Macao: interroghiamoci sul senso del lavoro
di PAOLO CAFFONI*
Una certa idea di politica
Non sono ancora in molti a chiedersi realmente in cosa consista quella “strana moltitudine” di sommosse attorno alla quale si riorganizza oggi in Italia una diversa forma di soggettivazione politica (l’occupazione del Teatro Valle, il Cinema Palazzo e L’Angelo Mai a Roma, Macao a Milano, il Sale Docks e il Teatro Marinoni a Venezia, L’Asilo della Creatività e della Conoscenza di Napoli, il Teatro Coppola di Catania, i Cantieri Arsenale e il Teatro Garibaldi Aperto a Palermo).
Piuttosto che riconoscerne una discontinuità sostanziale rispetto alla tradizione liberale e alle sue tendenze riformiste, ci si ostina a voler misurare con i paradigmi morali della “buona politica” e della “buona arte”, quello che in realtà è un orizzonte politico senza centri o periferie, né competenze specifiche riconducibili a una o l’altra categoria.
La distinzione fra “contenuto politico e capacità comunicativa” – più volte usata dai commentatori nei mesi passati – è qui del tutto inefficace nel descrivere una soggettività che emerge al di là dei rapporti di subordinazione al potere, o di negazione e conflitto all’interno di possibilità date. Questa si definisce piuttosto come forza di creazione e sperimentazione di una diversa maniera di vivere il tempo, il corpo, lo spazio, la comunicazione, il lavoro ecc. Una deviazione che apre alla possibilità di costruire “forme inedite dell’essere insieme e dell’essere contro.”
La giornata del 5 maggio 2012 è stata in senso vero e proprio un evento politico che ha prodotto, innanzitutto, una mutazione delle soggettività e del loro modo di sentire. L’occupazione della torre Galfa – edificio di 33 piani sfitto da 15 anni nel Centro Direzionale economico di Milano – segna un cambiamento nella distribuzione dei desideri, delle percezioni singolari e collettive che non trova alcun corrispettivo nelle dinamiche di assegnazione disciplinare dei ruoli (il curatore, l’artista, il tecnico, l’esperto, il pubblico, ecc.) e degli spazi (il museo, la banca, l’università, ecc.), così come si effettuano nella cosiddetta economia dell’evento.
Questa differenza è stata espressa chiaramente dalla parola d’ordine “Se non ci fosse bisognerà inventarlo” che ha accompagnato l’apertura di Macao, nuovo centro per le arti e la cultura di Milano. L’enunciato non designa tanto un’affermazione, ma quanto una situazione problematica, la costruzione di un problema che prima non esisteva (“Cos’è un nuovo centro per le arti e la cultura?”), aprendo all’invenzione di risposte possibili.
Nelle dieci giornate di occupazione della Torre Galfa si sono incontrate singolarità individuali e singolarità collettive (studenti, artisti, ricercatori, anarchici, marxisti, femministe, ecologisti, autonomi ecc.) che hanno praticato delle relazioni di co-funzionamento inedite, una relazione specifica dei corpi e delle enunciazioni che si sottrae alla condizione storica (il governo delle esistenze e la valorizzazione della cultura) per esprimere differenti forme di valore.
Il cambiamento nelle percezioni si è effettuato nello spazio urbano attraverso la ricomposizione continua dei corpi (nel grattacielo, per la strada, attraversando la città) e nell’uso delle macchine di espressione (i video, gli enunciati, i segni prodotti che hanno circolato sul web e sulla stampa). Questi corpi e questi segni, hanno dovuto scontrarsi con le effettuazioni che dello stesso evento hanno dato il potere disciplinare (il blocco, la polizia, lo sgombero) e i dispositivi di controllo (la cattura dei mass media, la comunicazione-consumo e la produzione dell’opinione pubblica) che guidano l’evento secondo la concezione d’impresa.
Arte, cultura, spettacolo e la soggettività imprenditoriale
Economia dell’evento a Milano significa: concerti, fiere, esposizioni, festival, settimane della… , ma anche e soprattutto Expo 2015, l’Esposizione Universale il cui giro d’affari, controllato dai flussi finanziari, sta investendo lo spazio urbano (con l’erezione di un nuovo orizzonte, lo skyline) e le forme di vita che lo abitano, trasformandole radicalmente.
