autonomia culturale. Va poi considerato che la musica, sebbene politicamente meno “calda” del teatro dal punto di vista della mobilitazione, sta attraversando una profonda ristrutturazione economica. Non avendo mai potuto contare su fondi pubblici (destinati all’opera) e privati (destinati alla dance e alla canzone), il settore della musica indipendente sta integrando nella propria economia reti sociali più o meno virtuali in modo molto più avanzato rispetto al grado di compenetrazione dell’innovazione capitalistica. Per farla breve, la fine del Cd non consegna solamente ad iTunes lo strapotere delle quattro vecchie detestabili majors della musica mondiale, ma mina alla base anche l’imprenditoria locale delle etichette indipendenti, aprendo nuove forme di autorganizzazione attraverso il crowdfunding o altre forme organizzative basate sulla prossimità tra pubblico e artista. Come dare la voce del comune a questo corpo culturale? O meglio, come tradurre la lingua del comune teatrale in quello musicale? Come unire, ricomporre senza soffocare le istanze con parole d’ordine reificate?
Lavoro, non-lavoro e rifiuto del lavoro
La cultura viene esperita da diversi suoi protagonisti come critica, come recupero di istanze del disordine e, infine, come rifiuto del lavoro. Il rifiuto del lavoro non si discosta mai da un discorso prettamente economico e organizzativo. Spesso però si articola in un ambio alternativo a quello del lavoro “vero”, soprattutto laddove mancano finanziamenti pubblici (musica indipendente). E così facendo, dà man forte a un intenso autosfruttamento e, soprattutto, riproduce ideologicamente una distinzione tra lavoro materiale e immateriale, e ridefinisce cultura alta e bassa sancendo l’unione tra successo commerciale e Tradizione (Vasco Rossi alla Scala). Questo è un problema di fondo che si articola in quella gamma di rivendicazioni sindacali attorno alla tutela dei lavori dello spettacolo, all’allocazione dei finanziamenti pubblici e, soprattutto, ai modelli di gestione del comune che stanno affiorando dalle esperienze più avanzate. In questo campo mi sembra maturo il momento di articolare il reddito di esistenza in tattica.
Azioni e orizzonti
Tali questioni vorrebbero risolvere il nostro lavoro nei molteplici processi in atto nel mondo dello spettacolo, nella speranza di ibridarli e di accentuarne l’intrinseco antagonismo. Stimolare e partecipare a forme di autorganizzazione e/o mutuo soccorso, alla presa di parola e di azione, alla liberazione di spazi e alla presenza dei territori.
* Testo scritto a partire da un’inchiesta sul loisir e i lavori dello spettacolo.