Una “trasformazione antropologica”, come voleva Pasolini, che muove forme di vita e forme di lavoro affini alle dinamiche di azione del neoliberismo, e che riguarda anche e soprattutto i lavoratori del Terziario Avanzato. Fra questi, le cosiddette “industrie creative” vantano il maggior numero di avviamenti al lavoro: il solo settore dei media (cinema, televisione, editoria) occupa il primo posto nei flussi occupazionali con più di 66.000 entrate nel corso del 2011.[1] Una fetta non trascurabile della forza lavoro sul territorio, quindi, ma anche la più soggetta a condizioni d’intermittenza e precarietà strutturale. È proprio questo il settore in cui la ristrutturazione del mercato del lavoro – iniziata già con gli anni Ottanta – ha raggiunto massimi di flessibilizzazione e di esternalizzazione, mentre l’incidenza dei contratti a tempo indeterminato non supera il 10%.
A fronte dell’alto profilo professionale delle figure appartenenti a questo settore, in particolare per quanto riguarda i nuovi inserimenti – la cosiddetta “classe educata” secondo la definizione del primo teorico del Knowledge work – la domanda del mercato tende a orientarsi verso la bassa specializzazione o la prestazione gratuita, quella degli stagisti, come anche degli utenti e dei pubblici.
Un esempio concreto lo troviamo nel mondo della produzione audio-visiva. L’iper-specializzazione è promossa da “scuole dell’eccellenza” ed esperti come prerequisito fondamentale per il successo professionale di fotografi, direttori della fotografia, operatori o video-maker che investono anni di studio e consistenti cifre di denaro in corsi di alta formazione (master, specializzazioni, stage, ecc.). Mentre a vincere nel mercato del lavoro – grandi testate giornalistiche incluse – è per la maggiore il prodotto a più basso costo o a costo zero: la foto amatoriale fatta con il telefonino o il video caricato su internet attraverso le nuove mobile technologies.[2]
Guardando un simile scenario si potrebbe compararlo alla fuga delle aziende negli anni Novanta verso mercati del lavoro più convenienti, ma oggi la “rilocalizzazione” non riguarda il vicino Oriente, piuttosto lo spostamento d’ingenti investimenti dal lavoro professionale alle folle di pubblici, di utenti e di spettatori, la cui attività e attenzione è catturata e messa al lavoro in tempo reale. L’esempio è paradigmatico di un processo di svalorizzazione di competenze e delle expertise dei singoli a favore del lavoro sui grandi numeri, che non riguarda solo il segmento della comunicazione, ma coinvolge più in generale il mondo della produzione “immateriale”.
Nel campo della cultura e dello spettacolo è il mercato a certificare le competenze. Questo significa che a fronte della mancanza di un sistema di riconoscimento delle credenziali – il titolo di studio qui vale poco o niente – sono il numero delle esperienze lavorative, degli ingaggi, dei contatti e il nome dei committenti a “garantire” il grado di professionalità dei lavoratori, la loro possibilità di accedere a nuove committenze e a stabilirne quindi anche le possibilità di carriera. Non c’è da stupirsi se ci troviamo nella situazione paradossale in cui anche un lavoro sottopagato, o un tirocinio gratuito, all’interno di una grande firma è indispensabile pur di inseguire il sogno della realizzazione professionale.
Anche l’uso del termine “precario” risulta invertito rispetto al suo significato originario: figura di transizione che, attraverso il conseguimento di una carriera, muove verso uno status lavorativo definito – oggi “precario” indica per eccellenza una figura di indeterminazione il cui sbocco può essere il lavoro autonomo – privato però di qualsiasi tutela – o il susseguirsi di contratti a tempo determinato, per molti una scelta fra la disoccupazione e lo sfruttamento.
La sfasatura del rapporto fra produzione di nuova forza lavoro (creativi, lavoratori della conoscenza, cognitivi, ecc.) e la realtà d’impiego nel mercato del lavoro, è ormai stata sollevata come un problema da più fronti (associazioni e movimenti di precari, freelance e intermittenti) che rifiutano di svendere le proprie competenze o accettare lavori sotto-qualificanti pur di inseguire il conseguimento di una carriera.
Chiamato in causa, la risposta del Comune di Milano per il rilancio del settore – in linea con le politiche del ministero – non è stata in grado di comprendere l’articolazione della produzione e della produzione di soggettività così come messa in campo dalle università (private o pubbliche che siano), dalle banche e dalle imprese, attorno al miraggio di una “società della conoscenza”. Al contrario, le sue politiche per l’impiego nel campo della cultura sono subordinate all’ideologia neoliberale, e riaffermano il modello economico e soggettivo dell’imprenditore come unica forza trainante in grado di portarci oltre la crisi. Come affermato di recente l’assessore alla cultura Stefano Boeri: “Anche gli artisti devono farsi impresa”! Gli stessi apparati pubblici sono coinvolti in un processo di ristrutturazione che vede il ribaltamento del welfare nella forma del credito d’impresa: è la municipalità a farsi ora direttamente “promotrice dell’accesso al credito per persone normalmente non bancabili, ovvero escluse dal circuito del credito ordinario per la mancanza di sufficienti garanzie.”[3] D’altro canto, i figli di quello che una sola generazione fa era chiamato il ceto medio, attingono oggi per la maggiore all’unico welfare ancora disponibile, cioè quello familiare.
Il modello di sviluppo economico della città creativa mostra una contraddizione evidente, che andrebbe forse meglio considerata. Da una parte l’esaltazione del lavoro cognitivo/creativo e dell’impresa creativa promossa da istituti, esperti e pubbliche amministrazioni come “strumento d’innovazione nel tessuto sociale”. Dall’altra una politica che promuove il debito bancario e l’assunzione su noi stessi dei rischi che la grande impresa e lo Stato non sono più disposti ad accollarsi. Nel mezzo si gioca la truffa della città-Expo, ai danni di una classe di working poors in continuo aumento, a cui è chiesto di bilanciare una condizione di precarietà esistenziale con la promessa di una professione “glamour”.
Se cercassimo di “fotografare” il mercato del lavoro creativo/cognitivo alla luce di queste considerazioni, potremmo intravedere, neanche troppo nascosta, nelle ingiunzioni all’imprenditorialità e alla formazione d’eccellenza – purtroppo molto spesso bisogna indebitarsi anche solo per studiare – una politica di governo mirata alla rifinanziarizzazione delle banche e alla salvaguardia dei possessori dei titoli del capitale.
Varrebbe allora la pena problematizzare il ruolo, dentro e fuori la crisi, dei modi di soggettivazione legati al lavoro della conoscenza, e iniziare ad “agire” strade ancora non battute.
Nella differente articolazione di queste tendenze si gioca il presente e il futuro della lotta di Macao, e della rete di movimenti su scala nazionale. La sfida che ci siamo posti risiede nel mettere al centro l’interrogazione sul senso del lavoro, una cultura del lavoro, quindi, che solo marginalmente riguarda la particolarità del lavoro culturale, così come descritto da Luciano Bianciardi in un famoso romanzo.
La cultura come conflitto
Il conflitto iniziato con l’apertura di Macao ha luogo precisamente nell’articolazione di differenti dispositivi che effettuano l’azione finanziaria sulla città (la speculazione immobiliare) e allo stesso tempo la sottraggono all’uso pubblico, riaffermando la centralità della proprietà privata.
A partire dal rifiuto di una città-impresa o di una società-impresa, il movimento dei lavoratori della cultura ha negato la subordinazione delle proprie condotte al rapporto capitale-lavoro e ha affermato la sua forza innovatrice attraverso la formulazione di nuove possibilità.
L’occupazione della Torre Galfa è stata la prima rottura con i dispositivi giuridici di assegnazione dello spazio urbano, che operano secondo la dicotomia pubblico/privato, assegnatario/proprietario. Questa prima infrazione della “legalità”, ha costituito un potente fattore di de-soggetivizzazione e di creazione di nuove domande (“cos’è uno spazio comune?”) che ha agito da forza trainante verso la problematizzazione di tutta un’altra serie di divisioni (rappresentante/rappresentato, individuale/collettivo, docente/studente, autore/pubblico, artista/non-artista, impiegato/freelance, lavoratore cognitivo/lavoratore materiale ecc.). Le polarità preesistenti sono state aperte e attraversate da una tensione che tende a oltrepassarle e a produrre nuovi modi di soggettivazione. Rimane comunque la relazione specifica dei corpi nello spazio a costituire il primo e principale vettore di “uscita”.
Lo scarto rispetto ai dispositivi di governo è effettuato su due piani asimmetrici: da una parte, con la presa dello spazio, l’occupazione, il movimento ha espresso una chiara divisione fra “loro e noi”, cioè una contraddizione con le istituzioni e le regole della rappresentanza, così come a suo tempo aveva fatto anche il movimento operaio.
Dall’altra, negando la propria riduzione all’interno della dialettica con il potere istituzionale, ha creato la possibilità per una “cura di sé”, una nuova capacità di auto-organizzazione e auto-definizione che non trova alcun corrispettivo nella tradizione delle lotte in fabbrica.
La negazione dell’assoggettamento ai dispositivi di governo (la cosiddetta Grande politica) e dell’asservimento ai flussi del capitale, ha aperto il movimento alla sperimentazione e alla costruzione di differenti relazioni, dispositivi, istituzioni in grado di sviluppare la riconversione delle percezioni e dei valori che sono stati espressi durante l’evento.
Questa “politica della differenza” – che è sottrazione e creazione allo stesso tempo – ha il suo fondamento nei modi di essere delle donne, ed è il frutto del lavoro sulle pratiche di relazione dei movimenti femministi a partire degli anni Settanta. È stata proprio la forte presenza delle donne nella costruzione di Macao a dare le forme e i modi all’azione del movimento, ponendo come valore centrale la qualità dello scambio più che il risultato da raggiungere, e affermando, quindi, la crisi di tutto il pensiero del management.
A fronte della deregolamentazione dei diritti del lavoro e dei diritti sociali, Macao ha proposto una mobilitazione fatta di alleanze estremamente mobili, una pluralità di relazioni che fanno dell’uso e della pratica (dello spazio, delle tecnologie, delle tempo ecc.) il punto di partenza per sviluppare dei saperi propri e delle competenze collettive – in contrapposizione al sapere dell’esperto – che definiscono di volta in volta i soggetti e gli oggetti politici da investire.
In questo senso, la strutturazione del ciclo produttivo interno a Macao tramite una coordinazione composta da “tavoli di lavoro”, si è affermata come misura dell’articolazione fra “relazioni individuali” e “relazioni associative” non sottoposte alle regole della rappresentanza. I tavoli sono stati organizzati secondo la diversificazione delle pratiche, delle iniziative, delle affinità culturali e personali, e hanno costituito il primo luogo di aggregazione attorno a cui sperimentare una diversa forma di ricomposizione del lavoro (nella sua dimensione sociale) e delle soggettività dei lavoratori.
La coordinazione non è un corpo organico finito, come i sindacati, ma una rete mobile, aperta, conflittuale, in cui una pluralità delle associazioni (i tavoli, le assemblee, le alleanze, le amicizie, reti nazionali, ecc.) sono luoghi di discussione ed elaborazione delle conoscenze, dei modi di fare e modi di dire in continua trasformazione. In essa trovano spazio sia la riproduzione delle credenze e delle morali derivate dall’opinione pubblica maggioritaria, ma anche pratiche politiche e pratiche estetiche estremamente innovatrici, che attraversano in continuazione i gruppi, gli individui, le enunciazioni e gli spazi.
Termini di paragone
Due considerazioni a margine per porre in relazione l’esperienza di Macao, ad oggi ancora molto giovane, ed altre esperienze “amiche” dal modo del lavoro.
La prima riguarda i “luoghi del lavoro”. Al disorientamento che deriva per la maggiore dalla mancanza di un luogo di lavoro fisso, negli ultimi anni si è cercato di sopperire con la formazione di spazi cosiddetti di coworking, generalmente dedicati ai lavoratori autonomi di tipo cognitivo/creativo. Questo modello associativo ha in merito la grande capacità di “fare rete” non soltanto e non principalmente su piattaforme “immateriali”, e di rivitalizzare l’idea del lavorare assieme. Allo stesso tempo, il progetto sembra conservare alcune specificità tipiche del professionismo emerso negli anni Ottanta e Novanta – con la diffusione dell’ideologia legata alla società della conoscenza – non ultima fra queste, rimane la strumentalità della relazione verso il profitto individuale.
Come luogo di lavoro, Macao si discosta dal modello del coworking per la volontà di essere e lavorare assieme non riducibile ai codici dell’economia. Si entra a far parte di Macao per lavorare a un progetto comune: dalla cucina alla pulizia, dall’impiantistica alla produzione semiotica. Questo scarto implica un forte processo di de-soggettivazione, che investe direttamente la divisione del lavoro. Uno spirito fortemente legato alle forme del vivere sociale, che apre forse alla possibilità di pensare il rapporto con il lavoro e il luogo del lavoro svincolandolo dalla relazione con il capitale, e recuperare invece il concetto marxiano di “lavoro vivo”.
La seconda riguarda le “forme del lavoro”. A differenza di un’esperienza come quella degli intermittenti e precari dello spettacolo francesi,[4] che fra i primi hanno sperimentato la forma politica della “coordinazione”, la composizione di Macao, per quanto riguarda le figure contrattuali, raggiunge un massimo di eterogeneità. Come struttura per definizione “aperta”, include l’intero spettro delle tipologie contrattuali, mentre gli intermittenti francesi erano accomunati da uno speciale regime d’indennizzo (che hanno tentato di estendere anche ad altre tipologie contrattuali). Gli intermittenti si sono spinti alla rottura con i sindacati principalmente a seguito dell’attacco portato dalla MEDEF (equivalente della nostra Confindustria) al loro regime d’indennità di disoccupazione. Diversamente, alla base dell’iniziativa di Macao si trova l’emersione di un desiderio di creazione e sperimentazione, una spinta vitale quindi (ben rappresentata dallo striscione che ha capeggiato la Torre Galfa durante i dieci l’occupazione: “Si potrebbe anche pensare di volare”), che mal si concilia alla negatività comunemente associata al termine “precario”.
Il tempo, i flussi e l’urbano
15 maggio. A seguito dello sgombero dalla Torre Galfa – avvenuto per diretto ordine del Ministero degli Interni – il coordinamento di Macao si è frammento e ricomposto in tempi e spazi differenti. La percezione collettiva è quella di una modulazione che tende a indirizzare i flussi materiali (il container di Ligresti) e i flussi di conoscenza (il tempo dello spettacolo) nei canali prestabiliti, e ripristinare quindi la circolazione delle persone, delle informazioni e delle merci secondo modalità proprie alla città-impresa.
Dopo quattro giorni di presidio nelle strade adiacenti al grattacielo, arriva la seconda rottura con la governance della città: il rifiuto dello “spazio per l’arte” offerto dal Comune e la rivendicazione di una dimensione “aperta” del paesaggio urbano.
19 maggio. L’attraversamento della città avviene seguendo vettori diversi, la discesa nella rete metropolitana e il “passaggio veloce” per le vie del centro storico, fino a trovare nuova forma unitaria nell’occupazione di Palazzo Citterio, in zona Brera, il progetto mai realizzato di un Louvre a Milano. Qui ha luogo lo scontro con i dispositivi di cattura dei pubblici, che fanno del turismo e del consumo culturale il motore principale dell’industria del lusso.
22 maggio. Secondo sgombero. Le forze armate chiudono le strade del centro per evitare l’afflusso al presidio.
Nelle successive quattro settimane il coordinamento dei tavoli è esploso nella città (nei teatri, nelle sale prova, negli studi, nei circoli, ecc.), assembramenti mobili che fanno delle tecnologie dell’azione a distanza lo strumento per ricomporre nel tempo la frammentazione dello spazio urbano. Una molteplicità di luoghi e tempi di progettazione e cospirazione.
16 giugno. Diversi gruppi di persone si contraggono e rilasciano nuovamente nello spazio urbano. Dal primo mattino attraversano spazi abitati, spazi verdi, arterie della mobilità in città, trasporti pubblici, cinema abbandonati. Un’azione ludica, che ricorda da vicino le derive situazioniste, nella loro capacità di mettere in crisi le temporalità accelerate del quotidiano urbano e una critica radicale all’“impiego del tempo”. La sera dello stesso giorno, Macao occupa una palazzina liberty, ex-sede della Borsa del Macello delle carni in Viale Molise 68, dove ancora si trova oggi.
[1] Dati dell’Osservatorio permanente sulle dinamiche del mercato del lavoro del Comune di Milano.
[2] Ad aprile di quest’anno la versione online del quotidiano la Repubblica lancia una nuova campagna per potenziare il proprio servizio video: “Siamo tutti reporter” è lo slogan del “primo grande esperimento di crowdsourcing giornalistico del nostro Paese”. Il bando, che prevede un compenso di 5 euro lordi per la pubblicazione di un video, è solo temporaneamente bloccato per le proteste dei professionisti che reclamano salari minimi.
[3] Parole dell’assessore alle politiche del lavoro Cristina Tajani a proposito delle attività della neo-costituita Fondazione Welfare Ambrosiano. Un progetto che, oltre alla partecipazione del Comune e della banche Intesa San Paolo e Banca Popolare di Milano, ha raccolto l’appoggio della Camera di Commercio e dei tre maggiori sindacati italiani (CGIL, CISL e UIL).
[4] Con particolare riferimento alla Coordination des intermittents et précaires d’Île-de-France.
* Macao, Milano.